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Autore: zagabria    14/06/2011    2 recensioni
La caccia, da sempre, è stata oggetto di varie opinioni controverse: molti affermavano che fosse un passatempo crudele, altri uno sport, per altri ancora era una necessità. Ed è in quest’ultimo caso che Ettelen si trovava, con un arco in mano ed il dardo pronto a fendere l’aria in caso di avvistamenti di selvaggina. Si muoveva agilmente tra le impenetrabili fronde degli alberi ed arbusti che raggiungevano l’altezza della sua vita. Nonostante indossasse un semplicissimo paio di calzoni marroni ed una casacca verde non aveva affatto un aspetto trasandato, tutt’altro. Era abbastanza attento per quanto riguardava il suo aspetto e la sua figura si ergeva in tutto il suo metro e novantotto con grande fierezza e fascino.
Genere: Fantasy, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chapter. 2

 

Per la terza volta in poche ore Ettelen ammirò la radura in cui si trovava, il sole splendeva raggiante e il fiumiciattolo gorgogliava senza sosta. Nell’aria c’era qualcosa di magico e la tranquillità regnava sovrana. Il giovane si avvicinò alla fonte e si specchiò in essa, ma l’immagine che l’acqua gli restituì non fu quella che si aspettava: era un cervo. Era il cervo; quello ucciso ore prima.

“Ma cosa..?” pensò incredulo; non poteva certamente essere lui il riflesso nella limpida acqua; ma tutto gli faceva credere il contrario: i movimenti degli occhi, delle orecchie, tutto combaciava con quello che il fiumiciattolo gli rimandava. Alzò la testa, facendo attenzione che le corna non andassero a sbattere contro qualche albero, e rivolse lo sguardo intorno a sé. La radura era esattamente come la ricordava, il verde delle fronde più alte, il gorgoglio della fonte e i vari giochi di luce; il tutto, però, visto da una diversa prospettiva. Era sconvolto, ma il suo udito venne attratto da un rumore di foglie e, in una frazione di secondo, sentì un dolore acuto alla base del collo. Vide una freccia conficcata nelle sue carni, che aveva provocato una ferita dalla quale usciva un fiotto di sangue scarlatto. Si accasciò a terra, la vista annebbiata dalla vita che lo abbandonava e dagli schizzi d’acqua. Poté vedere solo la figura di Fanie che usciva dal cespuglio, con l’arco in mano ed un altro dardo pronto a fendere l’aria e dargli il colpo di grazia; sapeva che sarebbe stato inutile tentare di fuggire, la punta delle frecce era avvelenata e sarebbe morto nel giro di pochi secondi. La ragazza s’inginocchiò accanto al corpo sofferente, ma ancora conscio, bisbigliando con un disumano e sadico sorriso sulle labbra - Sei solo uno stupido animale. – e poi scesero le tenebre.


Ettelen si sedette, ansimante e sudato, e vide come tutto ciò che era attorno a lui fosse normale e che le sue mani fossero delle vere mani, il suo volto, un volto umano e che, soprattutto, non fosse ricoperto di pelliccia. Il bosco era buio e silenzioso e Fanie, sdraiata sul proprio copri-abito nero, lontana dal fuoco, gli dava le spalle, accoccolata su se stessa. Pensò che quella posizione fosse un segno che sentisse freddo quindi si alzò e, preso il suo mantello in tessuto, marrone come i calzoni, si rannicchiò accanto alla ragazza e la coprì con questo, attento a non svegliarla. Osservò il suo volto e rifletté che non l’avesse mai vista, fino a quel momento, così da vicino; i capelli stranamente bianchi che luccicavano alla luce delle fiamme e la sua pelle, così pallida, stupefece il ragazzo. Le piccole mani erano poste sotto la testa in modo che non poggiasse a terra ed il respiro era regolare. Continuò a guardarla per uno spazio di tempo indefinibile finché non ebbe un sussulto quando Fanie sussurrò qualcosa di disconnesso ed incomprensibile. L’unica cosa che poté capire fu “Ithilbor”, ma non era neanche tanto certo che quella fosse una parola.

Non volendo disturbare ulteriormente il suo riposo, si allontanò e, poggiando la schiena contro un masso liscio, si perse nei meandri dei suoi pensieri finché non si riaddormentò, senza che se ne accorgesse.

All’alba si svegliò, la schiena dolorante e la collera in volto: Fanie era scomparsa.

Sospirò nervoso, domandandosi dove fosse mai andata così presto. La chiamò per nome un paio di volte e solo al terzo urlo ricevette come risposta un secco: - Che hai da strillare di prima mattina?! Dormi! – la voce proveniva dall’alto. Sollevò lo sguardo e individuò la figura della ragazza che, tenendo la veste, saltellava da un ramo all’altro di un’enorme quercia.

