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Autore: monochrome    30/06/2011    2 recensioni
Albina Severi, Al per gli amici, stronza megalomane per tutti gli altri, ha poche certezze, certezze che l'aiutano a mantenere quella sicurezza di sè di cui fa sfoggio ogni giorno, quell'arroganza e quel sarcasmo che la contraddistinguono. Ma poi, piano piano, senza rendersene conto, si cresce, le situazioni cambiano, i rapporti cambiano e le certezze cadono una ad una.
***
Dal capitolo 7:
«Diamine Al! Sei così dannatamente fragile! Ti atteggi da dura, ma sei porcellana finissima che può rompersi alla prima caduta. Come potrei farti questo?»
Deglutii.
Non sapevo che dire, non sapevo che diavolo fare. Sapevo che avevo ancora voglia delle sue labbra e nessuna intenzione di rinunciare alla mia indipendenza per nessuno al mondo. Mattia sembrava il ragazzo perfetto per me, perfetto per darmi affetto e ricevere il mio, senza obblighi o etichette di sorta. Perché avrei dovuto rinunciarvi? Perché avrei dovuto lasciarlo andar via? Cosa mi tratteneva? Forse la consapevolezza che non sarebbe mai stato solo e unicamente mio?
Aderii nuovamente col mio corpo al suo, alzandomi in punta di piedi per sfiorare col mio respiro le sue labbra gonfie.
«Sono io che voglio farlo»
Fu lui a far combaciare le nostre labbra, gentilmente.
Mi vidi costretta a tirargli i capelli per fargli aprire quella dannatissima bocca!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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All my Certainties

Armadi, rane, vacche e John Travolta




Non mi ero resa conto a quale terribile evento sarei andata incontro quando avevo accettato quell’uscita. Avrei dovuto cominciare a sospettare qualcosa quando, quella sera stessa, Nasino a maiale mi aveva chiesto che numero di scarpe portavo, quanto fossi alta, quale fosse il mio colore preferito… Lì per lì avevo solo pensato che avesse preso il mio accettare quell’appuntamento come un contratto di amicizia. Niente di più sbagliato, avevo continuato a risponderle a grugniti. Era stato quando era arrivata all’argomento trucco, facendomi notare che con un po’ di matita sarei stata molto più carina, che mi ero spazientita. Avevo troncato sul nascere ogni sua possibile lezione sul blush, sullo smooky eyes o chissà che altra diavoleria mettendola al corrente della mia allergia al trucco. Lei mi aveva sorriso comprensiva –ed è a quel punto che mi sarei dovuta preoccupare enormemente-, dicendomi che anche lei usava trucchi anallergici e che quindi non avrei dovuto preoccuparmi. Preoccuparmi per cosa?
In ogni caso avevo rinunciato a capirla quando aveva tentato di spiegarmi la differenza fra tanga e perizoma. Alla mia domanda sul perché avesse intavolato quella discussione non richiesta, aveva risposto che il tanga andava bene, ma che il perizoma al primo appuntamento era disdicevole. Ancora, non ero riuscita a capire perché diavolo avrei dovuto mettermi qualcosa di diverso dalle mie adorabili mutandine con le fragole. Ma non lo dissi. Informare i miei amici sulla mia biancheria non mi sembrava una mossa saggia, soprattutto contando che Lorenzo si annotava mentalmente ogni mia risposta, giusto per prendermi un po’ più in giro di quanto non facesse già normalmente.
Comunque avevo accantonato in un angolo il pensiero di quella serata per tutta la settimana, anche se, sotto le insistenze di Iv, ero stata costretta ad aggiungere Nasino a maiale alla mia lista di amici su facebook. Dopo un suo tentativo di conversazione via chat, nella quale aveva tentato di suggerirmi di indossare un push-up sabato, inutile dire che l’avevo bloccata.
Così, avevo accantonato anche il pensiero di Cristina, fino al sabato pomeriggio successivo alla sua richiesta, quando a 5 ore dall’orario in cui avevamo deciso di incontrarci con la sua combriccola di amici, me l’ero ritrovata sotto casa, alla guida della sua lancia argentata.
Mi aveva obbligata a salire, senza nemmeno lasciarmi posare la cartella in casa o concedermi il tempo per suicidarmi, ed era partita alla volta di casa sua. Avevo scoperto con estremo rammarico che non abitavamo poi così lontane. Se fossimo state amiche la cosa mi avrebbe fatto piacere.
