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Autore: Shadeyes    09/07/2011    4 recensioni
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.

Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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Infantility









2. Anxiety








Rientrammo a casa verso le sei del mattino, dopo aver sondato ancora una volta le strade della città.
Normalmente, i vampiri sono creature solitarie, non amano molto la compagnia, nemmeno della loro stessa specie, e difficilmente se ne trova più di uno sullo stesso territorio, ma non si sa mai.
Di eccezioni alla regola ne esistevano fin troppe, a cominciare da me e Caleb.
Lo spazio per cacciare non mancava, il mondo non pullula particolarmente di vampiri. È la legge della catena alimentare, dopotutto. Più ci si trova verso la punta della piramide, più si è in numero ridotto, altrimenti lo scambio di energia da un livello all’altro non sarebbe sufficiente a garantire la sopravvivenza della specie. Anche se, sinceramente, dubito che Dio avesse calcolato anche noi nel suo piano, al momento della Creazione.
«È l’ora del telegiornale del mattino. Quanta creatività avranno i tuoi amati Canadiens?», scherzò Caleb, accendendo il televisore della cucina. Un’ampia, bellissima cucina… vuota.
Caleb non era un nomade, in realtà. Tempi addietro quella casa l’aveva abitata veramente, immersa nelle colline boscose del Québec, e, anche se ora non se lo poteva più permettere, ogni tanto ritornare lì gli faceva piacere.
Nei nostri continui viaggi non potevamo portarci appresso troppe cose, anche perché spesso non usavamo l’auto, soprattutto quando eravamo di fretta, quindi molti dei nostri effetti personali rimanevano chiusi in queste stanze, al sicuro, anche per anni.
Io di effetti personali ne possedevo ben pochi. Fin da quando Caleb mi prese con sé avevo continuato a viaggiare, a spostarmi di città in città, prima per l’Europa, poi per tutta l’America  settentrionale, e non avevo avuto modo di coltivare le mie passioni. Prima di allora, beh… cercavo di non ricordare. Anche perché da ricordare non ci sarebbe nulla, di fatto.
Anche mio padre si spostava con me, naturalmente, ma lui aveva avuto più di trecento anni per coltivare le sue passioni, di cui tra l’altro la casa era piena. Libri, libri, libri… di letteratura inglese, soprattutto, ma quella italiana non mancava di certo. Tanto per fare un esempio, in salotto c’era un quadro che incorniciava Alla luna, un’opera tra le più suggestive di Leopardi. Originale, chiaramente.
«Sei sempre così pensierosa dopo la caccia». Non era una domanda.
Ho già detto che Caleb assomigliava ad una madre troppo apprensiva?
«In effetti, pensavo che a questa stanza servirebbe un’imbiancata», dissi indicando le crepe sul soffitto. «Gli anni passano anche per l’intonaco, sai?», lo stuzzicai.
Sorrise come solo mio padre sapeva fare e ribatté: «La prossima volta dedicheremo più tempo a questa maison. Va bene, ma chérie?».
Incrociai le braccia al petto e mi appoggiai al bancone che stava al centro della stanza. «Oppure potremmo fermarci un altro paio di giorni…», proposi. Mi bastò la sua occhiata per capire che l’argomento era già chiuso. Saremmo dovuti partire quella stessa mattina, appena dopo aver preparato i nostri bagagli.
Sospirai. «E dove andiamo, questa volta?».
«Pensavo Toronto, poi New York, Detroit, e di proseguire lungo tutto il confine canadese…».
Bleah! Odiavo New York! Pessima città. Troppe luci, troppi rumori, troppa confusione, troppo smog, troppo cemento, troppi newyorkesi… troppo tutto! Persino i vampiri risultavano noiosi da uccidere là, più pratici di noi a muoversi nei condotti fognari. Maledetti!
«Fino a Cleveland non avremo modo di nutrirci», notai turbata. «Non ci sono foreste né a Toronto né tantomeno a New York. Dovremmo preoccuparcene ora».
«Sono sicuro che troveremo qualcosa lungo la strada», sostenne pacato. Caleb aveva sempre un tono così flemmatico… Non si scomponeva facilmente. Dio, quanto mi irritava!
Aveva rivolto l’attenzione al televisore, come se non ci fosse più niente da aggiungere. Come se io non avessi più niente da aggiungere! Volevo bene a mio padre, più di quanto ne volessi a me stessa, e anche lui me ne voleva… ma, diamine, mai una volta che mi desse ascolto!
Aggirai il tavolo e mi frapposi tra lui e lo schermo. Seduto sullo sgabello com’era potei facilmente prendergli il viso con entrambe le mani, dolcemente. Lui non si mosse, mi lasciò fare.
«Sono passate quasi due settimane dall’ultima volta che ti sei nutrito. I tuoi occhi hanno perso il loro colore ambrato, il sangue di cervo che ti circola in corpo è diventato freddo e si sta raggrumando. Hai bisogno di scaldarti di nuovo». Le mie parole volevano essere una muta supplica. Non era mai stato così imprudente, perché ora si rifiutava di procurarsi da bere?
