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Autore: Miss Demy    23/06/2011    42 recensioni
C'è un'età per l'amicizia, per l'affetto fraterno, per le confidenze, e un'età per l'Amore capace di far scalpitare i cuori e mandare in tilt il cervello.
Tra l'amicizia e l'Amore, alcune volte il passo può essere breve, altre impiega più di dieci anni. E se razionalmente non fosse giusto? Ascolta il tuo cuore, non c'è nient'altro che tu possa fare.
Dal cap.1:
Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.
Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Nuovo personaggio, Setsuna/Sidia, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Capitolo 2: Una nuova sensazione
 
Mamoru aveva tenuto il piede sull’acceleratore per tutto il tempo. Il percorso verso l’altura di periferia, quella notte, sembrava ancora più lungo rispetto a quando la percorreva insieme alla ragazza del periodo seduta al suo fianco, persino con la stessa Setsuna prima di acquistare l’appartamento sul mare.

Gli alberi e i lampioni ai lati della strada apparivano e sparivano subito dopo alle sue spalle mentre la lancetta dei chilometri orari segnava una velocità non consentita dalle norme stradali. Nonostante il manto stradale fosse libero, aveva l’impressione di non arrivare mai.
Per tutto il tragitto con il cellulare all’orecchio aveva cercato di farsi presenza con Usagi. Era spaventata, lui lo percepiva dal tono e dalla ripetuta domanda che gli poneva. «A che punto sei arrivato?»
«Usa, ho la batteria scarica, se dovesse spegnersi il telefono tu non avere paura, io sto arrivando.» Quell’avvertimento divenne realtà.

Usagi continuava a sentirsi in un luogo senza tempo, una condizione estenuante per chi attende. La paura che qualche malintenzionato arrivasse le restava avvinghiata nelle ossa. Da quando anche la voce di Mamo-chan l’aveva abbandonata, nella solitudine di quella schiera di alberi, in fondo al grande spiazzale da cui era possibile ammirare il panorama della città, aveva pianto ancora. Rivolta alla luna, pregava affinché Mamoru arrivasse in fretta.

Trascorsero venti minuti circa, poi due fari illuminarono di giallo la strada davanti a sé; Usagi si staccò dalla corteccia ruvida mentre il rumore dell’auto si faceva sempre più intenso. Quando riuscì a scorgere un’Audi A4 grigia metallizzata, tirò un profondo sospiro di sollievo.
“Mamo-chan” il suo cuore aveva sospirato.
Pian piano cercò di raggiungere la vettura. A ogni passo, il ginocchio destro sembrava lacerarsi.

Mamoru scrutò lo spiazzale, il buio della notte rendeva difficile la ricerca, i fari aiutavano nell’intento. Notò una sagoma farsi avanti e quando riuscì a illuminarla, capendo che era proprio lei, Usagi, con i codini allentati, il viso sporco dal trucco colato sulle guance e che a fatica riusciva a camminare, spense il motore, aprì la portiera e si avviò a passo svelto verso di lei.
«Sono qui, Usako.»

Lei alzò lo sguardo, annullando la distanza tra di loro. Allungò d’istinto le braccia cingendogli il collo in un abbraccio mentre la sua guancia trovava conforto sulla spalla di lui. 
«Grazie» si limitò a sussurrare tremando, mentre intensificava la stretta. «Grazie, grazie, grazie.» Non riusciva a dire altro, sembrava una nenia necessaria per esorcizzare la paura.

Mamoru rimase spiazzato da quell’atteggiamento. Sembrava che lei non volesse staccarsi da lui. Si sentiva un salvagente che lei aveva afferrato dopo aver rischiato di annegare. La cinse per la schiena, la strinse forte a sé cercando di infonderle quella protezione che Usagi reclamava. La percepì tremante in quell’abbraccio, tesa.
«Dimmi solo che è tutto okay» si limitò a dire con voce ferma vicino all’orecchio di Usako. 

Lei annuì, strofinando la guancia sulla sua spalla. Iniziò ad avvertirla rilassarsi in quell’abbraccio, stava già meglio. 

«Andiamo a casa.» Le accarezzò la nuca prima di allentare la presa. Sostenendola per la vita, l’aiutò ad arrivare al sedile dell’auto.
«Riesci a camminare con quei cosi?» La aiutò a sedersi per poi andare dal lato del guidatore.