L’avevo seguita docilmente in casa sua, dove mi aveva offerto almeno cinque possibili veleni per il mio organismo e io mi ero accontentata di un bicchier d’acqua solo per farla contenta, altrimenti non avrebbe smesso fino a quando, mangiata una fetta di torta, mi fossi assicurata un biglietto di sola andata per l’ospedale.
Mi sforzai di considerarla gentile – diamine! era davvero gentile! – ma il mio malumore, dovuto in gran parte al fatto che mi aveva prelevata da casa senza il mio consenso, mi impediva di rilassarmi e apprezzarla come avrei dovuto. Ce la stava mettendo tutta per piacermi e io ero la solita stronza. Mi sforzai un po’ di più e, forse, riuscii a considerarla vagamente piacevole.
Parlammo di Ivan, o meglio, ne parlava lei e io la ascoltavo. Capii che per quanto potesse essere stupida, non gli avrebbe mai fatto volontariamente del male. Capii anche che gli voleva molto più bene di quanto gliene volessi io: sebbene non le piacessi, si sforzava di andare d’accordo con me, mentre io l’avevo sempre trattata di merda. Mi sentii in colpa. Solo per qualche minuto, solo per quella volta.
Poi suonò il campanello, e mi diedi della stupida per averlo fatto.
Nasino a maiale si era fiondata alla porta, tutta eccitata, lasciandomi nella sua camera tutta rosa e giallognola, prima di tornare, seguita dal chiacchiericcio di altre quattro ochette.
Facevo fatica a distinguerle. Erano tutte già infighettate, con quintali di fondotinta e un rossetto rosso fuoco che le faceva sembrare dei transessuali alle prime armi.
«Albina» Nasino a maiale si rivolse a me per presentarmi, come per attirare ancor di più l’attenzione di quelle galline sulla sottoscritta «Ti presento Sara, Michelle, Marianna e Anastasia», rispettivamente uno scricciolo dal viso cavallino e una coda di cavallo che incrementava la sua somiglianza a un equino, una bionda così finta che una mia riproduzione della Gioconda sarebbe risultata vera al confronto, una castana dai lineamenti molto dolci, con decisamente troppi chili di troppo per quella minigonna giropassera che indossava con tanta disinvoltura e una specie di elfo lentigginoso che emanava eccitazione da tutti i pori.
«Le ho chiamate per aiutarti a prepararti» Cristina sorrise radiosa ed io rabbrividii. Sperai di avere una, seppur minima, voce in capitolo, ma poi mi resi conto che l’avevo avuta, quando avevo confessato a Cristina la mia taglia, il mio numero di scarpe, il mio colore preferito e tutto il resto. Ero finita.

Uscii da quella casa tre ore dopo, completamente irriconoscibile. Mi avevano costretta a indossare un tacco dodici, cosa che mi rendeva una sorta di gigantessa. Avrei dato qualsiasi cosa per vedere la faccia di Lorenzo se mi fossi presentata davanti a lui con quei cosi. Probabilmente avrebbe riso, visto che non riuscivo a starmene in piedi senza un qualsiasi appoggio. Una cosa tremenda.
Anastasia, o una qualsiasi altra del quartetto dei trans, era rimasta molto delusa dal fatto che non avessi indossato un push up, come Cristina mi aveva consigliato. La mia risposta era stata che nessun tipo di reggiseno sarebbe riuscito a valorizzare la mia taglia -20. Lei si era vista costretta a cambiare vestito: da un tubino nero iper attillato e con una scollatura vertiginosa che sarebbe risultata quantomeno ridicola addosso a me, aveva optato per un vestito color vinaccia con allacciatura al collo, molto leggero e svolazzante. Peccato che quel colore, accostato alla mia pelle chiarissima e al nero dei miei capelli (capelli che avevano inutilmente tentato di domare per poi rinunciare con mia somma soddisfazione), mi faceva sembrare piuttosto inquietante, avrei azzardato uno zombie.
Mi avevano truccato gli occhi più di quanto avrei fatto io in dieci anni e anche se il risultato era tutt’altro che malvagio, sapevo che dopo un’ora, in cui, per citare Nasino a maiale, sarei stata molto carina, avrei avuto l’aspetto di una drogata tutta triplo caffè dello studente e oscurità. E quel dannato colore non avrebbe fatto altro che incrementare l’effetto.