- Cosa fai lassù? – le domandò gesticolando notevolmente.

- Fatti gli affari tuoi e pensa a sistemare il cadavere. –

Ettelen era sbigottito. – Quale cadavere?! –

Ci fu un rumore di frasche spezzate ed una sequela di sussurrate imprecazioni. – Questi stupidi rami! – poi rispose alla domanda. – Il cadavere dell’animale che hai ucciso ieri. – seguito da un borbottato - Ovviamente non ricordi le tue vittime.. Chissà quante sono.. – riprendendo poi il discorso precedente con voce più forte e chiara. – Cerca di prendere quanta più carne possibile! –

- Perché? –

Fanie si fermò in un punto indefinito. – Fallo e basta! Fine delle domande. –

- Ma... – i rumori di foglie ripresero ed Ettelen capì che fosse del tutto inutile porre ulteriori domande. Preso dunque il coltello che teneva accanto alle daghe, in una fodera a parte, iniziò a scuoiare la bestia, prestando comunque molta attenzione ai rumori sinistri che provenivano dalla sommità degli alberi. Accovacciato, armeggiava concentrato e la carne che riusciva ad ottenere la poneva, tutta insieme, da parte su delle foglie fresche e verdi intrecciate. Da alcuni minuti non sentiva i movimenti della giovane e pensò si fosse fermata a riposare.

- BUONGIORNO! – invece gli urlò quella alle spalle, le mani sui fianchi ed alcune ciocche argentee davanti al volto arrossato.

- Fanie! Ma che ti salta in mente?! Mi hai fatto prendere un colpo. – le disse irritabile.

- Non dirmi che non mi hai sentita arrivare..? – chiese con aria di pura innocenza; dal suo tono di voce, però, Ettelen comprese che l’avesse fatto di proposito.

“Una piccola vendetta” pensò, ironizzando, tra sé e sé.

- Hai acceso il fuoco? – gli chiese ad un tratto, interrompendo le sue elucubrazioni.

- Ehm... –

- Sei uno sfaccendato! – lo stuzzicò e, passandogli accanto, sistemò della paglia secca tra i più grandi del focolare, prese le due pietre focaie poste accanto ad un mucchietto di legna accatastata lì vicino e incominciò a sfregarle senza che nulla accadesse. Ettelen non disse nulla, ma stette dietro di lei, in disparte, a trattenere il riso.

- Continui a ridacchiare o mi aiuti? – il suo tono era sarcastico; il ragazzo allora si avvicinò e, presi i due sassi dalle mani ceree, con colpi decisi riuscì a generare delle scintille che, però, non appiccarono il fuoco.

Poi, porgendogliele nuovamente, le disse. – Adesso prova tu. Quando vedi del fumo tra la paglia inizia a soffiarci delicatamente. Se invece ci sono fiamme lo metti in quel mucchio di legna. –

Fanie annuì. – Va bene, ora torna a quello che stavi facendo. – e soltanto quando il giovane si allontanò abbastanza iniziarono i maldestri tentativi, interrotti di tanto in tanto da delle occhiate furtive che lanciava nella sua direzione. Si schiacciò tre volte le dita tra le pietre, innumerevoli volte spense le fiammelle soffiando troppo energicamente e, quando le lingue di fuoco furono abbastanza forti da bruciare i rami precedentemente sistemati, si scottò. Alla fine, dopo circa mezz’ora, il fuoco iniziò le sue danze e con questo anche Fanie, entusiasta per la riuscita dell’impresa. –Ettelen, guarda! – gli urlò saltellando ed il ragazzo, voltandosi, le rivolse un sorriso appena accennato.

– Brava! È stato difficile? – lei si osservò le mani, con qualche lieve ustione e graffi qui e lì, e rispose con un incerto – No... –.

Ettelen allora si allontanò da ciò cui si stava dedicando e si avvicinò alla giovane, prese le sue mani tra le proprie ed osservandole le disse, con una certa noncuranza nella voce. – Non è niente, mettici un po’ d’acqua. -

Al ché Fanie ritrasse bruscamente le mani, domandando - Hai finito lì? –

- Sì – rispose incerto il ragazzo. – A cosa ti serve? –

- Dobbiamo cuocerla, si conserva meglio ed è più facile da trasportare che.. – si bloccò, lottando con il suo stomaco che andava su e giù per ciò che rimaneva del cervo. - ..con tutte le ossa. – si riprese e l’espressione di Ettelen, dopo aver annuito, si tramutò in una non molto convinta. – Trasportare? –

- Sì, trasportare. – ma il ragazzo continuò a fissarla. – Trasportare.. – ripeté allora Fanie - ..portarla via, caricarla addosso e camminare.. – ed intanto mimava ciò che diceva, gesticolando.