«Non è per i tacchi, è il ginocchio che mi fa male.»

Accese la luce all’interno dell’auto poggiando una mano sul ginocchio di Usagi e voltandolo verso sé. Escoriazioni profonde e del terriccio sulla parte sporca di sangue.

Usagi tenne gli occhi bassi e le mani a strofinare le braccia incrociate sul petto. Si sentiva in imbarazzo, era già stato difficile parlare con lui di sesso quella mattina, non avrebbe mai pensato di arrivare a dover chiamare proprio Mamoru per farsi venire a prendere in un posto frequentato da coppiette. Non avrebbe voluto farsi trovare in quelle condizioni. 

Mamoru continuava a guardarla. L’aria era calda eppure lei sembrava volesse riscaldarsi. Le guance rigate di nero dal mascara colato, gli occhi arrossati e umidi, il labbro gonfio e scuro. Che cosa aveva dovuto subire la sua Usako? Cosa le avevano fatto? Quanta paura le aveva istillato quella situazione?
Si tolse la giacca posandola sulle braccia di lei. La coprì, forse non dal freddo ma di certo dall’imbarazzo.

Lei si voltò verso di lui, trovò il suo profilo, la mandibola leggermente squadrata, la lieve ricrescita della barba evidenziata dal chiaro di luna e i ciuffi ribelli che vibravano all’aria. Era bello Mamo-chan.

«Tieni, bevi un po’ d’acqua» la esortò dopo aver preso dal sedile posteriore una bottiglietta. Lei fece fatica a poggiare le labbra sulla plastica. «Guarda come ti ha ridotta.» Una consapevolezza amara da mandare giù. Che uomo avrebbe mai alzato le mani su una ragazza? «Se me lo ritrovo davanti, giuro che lo gonfio.»

Dopo aver mandato giù alcuni sorsi e aver schiarito la bocca dal gusto salato delle lacrime, Usagi poggiò il braccio sulla portiera a sostenere la testa. Con l’atra portò al collo la giacca di Mamoru, come a coprirsi dal mondo. Sì sentì vuota, un senso di inquietudine si propagava dentro di lei lasciandola in una confusione che non sapeva razionalizzare. Pianse, senza vergognarsene, abbandonandosi a quelle emozioni che non riusciva a gestire. 

Per Mamoru quella scena era straziante, non aveva mai visto Usagi in quelle condizioni.

Ricordava tutte le volte che era tornata a casa dopo aver litigato con qualche fidanzato. Aveva pianto fino a far diventare gli occhi gonfi e rossi. In tante occasioni, sua madre Hana aveva cercato di tirarla su portandola per le vie del centro a fare acquisti o preparando qualche dolce insieme a lei, davanti a lui che la prendeva in giro dicendole che, se si fosse consolata coi dolci, non avrebbe più trovato qualche altro pazzo a mettersi con una ragazzina capricciosa come lei. Sua madre non aveva mai perso l’abitudine di colpirlo con il mattarello per aver insultato la sua Usagi, provocandole un'istintiva risata. I pianti erano scemati e pian piano il buon umore era ritornato. A lui quel rapporto andava bene, sapeva che per sua madre Usagi non era la figlia rubata dal cielo ma un dono con il quale qualcuno chiamato Destino, in qualche modo, aveva voluto farsi perdonare.

«Usa…» era riuscito soltanto a sibilare piano mentre la osservava; quella situazione era imbarazzante anche per lui. Avrebbe preferito che lì con loro ci fosse stata Setsuna, lei da donna forse non le avrebbe creato lo stesso disagio che era certo di suscitarle. O forse Usagi si sarebbe sentita ancora più esposta davanti a qualcuno diverso da lui. Era convinto che proprio la loro complicità l’avesse spinta a chiedere il suo soccorso.

Usagi non rispose, con le spalle voltate e la testa sul braccio, lasciava che il suo sfogo prendesse il sopravvento dopo quei momenti che le erano apparsi infiniti. Aveva bisogno di lasciar scorrere l’ansia che aveva accumulato prima che lui arrivasse a porre fine all’incubo.
«La colpa è mia, soltanto mia» metabolizzò affranta, «ora l’ho perso.» In attesa di Mamoru, aveva pensato e ripensato a ciò che era successo e aveva capito che spesso la sua impulsività l’aveva trascinata su sentieri sbagliati, a compiere scelte o azioni di cui poi si era inevitabilmente pentita. Non avrebbe dovuto alzare le mani a Seiya, forse non avrebbe dovuto neppure offenderlo. Avrebbe potuto rimanere in silenzio e farsi riaccompagnare a casa; tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, probabilmente nei giorni seguenti avrebbero fatto persino pace e lei gli avrebbe dimostrato che era una donna e non una ragazzina.