Dopo tutto quel lavoro, avevo pensato che fosse il caso di informarmi sul tizio che avrei dovuto incontrare. Prima non me ne ero minimamente preoccupata, ma avevo passato le ultime tre ore sotto le grinfie di tre modaiole pseudo estete e la cosa mi aveva messo addosso agitazione.
Durante il tragitto in macchina mi avevano ripetuto non so quante volte il nome del ragazzo “alto, carino, biondo con gli occhi azzurri” che avrei dovuto incontrare, ma giuro che non ero ancora riuscita a memorizzarlo. Gianfranco? Mattia? Michele? Ludovico? Che cavolo di nome avevano detto?
«Luca ti piacerà» Cristina continuava a ripeterlo. Almeno mi ricordava ogni due minuti che si chiamava Luca. «Devo dire che è molto piacente, anche fra le ragazze più grandi»
«Ah ah» risposi, atona. Mentalmente continuavo a ripetermi “Luca”. Poi incontravo una superficie riflettente e mi prendeva un colpo.
Passammo così tutto il tragitto in macchina, con la ragazza cavallina che era ancora risentita perché avevo tentato di accopparla quando aveva tirato fuori una piastra per capelli e Cristina che continuava a blaterare di Luca. Perché avevo la sensazione che mi ripetesse sempre le stesse cose?
In ogni caso arrivammo sani e salvi a destinazione. Non avrei mai detto che Nasino a maiale sapesse guidare così bene, ma ci riusciva. Bene per lei e ottimo per me, che non avevo rischiato la vita.
«Ok, dov’è che dovremmo andare?» domandai, ormai rassegnata alla serata. Non mi ero azzardata a muovere nessun passo senza avere un appoggio. Quindi mi ero appoggiata alla macchina, ma poi il piccolo elfo biondo mi aveva crocifissa con lo sguardo, perché le stavo sgualcendo il vestito e quindi ero stata costretta a rimettermi in una posizione dignitosa.
Vidi degli individui sbracciarsi dall’altra parte della strada e poi mi arrivò l’inconfondibile voce di Ivan che urlava un «Ehi!» prima di lanciarsi in mezzo alla strada per attraversare. Un paio di auto inchiodarono, assordandoci con i loro clacson, ma il mio amico non diede segno di curarsene. Corse a baciare la sua ragazza e poi si rivolse a me, con un sorriso che urlava al mondo “ti ricatterò finché avrò vita”. Avrei scommesso che, prima o poi, qualcuno avrebbe tirato fuori una macchina fotografica per immortalarmi in quel momento imbarazzante.
«Iv» lo salutai con un cenno della testa, intimandogli con lo sguardo di non fare cazzate. Era bravo, lui, a fare cazzate.
Cristina arrivò saltellante a interrompere quello scambio di minacce silenziose. Si portava dietro quello che presunsi essere il tanto famoso Luca. La prima cosa che pensai fu “armadio”, in relazione alla sua corporatura, parola seguita a ruota da “rana”, per la bocca enorme che aveva, “leccata di vacca”, per tutto il gel che aveva nei capelli e “John Travolta”, visto che sembrava appena uscito dalla copia italiana di Grease.
«Albina, lui è Luca. Luca, Albina!» esclamò cinguettante quella strega bionda.
Luca mi sorrise, io riuscii solo ad inarcare le sopracciglia. Ero intontita. Dovevo essermi persa qualcosa. Non riuscivo a capire come diavolo fossi finita a passare la serata con quel… coso. La risata di Ivan mi arrivò piuttosto attutita. Cristina stava blaterando qualcosa e io me ne stavo fregando.
Poi, non so bene perché, Leccata di vacca mi porse il braccio, con un sorriso tiratissimo e un’occhiata alle mie scarpe. «Immagino tu abbia bisogno di una mano per arrivare al pub, eh piccola?»
Penso che non potessi avere un’espressione più scettica. Cos’era, una nuova tattica da rimorchio? Solo a quel punto mi guardai intorno, scoprendo che tutte le componenti del club dei transessuali avevano usato i tacchi come scusa per spalmarsi addosso ai loro accompagnatori della serata e lo stesso stava facendo Nasino a maiale, dicendo di non riuscire a salire la salita fino al ristorante senza un appoggio. Beh, le avevo viste correre e saltare su quei trampoli. Dubitavo che una dannatissima salita, per quanto fatta di pietrini romani, potesse fermarle.