- Il concetto è chiaro, il problema è perché. – ma la giovane volle confonderlo, per cambiare l’argomento di discussione.

- “Perché” cosa? –

- Cosa.. cosa?! –

- Ma chi? –

- Cosa dici? –

- Ovvio! –

- Non sto capendo più niente! – sbuffò il ragazzo, scompigliandosi i capelli mentre Fanie lo guardava con sufficienza e borbottava parole  come “Proprio un babbuino doveva capitarmi?” oppure “Ma tutti i pazzi li incontro io?” passandosi una mano sul volto per trattenere e nascondere quell’istinto primordiale di spalmarlo sul tronco di un albero che iniziò a fissare con aria sognante, tanto che Ettelen si voltò nella direzione del suo sguardo per capire cosa avesse così tanto attratto la sua attenzione.

- Sto progettando il tuo omicidio, tranquillo. – gli disse con molta indifferenza ed un sorrisetto sadico.

Il ragazzo allora sospirò e chiese, con una pazienza forzata. – Perché devi trasportare la carne? -.

- “Devo”? la porterai tu. – così, affermando ciò, si avvicinò ai pezzi messi da parte e, infilzandone alcuni con un ramo resistente, li pose sul fuoco.

- Ma dove?! – si stava spazientendo e questo lo portò inevitabilmente ad alzare la voce, più dura di come l’avrebbe voluta. – Dov’è che vorresti andare? -.

Fanie non distolse lo sguardo dalle fiamme, ma la sua inflessione di voce si alterò, diventando inquieta. – Io.. Ettelen, ho bisogno del tuo aiuto. – e tra loro scese un silenzio imbarazzato. L’unica reazione che ebbe il giovane fu un lungo sospiro; doveva calmare i nervi e lei peggiorava solo la situazione. Non era fatto per stare in compagnia, soprattutto di una donna, proprio a causa del lato del suo carattere leggermente misogino. “È solo colpa sua se il mio atteggiamento non è dei migliori.” Pensò con intensa certezza. Forse si aspettava una come tutte le altre, che magari gli fosse caduta ai piedi solamente guardandolo, oppure che gli rispondesse con il rispetto dovuto ad un uomo. Alla fine lei cos’era? Una femmina, sola, in un bosco; debole. Più la guardava, più quella gli sembrava indifesa e dipendente solo ed esclusivamente dal suo buon cuore. Per un attimo in lui si mosse la compassione verso quella piccola ed insignificante donnicciola che era giunta presso di lui implorandolo di aiutarla e di avere pietà per lei, che però non meritava affatto.

Gli aveva risposto male.

Lo stava trattando come un essere inferiore.

Non teneva in considerazione il fatto che la sua esistenza fosse di minore importanza e che l’avrebbe potuta uccidere se solamente l’avesse desiderato.

I pensieri che, invece, riempivano la mente di Fanie erano di tutt’altro genere. Non rifletteva affatto sul ragazzo alle sue spalle, o su quello che la occupava in quel momento, di certo non sul bosco, e il cervo era passato in secondo piano; le sue considerazioni erano di maggiore spessore rispetto a quelle di Ettelen, troppo impegnato a sciabordare nei suoi preconcetti malsani. In lei c’era del pentimento, di aver detto quelle poche parole al ragazzo che, magari, gli avrebbero permesso di vederla fragile, e quel terribile senso di ansia che divora dall’interno e in silenzio. Era confusa e non sapeva cosa fare, si sentiva sola, priva di qualcuno cui chiedere aiuto.

Solo in quel momento le venne un’idea, ma Ettelen era necessario per compierla.

Intanto il ragazzo, riemerso dalle sue meditazioni, la osservava incuriosito e notò come la sua espressione fosse insolita: i suoi occhi sanguigni erano persi nelle fiamme, sbarrati e immobili. Dopo alcuni secondi tornò in sé e, rivolgendosi verso il giovane domandò a questi cosa non andasse, molto perplessa ed infastidita dai suoi sguardi eloquenti.

- Niente, eri... strana. –

- Ero solo sovrappensiero. – finì così il discorso, allo stesso modo di come era iniziato: con distacco.