«Guardami, Usako» le disse accarezzandole la nuca, come se quel gesto potesse calmarla.

Lei si voltò lentamente tenendo basso lo sguardo sul ginocchio sporco di sangue e terra bianca.

«Meglio che sia finita» affermò lui con tono nervoso cercando di incontrare i suoi occhi tanto azzurri quanto tristi, «non avrebbe dovuto farti tutto questo, non avrebbe dovuto lasciarti qui.» La rabbia era tanta. «Non sai quanto vorrei avercelo davanti in questo momento.»

Usagi scosse la testa. «No, sono io che ho iniziato ad alzare le mani, ecco perché ora mi sento così» singhiozzava afflitta dai rimorsi, «lui ha sbagliato a fare certi paragoni ma la colpa è tutta mia.» 
Fece una pausa per trovare il coraggio di ammetterlo, poi lo disse: «Forse avete ragione tutti a dire che sono solo una ragazzina.» 
Non riusciva a guardare quell’uomo che l’aveva sempre presa in giro dicendole quanto fosse immatura e infantile. Non poteva ora che anche il suo ragazzo le aveva fatto capire che in realtà era quello: una ragazzina e non una donna. Si sentiva ferita ora che la realtà le era stata sbattuta in faccia. Le ferite dell’orgoglio impiegavano molto più tempo rispetto a quelle di un labbro spaccato.
Cercò di porre fine a quella circostanza. Con il dorso delle mani sfregò via dalle guance le lacrime, tirò su con il naso e allacciò la cintura di sicurezza.
«Ti prego Mamo-chan, andiamo via da questo posto» implorò.

Mamoru annuì, mise in moto l’auto e lasciò quel luogo isolato e buio.

Sulla strada del ritorno, Usagi non disse una parola; rimase voltata verso il finestrino a osservare le strade, gli alberi, e tutti i palazzi che pian piano divenivano più vicini e maestosi.
Dopo qualche minuto ad ascoltare il silenzio, Mamoru decise di fermarlo. Ricordava le parole dette dalla ragazza al telefono mentre cercava di raggiungerla. Lei gli aveva raccontato tutto: dall’insistenza di Seiya, ai paragoni che l’avevano resa aggressiva fino allo spavento mentre lo aveva visto sgommare l’auto e lasciarla lì da sola.
«Vuoi ascoltare un po’ di musica?» cercò di allentare la tensione che avvertiva.

Lei scosse il capo voltandosi verso il ragazzo. «Mi dispiace, Mamo-chan» sussurrò pentita, «mi spiace davvero tanto » prima di abbassare lo sguardo.

«Per cosa, Usa?» domandò sorpreso aggrottando la fronte.

Usagi alzò le spalle. «Per oggi, per come mi sono comportata con te a casa tua» rivelò mettendo da parte l’orgoglio che spesso le impediva di chiedere scusa dopo aver sbagliato. «Sono stata prepotente, non lo meritavi.» Lui era sempre pronto ad aiutarla, a confortarla. Lui era presenza nella sua vita.
«Non volevo crearti problemi con Setsuna, non volevo creare problemi e basta.» Aveva notato lo sguardo di Setsuna, sapeva che lui avrebbe dovuto affrontarla, magari avevano litigato per colpa sua. Non era giusto, Mamo-chan non lo meritava.

Un sorriso nacque sulle labbra del ragazzo.
Per la seconda volta quella sera, Usagi lo aveva sorpreso. Lui non era abituato ad abbracci intensi in situazioni imbarazzanti né aveva mai ricevuto scuse dalla prepotente di Usagi che comprendeva i propri errori. Stava forse crescendo?
«Non importa, non ci pensare più» si limitò a risponderle strizzandole un occhiolino con tono rassicurante e protettivo. La verità la sapeva solo lui. Setsuna di problemi ne aveva creati dopo quel battibecco, aveva frainteso, e lui aveva persino litigato con la sua donna. Ma ciò non lo rivelò alla ragazza. Lei non avrebbe saputo che Setsuna era gelosa di lei. Erano questioni tra lui e la sua fidanzata.

