The Beauty Mark
Part I:
Una gocciolina di sangue
sullo zigomo destro. Una liquida macchia rossa sul volto, come il buco di un
verme su una mela rosata.
L’avevo nascosto con il
trucco, sperando che nessuno si accorgesse che stavo portando il segno
del suo amore sul viso.
Una linea azzurro
chiaro, che si incrocia con un’altra. Più. Positivo. Mi sento una mela marcia.
So che posso
nasconderlo, forse nessuno si accorgerà che Chuck è dentro di me.
“Si è attenuata un po’”
dice Louis puntando il dito sulla linea invisibile del mio viso.
Lo spio da un occhio e
la luce mi acceca. Da Les Révoires il mare è una strisciolina azzurra
lontana. Il principe e io alloggiamo in una villa situata sul punto più alto
del Principato di Monaco, nei pressi del giardino esotico. E’ qui che passiamo
i nostri giorni, al sole, lontano da occhi indiscreti. Immersi nel verde
acceso, c’è sempre tanta e troppa luce; la vegetazione cresce rigogliosa e
invadente, ci sono fiori, ma anche spine, le foglie sono grasse e lucide. Il
mio cappello di paglia, bianco, traforato e a tesa larga - accessorio
irrinunciabile di ogni beau fille - si rivela inutile. Richiudo gli
occhi e vedo rosso.
“Spero solo che non
rimanga il segno” rispondo fingendomi stizzita. Mi scompongo sulla sdraio senza
darmi pace e mi maledico per non aver acquistato uno di quei cappelli, simili a
dischi volanti, che una modista di Cap d’Ail mi aveva consigliato per assomigliare a
Kate Middleton. Indubbiamente mi avrebbero
riparato meglio dal sole.
“Tutti portano
cicatrici” sospira Louis saggiamente, sorseggiando il suo thè ghiacciato. I cubetti si scontrano appena
producendo uno sfrigolio acquoso. Io increspo le labbra appiccicose di
rossetto: “E’ vero” ammetto, pensando a quella mezza luna che gli segna il
mento. “Come te la sei fatta?” gli domando vaga.
Louis non risponde
subito, forse perché cerca di capire a cosa mi sto riferendo, poi lo sento
sorridere: “Giocando a polo…”
Io tengo gli occhi
ancora chiusi e, anche se non posso vederlo, so che in quel momento la
cicatrice si rimarca ancora di più sul suo volto, come una fossetta. Anche
Chuck porta una cicatrice, non certo sul viso, quello è perfettamente levigato,
se non per qualche ruga che gli dà un aria vissuta e affascinante. La sua è
sempre nascosta e per vederla bisogna slacciargli la camicia. Troppe volte le
mie dita erano scivolate sul quel lieve solco, lì dove la pelle è più chiara e
più liscia. Mi sentivo sempre in colpa, come se gli avessi sparato io. Per
questo spesso mi addormentavo sulla sua pancia, con la mano sopra quel segno,
come per coprirlo: pensavo che non vedendo più quella cicatrice forse avrei
dimenticato; avrei dimenticato Parigi, i suoi occhi pretenziosi, un po’ lucidi,
e quella scatolina nera.
“Et en fin…” stava continuando a raccontare Louis, gesticolando
quasi quanto un italiano “Wills mi ha
disarcionato e sono caduto faccia a terra, ci credi?” conclude ridacchiando.
“Incroyable…!”
esclamo con voce squillante e sciogliendomi in una risata
liberatoria.
Ciò che mi sembra
incredibile è invece come sia facile ridere con Louis. Mi sforzo per tenere gli
occhi aperti e lo vedo sorridere: ha delle deliziose rughette intorno
agli occhi e le labbra sottili contornano un semplice, ma allo stesso tempo
regale, sorriso. E’ così facile essere felice con lui: lo sento ridere e lo
faccio anche io, automaticamente. Spesso non ascolto una parola dei suoi
racconti, ma credo di non aver mai riso così tanto in tutta la mia vita. Che
importa se rido per finta?
Scossa ancora dalle risate,
la mia mano destra si dirige sulla pancia, è un gesto naturale che faccio senza
pensare. Dopo qualche attimo Louis unisce anche la sua, appoggiandola
delicatamente. Mi incupisco subito e guardo le nostre mani a contatto: quella
di Louis è leggermente più grande e più bronzea. Un quadro perfetto, se non
fosse che mi sento gelosa: gelosa di una parte che è solo mia e che lui non può
toccare. Anche se mi sono sempre piaciute le sue mani, con quelle unghie
perfettamente curate, mi sembrano estranee. Le mani di Chuck mi sono ben più
familiari, sono più grandi e dalla presa più vigorosa… lo
so bene perché è davvero difficile dimenticarsi di come reagivo al suo tocco:
anche quando non avevo freddo le sue dita bruciavano sulla mia pelle.
“J'ai fait quelque chose de mal?” mi chiede subito Louis, stupito dalla
mia ritrosia. Ormai so che il principe usa il francese quando qualcosa non va,
anche se in generale qualche parola gli scappa sempre. Fa parte del suo
fascino.
“No… certo
che no” mi affretto a dire, portando la mia mano sinistra - ancora vestita di
quel pesante diamante - sulla sua.
Cerco di sorridergli
rassicurante, ma lui non mi sembra convinto. Nei suoi occhi verdi macchiati di
grigio c’è un’ombra. E’ sospettoso e, inevitabilmente, un’espressione di amarezza
mi si dipinge sul volto: quando lo deludo mi è davvero difficile nascondermi
dietro a un sorriso. E’ come se facessi un dispiacere a me stessa, ci tengo
molto che la nostra relazione funzioni. Lui è la persona che ho sempre sognato
di incontrare.
Poi il rumore di un
elicottero in avvicinamento ci fa alzare lo sguardo al cielo.
“Paparazzi” sentenzia
Louis balzando in piedi seccato e appoggiando il bicchiere sul tavolo da
giardino.
Mi riparo la vista con
la mano, mentre il velivolo si fa sempre più vicino. I miei occhi si stringono
cercando di identificare la sagoma di un uomo.
“Copriti” mi intima
infastidito passandomi il prendisole. Io ubbidisco silenziosa, mentre liscio le
pieghe di sangallo sotto le dita e l’elicottero continua a ronzarci fastidioso sopra
la testa.
“Torniamo a La Rocher…” aggiunge porgendomi la mano perché mi alzi
dalla sdraio “Torniamo a Monaco-Ville. Non ha senso stare qui. Non
siamo adeguatamente protetti e ci fotografano lo stesso…”.
Nella sua voce c’è rassegnazione, un lieve disappunto e uno sbuffo contenuto
gli gonfia le guance.
Avevo da sempre amato i
paparazzi, forse proprio perché raramente guadagnavo la loro attenzione; mentre
ora, questo essere seguita e fotografata continuamente, cominciava a pesarmi. A
Manhattan i loro flash abbaglianti e fulminei si univano alle luci colorate
della città e, nei miei ricordi, illuminavano di bagliori intermittenti
l’invidiato volto di Serena e qualche volta anche il mio, se ero in sua
compagnia. Alla prémiere di Fleur mi
era capitato di essere fotografata da sola, ma quella fu l’unica volta: mi
avevano fermato dando per scontato che fossi Blair Waldorf e
con immenso orgoglio avevo detto che sì, ero proprio io. Con il
principe le occasioni si erano moltiplicate, ormai ero abituata a vedere il mio
viso sulla carta patinata delle riviste: la mia pelle bianca diventava quasi
trasparente e gli occhi solo due luci indistinte.