Alzò una mano per appoggiarla a una delle mie e la carezzò lentamente. «Sono passate quasi due settimane anche per te, Meredith, eppure la tua pelle è ancora calda e le tue guance ancora piene e rosee…». Solo mio padre poteva vedere del colore sulla mia carnagione che non fosse un pallido bianco lunare, ma aveva ragione. Ero più calda e viva di lui. Credo fosse una mia indole, come lo era per lui l’intuizione.
Piegai un po’ la testa di lato e sorrisi. «Ho sete anch’io».
Immobile, mi fissò per qualche istante, senza dire nulla, poi sospirò e abbassò la testa. «È che sono un po’ inquieto. Sento che ci dovremmo muovere, e alla svelta».
Deglutii senza cercare di mascherare l’agitazione. I presentimenti di Caleb non lo tradivano mai.
Avremmo dovuto scappare e far perdere le nostre tracce, ancora.
Ero stanca di quel gioco.
Passiamo ora alle notizie estere. Sono trascorsi meno di dieci anni da quando la città di Seattle fu terreno di caccia del serial killer più sanguinario della storia degli Stati Uniti. Gary Ridgway, l’assassino del Green River, fu condannato per aver ucciso quarantotto donne.
Ora la città sotto assedio deve fare i conti con un altro probabile mostro, ancora più sanguinario del precedente.
Entrambi ci voltammo di scatto. Cosa diavolo stava succedendo a Seattle?
La polizia non rivela se la recente ondata di omicidi e sparizioni è opera di un serial killer. Non ancora, almeno. Gli inquirenti stentano a credere che la carneficina possa essere opera di una sola persona, L’assassino sarebbe infatti responsabile, nel corso degli ultimi tre mesi, di trentanove fra omicidi e sparizioni correlati fra loro. I quarantotto crimini di Ridgway ebbero luogo nel corso di ventuno anni. Se queste morti risalissero davvero a un solo assassino, avremmo a che fare con il criminale più feroce della storia degli Stati Uniti d’America.
La polizia presuppone che dietro tutto questo si celi l’attività di una gang, poiché non sembra esserci un disegno preciso dietro alla scelta delle vittime. Chi compie gli assassinii sembra farlo per il semplice gusto di uccidere, senza una ragione precisa.
Tuttavia, non si esclude ancora l’opera di un serial killer. Il modus operandi è lo stesso: i corpi delle vittime sono tutti carbonizzati e tutti sono stai abbandonati senza il minimo tentativo di occultamento.
«Merde!», sentii esclamare Caleb sommessamente. Mi voltai a guardarlo e vidi una nota di preoccupazione nei suoi occhi, un’angoscia che non gli vedevo in volto da almeno una decina di anni.
La maggior parte dei resti presenta segni evidenti di una violenza brutale ― ossa spezzate da una pressione tremenda ― che i medici ritengono sia avvenuta prima della morte.
Un’altra caratteristica fa ipotizzare la presenza di un serial killer: tutti i crimini mancano di qualsiasi prova, a parte i resti stessi. Non un’impronta digitale, né segni di pneumatici; non si è ritrovato nemmeno un capello. Non sono stati rilevati tratti comuni nelle sparizioni.
E poi ci sono le vittime, tutt’altro che di basso profilo. Non si tratta di senzatetto o di vagabondi, persone la cui scomparsa potrebbe passare inosservata. Il caso più sbalorditivo è quello di un pugile dilettante, Robert Walsh, trent’anni, che è entrato in un cinema con la fidanzata: dopo pochi minuti dall’inizio del film la donna si è accorta che lui non era seduto al suo posto. Il corpo è stato ritrovato sono tre ore dopo, in un cassonetto che era stato dato alle fiamme, a trenta chilometri di distanza.
Negli assassinii c’è un altro dato comune: tutte le vittime scompaiono di notte.
E la costante più inquietante è il continuo incremento degli omicidi. Nel primo mese ne sono stati commessi sei, nel secondo undici. Negli ultimi dieci giorni ne sono stati compiuti ventidue, e la polizia non è più vicina a scoprire i responsabili di quanto non lo fosse quando ha scoperto il primo corpo carbonizzato.
Le prove sono contraddittorie, i ritrovamenti raccapriccianti.
Solo una cosa è certa: a Seattle qualcosa di tremendo è in agguato.
E il servizio terminò così, con la frase da film horror dell’inviata e l’inquadratura dell’espressione sgomenta del presentatore del notiziario.
Chinai la testa per riflettere su ciò che avevo appena sentito. Ero disorientata, con la mente imbottita di tutte quelle agghiaccianti informazioni. Ventidue morti in dieci giorni… nemmeno un vampiro con un mese di astinenza alle spalle potrebbe fare una strage simile! O forse sì…
Non mi capitava spesso di rabbrividire ― se così si può dire ―, ma in quel momento ne provai la sensazione.
Mi ripresi subito dopo e mi accorsi che la televisione era spenta. Ciò che mi restituì lo schermo nero fu solo la mia espressione smarrita.