«Ce la faccio benissimo da sola» sbottai, allontanando il braccio dal suo. «E non chiamarmi più piccola, intesi?»
«Come vuoi tu, bambolina.»
«Anche bambolina fa schifo» soffiai, tentando di mandargli il chiaro segnale che ne avevo fin sopra i capelli di lui e quella dannata serata. Ed erano passati solo 10 minuti. Un record anche per me.
«Miciotta?»
«Potrei vomitare!»
«Come dovrei chiamarti allora?»
Aveva abbandonato il sorriso da paresi, aggrottato le sopracciglia troppo curate per essere quelle di una ragazzo e aveva finalmente cominciato a guardarmi in cagnesco. Adesso la serata sarebbe stata più interessante. Non stavo soffrendo da sola! Un punto per me che riuscivo a fare incazzare il mondo!
«Severi. È il mio cognome. Ma ti prego di usarlo solo per avvertirmi di una mia possibile morte prematura. In tutti gli altri casi, stronza megalomane va più che bene.»
Sorrisi, un sorriso vuoto e quasi cattivo. Ero arrabbiata e la rabbia era confortante. Almeno sapevo come comportarmi.
Leccata di vacca mi avrebbe uccisa, se avesse potuto. Lo vidi stringere e distendere i pugni come se gli prudessero le mani. Uno spettacolo. Poi decise che non valeva la pena picchiarmi e rischiare un’incarcerazione solo per farmi essere un po’ più gentile. Si avviò a passo pesante dietro a tutti gli altri, su per la salita, lasciandomi come un’ebete attaccata a quella lancia argentata.
Mi guardai intorno. Non ero sicura di volerli seguire. Volevo bene a Ivan, ma ero decisamente di cattivo umore e a rimetterci non sarei stata io, sarebbe stato Luca-Leccata di vacca. Se lui aveva abbastanza autocontrollo da non passare alle mani -una grande dote tra l’altro, se non fosse stata oscurata dal fatto che aveva anche solo preso in considerazione di zittirmi a suon di cazzotti- io non ne ero abbastanza dotata. E poi stuzzicare le persone era il mio passatempo preferito.
Presunsi, comunque, che ovunque fossi voluta andare, avrei avuto un grande problema chiamato tacco 12. Quella dove Cristina aveva parcheggiato era una dannata stradina che portava o a una salita o a una discesa e non ero sicura di quale fosse più facile affrontare con i tacchi, senza contare che più salivo più poi avrei dovuto scendere.
Sentii le note di “Welcome to the Jungle” risuonare nella sera e riuscii a trovare il cellulare prima che la chiamata cadesse. Ero anche riuscita a leggere di sfuggita il nome di Ivan sul display, quindi fui preparata a dimostrarmi innocente.
«Sì?» cinguettai, angelica.
«Albina? Dove sei?» una voce piuttosto acuta, che decisamente non apparteneva al castano, ma piuttosto a una certa biondina di mia conoscenza, risuonò attraverso l’altoparlante.
«Alla tua macchina, Cristina.»
«Beh? Che aspettate a raggiungerci?»
«Preferirei non farlo, se non ti dispiace»
La sentii ridacchiare, maliziosa, la qual cosa mi fece sospirare.
«Quindi vai subito al dunque eh?» tentò di scherzare, come se fossi una sua amica, come in una di quelle tipiche confidenze fra donne che mi erano estranee. Decisamente Ivan, Marco e Lorenzo non erano i migliori confidenti in fatto di pomiciate.
«Comunque qualcosa dovrete pur mangiare! Non potete mica vivere d’amore!»
Mi schiarii la voce, preparandomi a spiegarle una cosa che decisamente riteneva impossibile.
«Cristina, ascoltami bene. Luca se ne è andato Dio solo sa dove. Pensavo vi avesse raggiunti, ma evidentemente non è così.»
«Ti ha lasciata da sola?!» aveva alzato la voce, probabilmente attirando l’attenzione anche di chi le stava intorno. La udii borbottare cose indistinte a qualcuno, prima che fosse disposta a prestarmi nuovamente attenzione.
«Non preoccuparti. Sistemo tutto io. Mi aveva assicurato che gli piacevi!» sembrava seriamente dispiaciuta, cosa che rese ancor più difficile per me confessarle che era colpa mia. Ma cavolo, mi andava bene così.
«Non penso tu possa sistemare il mio carattere Cristina.»