Sorrise pure lei, rincuorata. «Mi spiace anche per averti disturbato, a quest’ora staresti già dormendo.» La giacca sulle sue gambe le ricordò che Mamoru era stato a lavorare. Si voltò indietro, riponendola sul sedile posteriore. Il viso di lui, di profilo, le apparve stanco mentre rimaneva concentrato sulla strada.

“Avrei voluto che tu passassi una bella serata” pensò il cuore di Mamoru. «Non devi dispiacerti per queste cose, se ti avessi lasciata lì, mia madre mi avrebbe ucciso» ironizzò mostrandosi convincente.
Usagi spalancò la bocca per lo stupore, mentre il suo viso diveniva sempre più divertito. «Ah, e così lo hai fatto solo per Hana?» esclamò attirando quegli occhi blu e profondi sui suoi.
Rilasciò un sorriso, lui la seguì. Risero insieme, ricacciarono via la tristezza e l’imbarazzo.

«Mamo, posso chiederti una cosa?» Usagi tornò seria.

«Certo.»

«Perché voi uomini siete così impazienti, insomma, perché non sapete aspettare?» 

Mamoru scalò la marcia mentre raggiungeva l’ingresso della città. «Non generalizzare, Usa» la corresse, «non siamo tutti uguali.» 
Con lo sguardo verso il semaforo rosso che lo obbligò a fermarsi, spiegò:
«Ricordi Michiru, la ragazza con gli occhi verdi? Stavamo assieme nove anni fa.» 

Usagi annuì, «Sì certo, mi aiutava a fare le trecce alle bambole mentre finivi di prepararti.» 

Mamoru sorrise. «Esatto. Io l’ho aspettata per sei mesi.» Ingranò la marcia e ripartì quando il segnale luminoso cambiò colore.

Usagi voltò di scatto la testa verso di lui. «E poi? L’hai lasciata?» domandò delusa.

«No, che dici!» si sorprese lui aggrottando la fronte. «Poi una sera mi disse che era pronta e così…» 

«Ok, basta, risparmiami i dettagli!» Usagi agitò le mani strizzando le palpebre, mentre le gote rigate dal mascara si imporporavano.

Una fragorosa risata uscì dalla bocca di lui. «Questo per dirti che non è vero che non sappiamo aspettare» spiegò, «se un ragazzo ci tiene a te aspetta, altrimenti credimi, è meglio perderlo.» 

Per la prima volta dopo dieci anni, da quando conosceva Mamoru Chiba, dopo infiniti scherzi, battibecchi, sguardi pieni di complicità e di onesti dispetti, dopo innumerevoli confidenze e perle di saggezza elargite da Mamo-chan, Usagi sentì uno strano, dolce, piacevole calore al cuore quando gli occhi blu di lui incontrarono i suoi, accompagnati da un dolce sorriso sulle labbra.
Un senso di confusione la assalì prima di confessare:
«Sai, a volte mi confondi. Penso che tu sia l’odioso, prepotente, dispettoso di sempre che ama torturare una povera ragazza ma poi…» lasciò andare una leggera risata consapevole, «ma poi sei il migliore amico che una povera ragazza possa avere.» 

Il sorriso di Usagi fu così puro che le illuminò gli occhi. Spazzò via tutto ciò che di brutto era accaduto quella notte. Non c’era più tristezza, né malinconia in lei, solo pace, serenità, percezione di non essere sola, di avere qualcuno su cui poter contare, qualcuno che riusciva a capirla anche quando ciò era difficile persino per se stessa.
Mamoru scorse un barlume di luce in quegli occhi sempre ribelli e dispettosi, rimase abbagliato da quel candore. 
Solo un po’, un poco alla volta, prima di sbattere le palpebre come a voler tornare alla realtà, temendo di venir accecato da quella strana e rassicurante luce. 
Non rispose. Avrebbe potuto fare qualche solita battuta alla quale lei avrebbe sicuramente reagito con qualche smorfia; avrebbe potuto dimostrarsi Mamoru, il solito Mamoru, però quella volta preferì evitare; quel sorriso luminoso non poteva essere spezzato, la magia di quel momento doveva continuare, lui voleva farla continuare. Anche se soltanto per un altro poco. 