Mio padre scattò dalla sedia, ma non si mosse. Rimase immobile, in piedi, come se il tempo si fosse momentaneamente fermato. Immaginai che fosse scosso e confuso esattamente tanto quanto lo ero io.
«Caleb…», sussurrai per distoglierlo dai suoi pensieri. «Cosa sta succedendo?».
Non mi guardò nemmeno. «Io… non ne sono certo. Erano due secoli che non sentivo di questi massacri…».
Come me, stava ipotizzando l’opera di uno di noi. Eppure, non aveva senso lo stesso…
«Quindi credi ci sia un vampiro dietro tutto questo», azzardai. «Ma, Caleb… la legge! Quale immortale sarebbe così sfrontato da agire in modo così teatrale? Sarebbe…».
«Un suicidio», terminò lui. «No, io non credo possa essere questo. Chi desidera morire, si reca in Italia per fare di queste scene».
«E allora cosa sta accadendo?».
«Potrei sbagliarmi, ma questo genere di eventi mi fa pensare a… ai primi mesi, quando non esiste autocontrollo né sazietà».
La mia espressione si contorse, e la confusione si trasformò in sbigottimento. «Un neonato…», mormorai a fil di voce. «Che ci fa un neonato a Seattle? Chi l’ha creato?».
«Non ne ho idea, Meredith. Ma chiunque sia stato, non lo sta educando come si dovrebbe. Si limita a cancellare le sue tracce».
Restai in silenzio per qualche secondo, riflettendo. «Ma… se la situazione degenerasse, i Volturi sarebbero costretti ad intervenire e…». Non riuscii a finire la frase. Entrambi sapevamo cosa significava.
«E li avremmo dannatamente troppo vicini».
I Volturi erano i sovrani della stirpe dei vampiri, per così dire. Aro, Caius e Marcus, più il loro spietato seguito. Erano loro che si preoccupavano di far rispettare la legge. Che poi, non era chissà quale codice… Pochissime regole venivano rigidamente fatte rispettare, le più importanti, quelle che assicuravano la nostra sopravvivenza. Tra di esse, c’era l’obbligo insindacabile di mantenere segreta la nostra esistenza. 
Questo comportava bere il sangue umano con discrezione, per cominciare, o non esporsi alla luce diretta del sole in presenza di umani, perché si vedrebbe quanto siamo diversi. La luce solare rifletterebbe la presenza di atomi di carbonio che farebbe apparire la nostra pelle come ricoperta di scaglie di puro diamante. Motivo per cui, tra l’altro, eravamo difficili da uccidere.
Ma c’era un’altra regola che i Volturi non tolleravano venisse infranta. Non si poteva uccidere uno della nostra stessa specie senza giusta causa. Era considerato un delitto imperdonabile.
Ecco perché io e Caleb eravamo obbligati a spostarci di continuo, vivendo nell’anonimato più assoluto. Ammazzavamo vampiri, la nostra stessa razza, decimando la nostra già ridotta popolazione.
Il perché non era ben chiaro nemmeno a noi. Forse per vendetta, per odio di noi stessi, per tutelare dei poveri innocenti… Sì, un po’ tutte queste cose. Ma io lo facevo principalmente per fede.
Quando si diventa dei mostri e si è convinti che la propria anima sia dannata per l’eternità, la ricerca del perdono diventa più impellente. E io vedevo la mia redenzione nell’omicidio. Un’utopia, di fatto, ma mi faceva stare meglio, quindi l’accettavo volentieri.
Ma ai Volturi tutto questo non interessava, ovviamente. Ci volevano morti.
«Dobbiamo fare qualcosa, Caleb», dissi con fermezza. Avevo paura, ero terrorizzata! Non avevo nessuna intenzione di ricapitargli sotto mano. Mai più.
«Dobbiamo sistemare questa faccenda prima che ai Volturi venga in mente di prendere un maledetto aereo per l’America!».
Caleb abbassò gli occhi e mi guardò serio. «E se stessero già monitorando la faccenda?».
A quello non avevo pensato. Rimasi a fissarlo senza sapere cosa dire.
«Potremmo rischiare di metterci alla loro portata senza nemmeno rendercene conto».
Aveva ragione, era una mossa azzardata. Ma, diamine, stavano morendo decine di persone! Non potevamo stare a guardare…
«Tu cosa senti, Caleb?». Glielo chiesi perché mi fidavo di lui e del suo istinto. Era il suo potere, dopotutto, e ammetto che ci era tornato utile in più di un’occasione.
«Io… io non lo so», mi rispose, insicuro. «Non riesco a percepire nulla di abbastanza chiaro. Solo una forte tensione, come se l’aria fosse improvvisamente diventata elettrica».
Solo lui poteva interpretare i suoi presentimenti. A me quelle sensazioni non dicevano nulla.
Sospirai e mi appoggiai al muro, improvvisamente stanca. Curioso per una creatura che non dorme da più di trent’anni! Ma la mia non era spossatezza del corpo. Avevo la mente sfinita.
«Cosa suggerisci di fare?», gli chiesi, allora.
Mio padre abbassò la testa, riflettendo. Lo sentii sospirare, cosa che non gli era molto caratteristica, poi alzò gli occhi per guardarmi e capii che aveva preso la sua decisione.
«Andremo a Seattle».