Penso rimase un tantino sorpresa da quell’affermazione. Davvero ancora non aveva capito con chi aveva a che fare?
«Tu e Ivan e le tue amiche godetevi la serata. Io me ne torno a casa senza rimpianti. Io e Luca ci saremmo potuti prendere solo a cazzotti, in una gabbia e con un arbitro a decretare la fine dell’incontro!»
Non riuscii a farla ridere. Poi improvvisamente sentii una voce a me molto familiare. E, brutto da dire, Ivan non sembrava contento.
«Che ti ha detto?»
Dritto al punto. Mi piaceva anche per quello.
«Scusa?» Non volevo dirgli che lo avevo preso di petto prima ancora di parlarci. Lui sapeva che lo avrei fatto. Lo facevo sempre con qualsiasi ragazzo che fosse interessato a me. Era per quello che mi aveva fatto quella domanda. Ma per una volta volevo sentirmi innocente. E invece mi sentivo in colpa, perché stavo mettendo a repentaglio la relazione di Ivan, o, peggio, la nostra amicizia.
«Che ti ha detto per farti incazzare? So già che poi tu gli avrai detto qualcosa che l’avrà fatto incazzare ed è per questo che se ne è andato. Ma lui che ti ha detto?» Non riuscivo a decidermi se fosse arrabbiato con me, con lui, o solo in pensiero. Magari tutte e tre. Il problema, in quel caso, era che era arrabbiato con me.
Aspettai qualche secondo a confessare. Mi faceva vergognare di essere affrettata e incazzosa, che in realtà erano due qualità di me stessa che amavo profondamente. Non mi facevano mai annoiare.
«Mi ha chiamato piccola, bambolina e miciotta nel giro di tre frasi.» borbottai.
Come prevedibile Ivan sbuffò, per comunicarmi il suo disappunto.
«Non potevi sopportare un po’?»
Potevo? Forse sì, ma non lo avrei mai ammesso.
«No. E comunque ci sono andata leggera. È lui che è troppo permaloso!»
La sua risata mi giunse con tutto il suo sarcasmo. Era risentito o era una mia impressione?
«Lui? Eddai, Al!»
Sospirai, sconfitta. Ma tanto sapevamo entrambi che lo avrei rifatto, ero fatta così: innaturalmente arrabbiata col mondo. Lo psicologo della scuola aveva detto che era a causa della morte di mio padre. Io, da quanto ne sapevo, staccavo le teste alle barbie anche prima che avesse cominciato a stare male.
«Mi dispiace, so che ci tenevi, ma potevi trovarmi qualcuno di meglio!»
Sperai che stesse sorridendo. In effetti, quando parlò di nuovo, mi sembrò che mi avesse perdonata. Non era più arrabbiato, evviva!
«Quelli meglio erano intimiditi dal tuo sguardo arrabbiato, Al.»
«Fa parte del mio fascino!»
Ridemmo insieme, e mi sembrò che tutto andasse di nuovo a gonfie vele. Che bella cosa l’amicizia.
«Ascoltami bene però» Era tornato serio e la cosa mi spaventò. Che avesse davvero finito la pazienza e mi stesse dando un ultimatum? «Ora chiami Marco o Lorenzo o chiunque altro e ti fai venire a prendere»
«Preferisco lo stupro ad essere presa per il culo a vita da voi» sbottai. Non era vero, ma, se fossi riuscita ad arrivare sana e salva in fondo a quella dannata discesa, contavo di prendere un taxi coi soldi della cena. Se era possibile, perché non salvare sia l’orgoglio sia la mia verginità?
«Al» mi intimò Ivan. Non avrei ceduto un’altra volta però. Non potevo perdere sempre io.
«Che c’è?»
«Non so se ti sei vista, ma stasera hai un vestito che tu, molto raffinatamente, definiresti giropassera. Faresti cambiare squadra al presidente dell’Arcigay»
Non riuscii a reprimere una risata.
«È un complimento? Perché io mi sento solo ridicola!»
«Fammi il favore di non tornare a casa da sola.»
Come facevo a non acconsentire, se me lo chiedeva con quel tono? Diamine! La mia parte femminile stava prendendo il sopravvento sull’orgoglio. Molto male. Dovevo chiudere la conversazione prima che accadesse.
«Ah-ah»
«Promettimelo.»
Mi morsi il labbro. Tornando in taxi, in teoria, non sarei stata sola.
«Te lo prometto.»





   
 
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