Mamoru rallentò sempre più mentre raggiungeva il parcheggio adiacente al palazzo in cui abitava Usagi e, fino a pochi mesi prima, pure lui.
Alle due e mezza di notte, non vi erano auto, né motorini che disturbavano la quiete del quartiere. 
Il giovane spense i fari solo dopo aver parcheggiato tra altre due auto, di fronte al cancello automatico che conduceva alla palazzina grigia.

«Grazie di tutto, Mamo-chan,» sussurrò con un’espressione riconoscente, sganciando la cintura di sicurezza, «buonanotte.» 

Mamoru non rispose. Aprendo la portiera, con un cenno della testa disse: «Andiamo, salgo con te.» 

«No, no, non c’è bisogno, davvero, va’ pure a casa» ribadì lei, ma non ebbe il tempo di continuare che lui aveva già fatto il giro dell’auto e aperto la portiera del passeggero.
«Con il ginocchio fai fatica a camminare e poi quelle ferite vanno disinfettate.» Le cinse la schiena con un braccio.

Lei insisté, anche se era piacevole sentirsi sostenuta. «Posso farlo da sola, vai da Setsuna, si starà chiedendo che fine hai fatto» ma lui ridendo divertito non si fece convincere. 

«Setsuna ha il turno di notte, non fare la furba, ti conosco benissimo e so che preferiresti farti venire qualche infezione pur di non farti medicare con il disinfettante.»

“Ma brucia” avrebbe voluto ribadire lei. Non gli poteva nascondere nulla, era vero, lui la conosceva bene. Le sue labbra si stropicciarono in una smorfia di rassegnazione. 

Dentro l’ascensore, Usagi poggiò la schiena alla parete mentre i pulsanti lampeggiavano verso l’alto. Osservò per un attimo Mamoru, attratta e incuriosita dal gesto col quale massaggiava i muscoli del collo e strizzava le palpebre. Si sentì in colpa.
«Sei stanco Mamoru, dovevi andare a letto invece di trattarmi come una bambina» osservò con voce dispiaciuta che lasciava spazio a un pizzico di disapprovazione.

Mamoru passò la mano tra i folti capelli corvini portando indietro alcune ciocche ribelli e con un’espressione ironica corresse:
«Eh no, le bambine non fanno i capricci anche per il disinfettante.»

 Le porte scorrevoli si aprirono non appena il piano 4 fu raggiunto, togliendo l’opportunità alla ragazza di controbattere. Non poteva fare rumore sul pianerottolo.

Una volta dentro l’appartamento, Mamoru si lasciò cadere sul confortevole divano dall’imbottitura foderata da una stoffa fresca e leggera. Poggiò la testa sulla spalliera abbassando per qualche minuto le palpebre.
Usagi tornò dopo pochi minuti con la boccetta del disinfettante e dei batuffoli di cotone. Quando si trovò il ragazzo davanti, un sorriso colmo tenerezza le dipinse il viso.
Lui era lì, con le gambe aperte e il braccio poggiato sul bracciolo del divano. Il respiro era regolare, il suo volto sempre dipinto da espressioni che lo mostravano sicuro, fiero di sé, in grado di ispirare protezione, aveva lasciato posto a un’aria indifesa e piena di dolcezza. Inavvertitamente un piacevole e, allo stesso tempo, inspiegabile calore si propagò dentro al suo cuore dilagando per tutto il corpo.
Cos’era quella sensazione? Perché la provava? Perché non l’aveva mai provata prima? Era così bella ma anche così dannatamente dolorosa che temette di impazzire. 
Sbatté le palpebre e portò le mani all’altezza del cuore, cercando di fermare quel calore sempre più forte che ardeva dentro di sé alla vista del ragazzo.
Posando il disinfettante sul divano, si sedette accanto a lui.
«Mamo-chan, dormi?» La sua domanda fu simile a un sussurro; lui scosse la testa e rimanendo con gli occhi chiusi rispose:
«No, riposavo gli occhi.» Tirò un sospiro profondo e si staccò dalla spalliera.
Prese la boccetta bianca e svitò il tappo mentre Usagi distendeva le gambe verso il tavolino basso di fronte al divano.
Lentamente lasciò scorrere il liquido trasparente su un ginocchio, tamponando i bordi col cotone per evitare di bagnare per terra.