Il silenzio tra loro sembrava facesse scorrere più lentamente il tempo, rendendolo noioso e sgradevole, nonostante entrambi fossero manualmente impegnati. L’uno lucidava le sue daghe, l’altra faceva attenzione al cibo che cuoceva sulla pira; ma, ad un tratto, come il frastuono che rompe il silenzio, l’espressione di Fanie mutò, diventando una maschera di terrore e, anche se non era possibile diventasse più pallida del normale, dai suoi occhi trapelava panico. Si alzò e, voltatasi verso Ettelen, sussurrò turbata. – Dobbiamo andare, ora! –

- Cosa..? – non riusciva a comprenderla, ma la ragazza era troppo agitata per ascoltarlo e concedergli attenzioni. – Calmati, che succede? –

- Stanno arrivando! – e si coprì il viso con le mani mentre il suo corpo veniva percorso da forti tremiti di paura.

A quel punto, allora, anche Ettelen si sollevò da terra, percorrendo quella poca distanza che lo separava dalla ragazza, le poggiò le mani sulle spalle e le parlò con voce ferma e dura. – Sta’ calma! Si può sapere cosa succede? –

- Non avranno pietà.. – lo ignorò, presa da quell’attimo di alienazione scatenata dal terrore. Il giovane sospirò inquieto, annuì in silenzio ed iniziò a raccogliere le loro cose, intuendo che quello non fosse il momento più adatto a porle delle domande, ma che comunque si ripromise di rivolgere in seguito, utilizzando qualunque mezzo di convincimento che si fosse presentato necessario usare.

Indossati i mantelli, si diressero, sotto insistenza di Fanie, alla quale aveva affidato il prezioso arco con le frecce dalla punta avvelenata, verso nord; il sole era ancora alto, ma veniva oscurato di tanto in tanto da alcune nuvole di passaggio.

“Spero solo che non piova.” Pensò Ettelen, sconfortato.

Camminavano solo da alcuni minuti, durante i quali la rabbia del ragazzo era cresciuta a dismisura, sfogata, inefficacemente, attaccando i vari arbusti che li ostacolavano in quel punto, tagliandoli con foga con la spada che teneva nella dritta, mentre la sinistra scacciava i fastidiosissimi insetti che prolificavano a causa dell’umidità del sottobosco; era seguito dalla piccola figura di Fanie, coperta dal suo manto nero accompagnato dal cappuccio che le celavano il volto e, in generale, l’intera fisionomia, alterandone i caratteri. Ad un tratto Ettelen arrestò il passo e, voltatosi, le disse con toni tutt’altro che cordiali. – Ora mi spieghi cosa succede, lo esigo. -  andando a sottolineare quell’ultima parola in modo fastidiosamente stentoreo.

- Tu ora continui a camminare sen.. – ma si interruppe a metà discorso poiché la fredda lama della daga le sfiorò il collo marmoreo e sottile, proprio sotto al mento, ma nonostante tutto rimase tranquilla, limitandosi a fissarlo negli occhi.

- Dunque, cosa dicevi? – un sorriso malvagio sulle labbra e le sopracciglia alzate accompagnavano con durezza quelle parole.

- Sei uno stolto. – la voce della ragazza era fredda e apatica. – Sposta quella spada, subito. – ma Ettelen non  si mosse e Fanie si vide costretta a continuare a parlare, amareggiata. – Forse non ti è chiara una cosa.. Uccideranno anche te: mi stai aiutando e sei inutile per loro. –

- Inutile?! Sono un buon combattente e armato! – l’aveva colpito nel suo punto debole.
La testa nascosta dal tessuto scuro si mosse a destra e sinistra, si stava spazientendo anch’ella. – I tuoi blasoni son vani poiché non avresti neanche il tempo di usarli. – e con due dita scostò la lama da sé e gli passò accanto. – Vattene via. – mormorò delusa prima di addentrarsi nell’erba alta. Sapeva di doversi sbrigare e non poteva attendere che Ettelen chiarisse tutti i suoi dubbi e di certo non provava una grande simpatia nei suoi confronti; dopotutto, lei lo stava solo aiutando. E come l’aveva ringraziata? Rivolgendole contro una spada, dando prova di quanto fosse infantile. Intanto infieriva sui rami che spezzava con forza con le mani, graffiandole, e anche se spesso l’ingombrante mantello si impigliava tra questi, Fanie riusciva suo mal grado ad avanzare, liberandosi con energici strattoni.

Non passò molto tempo che si fermò e disse beffarda. – Perché sei qui? Vuoi infilzare qualcuno con il tuo coltellino? O farmi vedere quanto tu possa essere coraggioso? – stette un attimo in silenzio, in attesa di una reazione. – Perché, sai, non ci sei riuscito! – concluse schernendolo e non si voltò quando alle sue spalle il suono del movimento delle foglie riempì l’aria.