Divisore Infantility









Buonasera, cari lettori! xD
Ieri sera avete letto il primo capitolo e oggi ho voluto proporvi subito il secondo :)  Ho già scritto diversi capitoli di questa fanfiction e, tempo permettendo, vorrei pubblicare un post ogni sera, se per voi va bene xD  Non sono ansiosa di postare, per carità! I capitoli che vi proporrò saranno sempre prima sottoposti ad un serrato auto-editing xD  Solo che non voglio farvi attendere un'infinità. Voglio trattarvi bene, siete importanti per me ;)
Ringrazio _M e l_ e  LadyRhoswen per avermi incitato a proseguire e per aver commentato il primo capitolo con parole da me molto apprezzate :)  

Se volete fare due parole con me, per qualsiasi cosa, sul mio profilo c'è il mio contatto msn ^^

Se vi interessa, vi ricordo che QUI trovate una specie di trailer di Infantility :)

Grazie di avermi ascoltata, grazie di aver letto, grazie se vorrete recensire (risponderò ad ognuna di voi, naturalmente, con la mia solita prolissione xD)! Ricambierò volentieri il favore :)

PS: visto che voglio rimanere piuttosto fedele ai romanzi della Meyer, la parte in corsivo che riguarda il telegiornale è stata presa direttamente dall'articolo che la stessa Meyer ha scritto su Eclipse per introdurre l'esercito dei neonati a Seattle. Non mi prendo il merito per cose che non vengono dalle mie stesse mani :)


Au revoir, mes chers lecteurs! :)


Hilary

   
 
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