Il viso di Usagi assunse espressioni di preoccupazione prima e di pura sofferenza dopo, cercando di trattenersi da qualche urlo di fastidio quando il disinfettante iniziò a bruciare. Finito il primo, Mamoru passò all’altro ginocchio mentre lei era sempre più concentrata a tenere a bada le urla con una mano chiusa a pugno sulle labbra.
«Brucia, brucia!» piangeva fremendo sul divano e soffiando sulle ginocchia quando lui ebbe terminato. Quell’atteggiamento così infantile e ingenuo gli procurò una sana risata che, scompigliandole la frangia, esclamò: «Sei stata bravissima, stai diventando una signorina!» 

Usagi, infastidita stropicciò le labbra nervosamente prima di uscire la lingua per una di quelle smorfie che riservava a lui durante i loro battibecchi. Non avrebbe dovuto trattarla da bambina. Si rese conto che la sua reazione, tuttavia, aveva confermato che Mamoru di motivi per non trattarla da adulta ne aveva eccome.

Lui rise un altro po’, soddisfatto. Non si smentiva mai Usako. 
Si alzò, seguito dalla ragazza che lo accompagnò all’ingresso.

«Buonanotte, Mamo-chan, grazie di tutto» sussurrò dolcemente sollevandosi sulle punte e premendo le labbra sulla guancia ruvida di lui.

Mamoru con un sorriso le accarezzò una guancia. «Buonanotte, piccola peste, mi raccomando, non metterti in altri casini, okay?» 

Lei sorrise di rimando. Con i casini aveva già fatto troppo. Annuì solamente mentre attendeva che lui entrasse in ascensore.
Richiuse la porta alle sue spalle, poggiandovi la testa e portando le mani a contatto con la schiena; sospirò profondamente, avvertendo che la stanza era ancora impregnata del profumo forte e intenso di Mamoru.
Un tuffo al cuore la costrinse a chiudere per un attimo gli occhi. Quando li riaprì, come d’istinto, corse alla finestra della sua stanza. Scostò di poco le tende accorgendosi del ragazzo che stava per entrare in auto; si appoggiò per un attimo alle pareti fredde di quella camera ancora al buio.
Quella sera si erano verificati troppi eventi che avevano scosso la sua anima, valutò.
Ritrovarsi da sola in un luogo che in molti ricordano con piacere ma che a lei aveva soltanto fatto sperare di tornare presto a casa sana e salva; l’arrivo di colui che da sempre considerava come un fratello maggiore e che, invece, quella notte, con un semplice sorriso e una ingenua espressione le aveva scaldato il cuore costringendola a provare una nuova sensazione.
“Meglio andare a dormire” si era detta spogliandosi di quell’abito oramai sporco di terra bianca e sciogliendo gli odango allentati. Non aveva voglia di fare una doccia per togliersi dalla pelle l’odore di Seiya misto di polvere e disinfettante.
Senza sollevare il lenzuolo, si rannicchiò su se stessa portando la testa sotto al cuscino.
Aveva promesso a Mamoru che avrebbe evitato di mettersi in altri casini però aveva come la sensazione di averlo appena fatto.
Un casino dal quale neppure lui avrebbe potuto salvarla.
Chiuse gli occhi, sperando che il giorno dopo giungesse in fretta e riportasse con sé la normalità.
E mentre iniziava a rilassarsi, il bruciore tornò a farsi sentire. Non proveniva dalle ginocchia però ma direttamente dal cuore.



Il punto dell'autrice

25.05.2020
Questa è la revisione di ciò che pubblicai anni addietro. Spero di avervela ripresentata migliorata.
Questo capitolo non svela nulla di nuovo, se non la nuova sensazione di Usagi e in parte anche di Mamoru. Ho deciso di idearlo appositamente così dato che dal prossimo questa coppia non avrà la stessa attenzione che le riservo in altre mie fic perché lo spazio verrà dato ai personaggi separatamente.

Proprio per questo spero di ricevere i vostri pareri su come migliorare la storia.
Detto ciò, vi ringrazio di cuore per aver letto e per tutto l’affetto che mi dimostrate quotidianamente. Spero di fare sempre meglio, per me ma soprattutto per voi, regalandovi capitoli ogni volta migliori.
Un bacione e a presto!

Demy

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