- Hai un ottimo udito, sono certo di non aver fatto alcun rumore. – proferì Ettelen, uscendo da un cespuglio di more privo di frutti.

- Qualsiasi cosa che si muova provoca un suono, lo voglia o meno. – e così i due tornarono ai posti precedenti, con un cambiamento però: questa volta Fanie ridacchiava sommessamente alle sue spalle.

- Cos’hai da ridere?! –

Così la ragazza si portò le mani davanti al viso, per nascondere il riso sempre più forte. - Paura, eh?- riuscì a dire solo quando si calmò e riuscì malamente a ricomporsi.

- Non fai ridere. – sentenziò lui, serio. – Perché lo pensi? –

- Beh.. non te ne sei andato. –

- Non potevo lasciare una donna sola in un bosco. –

- Cosa c’è di male? –

Il giovane le rispose con grande certezza. – Le donne sono deboli. –

- Ma se ti basi sui luoghi comuni allora tutti gli uomini sono stupidi. –

 

Numerosi erano gli arazzi che coprivano e tentavano di nascondere la grigia e fredda pietra dei muri; tutti rappresentavano scene macabre di torture e caccia frenetica. In uno, il più inconsueto, era ritratto uno strano essere, per metà animale e per metà uomo: un fauno, la cui parte inferiore, dalla vita in giù, era da caprone, era posto al centro della raffigurazione priva di una qualsivoglia indicazione spazio temporale, giacché mancavano riferimenti al paesaggio circostante. Ma la particolarità di questo arazzo non stava nella figura principale, bensì in ciò che fungeva da cornice: un serpente enorme, nero, nella cui testa piatta risaltavano una coppia di occhi bianchi, privi di pupille, mentre dalla bocca aperta fuoriuscivano delle lunghe ed aguzze zanne ed una lingua biforcuta, di pece anch’essa. Una vista inquietante, che infondeva un certo timore, incrementato dalla penombra e della completa assenza di rumori nelle quali era immersa la sala a causa delle alte finestre coperte da pesanti tendaggi in velluto rosso, scuro come il sangue. Il mobilio non era numeroso, era presente solamente un tavolo piuttosto spazioso in raffinato legno di castagno, sprovvisto però di sedie attorno, sul quale fumeggiavano liquidi policromi, che riempivano una vasta gamma di colori, contenuti in degli alambicchi trasparenti.

Invece, al centro della stanza, erano stati incisi, con profondi graffi nelle rocce che formavano il pavimento, una serie di svariati simboli che costruivano un complesso disegno e, tra essi, si ergeva una figura, immobile e silenziosa. Le sue caratteristiche fisiche non erano identificabili a causa sia del buio che di un velo candido che formava delle pieghe mentre scendeva lungo il corpo che ricopriva, il viso occultato e le mani fasciate da un paio di guanti.

Ad un tratto un urlo acuto squarciò il silenzio.

Poi un altro.

Ed un altro ancora.

Appartenevano ad un uomo e venivano attutiti dalla pesante porta in legno che separava i due ambienti collegati. Ad accompagnare le urla giungeva un acuto odore di bruciato; probabilmente era sotto tortura.

Dopo l’ennesimo grido la figura imperscrutabile si mosse e, avvicinatasi all’uscio girò la fredda maniglia di ferro ricca di ornamenti e volute. La camera che stava dietro questa porta era illuminata solo da qualche candela accesa, che emetteva una luce tremolante ed incostante e dava agli strumenti di tortura una strana ombra, come se si muovessero. Quell’essere non entrò ma, notato un individuo a poca distanza da sé, dopo averlo osservato per alcuni secondi, sibilò. – Fatelo stare zitto.- richiudendosi la porta alle spalle.

Salve a tutti! Ecco qui la vostra scrittrice.. Che ne pensate dello sviluppo di questa storia? Si sta facendo interessante?
Vorrei ringraziare chi mi sostiene nello scrivere questo racconto, chi mi rivolge le minacce più disparate per finirlo e chi si è dato alla latitanza (Sì, mia cara Editor, sto parlando di te! u.u). Il terzo capitolo è già in cantiere, spero solo di pubblicarlo presto!
Per concludere, qui alla fine metterò un piccolo spazio con un film mentale dovuto alla stesura del capitolo:

Descrivo la protagonista e volendola fare “particolare” ho deciso che sarebbe stata albina. Dopo un paio di giorni  mi accorgo che Fanie significa “bianca”... Sono un genio e neanche lo so! *me si stringe la mano*.
Baci baci! ^__^

  
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