“nel Suo mantello nero, Lei ti ha portato via.
Nel Suo mantello nero che tutto copre”
1. Nel mare di meduse
E’ qui che sei morto.
L’aria è carica della pioggia imminente. Il cielo annegato
nel grigio azzurro si riflette nel mare.
Tutto è gelido. Immobile. Solo qualche raffica di vento,
debolmente, ogni tanto scuote questa decadenza di freddo invernale. Reggo a
mala pena i fiori, sento gli occhi bollenti e appannati, vorrei
solo potermi svegliare sapendo che tutto questo non è mai successo. Invece è successo.
Ripenso all’orrore. Alla disperazione. Al
tuo viso quando l’hai fatto.
Questo è un bel posto per morire ma la tua morte è stata
orrenda. Sei morto in questo squallido porticciolo, ma
ha un che di poetico. Pensavo che fossimo venuti per restare in piedi sugli
scogli, contemplando il mare e il volo dei gabbiani. Avremmo preso di nascosto
la barca di mio padre e saremmo andati a largo a guardare le meduse. C’erano
tante meduse in questo periodo, stavano tutte molto lontane dai moli, e di
notte riflettevano la luna come un oceano di stelle.
Quando hai proposto di
accelerare, tanto per divertirci un po’, io pensavo che lo facessi per
innocente immaturità. Lo facevi solo per morire. Sei uscito. Ti sei buttato di
sotto. Mi hai sfiorato la mano mentre cadevi.
E l’elica ti ha fatto a pezzi. In
quel mare di meduse.
Sangue, sangue, sangue ovunque. Pezzi
amputati di te, del tuo bellissimo corpo, che si perdevano nel vuoto di quel
mare scuro. Anche quel giorno era una brutta
giornata. Tutto era diventato scuro e rallentato. Avevo visto veli di liquido
rosso spargersi ovunque, ero riuscita a fermare la barca, e poi ero rimasta non
so quanto a guardare ciò che di te era rimasto.
Brandelli di vestiti emergevano, intravedevo sotto il
manto plumbeo qualche tuo pezzo.
Non posso credere che tu sia morto così.
Non posso credere che per te, proprio per te, sia stata
riservata una morte così indegna. Fatto a pezzi. A pezzi. A
minuscoli pezzi, ossa triturate, carne stritolata. La tua lapide non ha
niente sotto, solo una bara vuota e terra umida. Come pioveva quando ti hanno “sepolto”. Pioveva a dirotto. Qui piove sempre a dirotto,
dalla nostra finestra si vede il lago, che ha lo stesso colore dei tuoi occhi.
Oggi contemplo le barche allontanarsi per la loro pesca.
Puzza di pesce, reti fradice ammassate sui carretti, tutto coperto della strana
ruggine dei porti. Una ruggine impregnata di tutti quei giorni di burrasca,
passati, finiti. Per me la burrasca si è estinta. Non provo più niente.
Sprofondo nella totale apatia, ogni tanto apro gli occhi e sollevo la testa,
per vedere se, dal fondo di questo limbo, appare un sorriso, un piccolo raggio
di luce a tirarmi su. Ma mai è successo.
Mio padre ha avuto un infarto il giorno che tu ti sei
ammazzato. Io sono sospettata di averti ucciso. Tua madre non mi parla. Nessuno
mi parla.
La mia vita è distrutta. Potevamo ancora andare avanti,
amore mio. Potevamo fare tante cose. Che bisogno c’era
di seppellirti nel mare di meduse? Nello squallido
mare di questo posto piovoso. Un paesino sperduto che non
ricordo neanche come si chiama.
Avevi i soldi, avevi entrambi
i genitori, anche se ancora per poco. Come tutti forse avresti
pianto la morte di tuo padre e avresti visitato la sua tomba, avresti portato
dei fiori, l’avresti pulita, o forse avresti lasciato che questo lo facesse tua
madre. Ma ora accanto alla tomba di tuo padre c’è la tua, io e tua madre le puliremo entrambe.
Non doveva essere così, non doveva.
Oggi è il tuo compleanno.
Saremmo andati a vivere insieme, ci saremo sposati se ti
fosse piaciuto, io sarei diventata una stilista e tu una rock
star, ne sono sicura. Avremmo fatto esattamente tutto quello che imponevano i nostri sogni. Adesso non faremo più niente.
Lavoro in un negozio di cosmetici. Sei morto da sette mesi e nessuno ha ancora
riempito la mia anima della sostanza di cui tu l’avevi fatta traboccare.
Ripenso a te, a quanto ti amavo e a quanto ancora mi struggo nel ricordo che mi
hai lasciato, ma poi la tua espressione al momento in cui sei
morto. Cosa volevi dirmi? Cosa
devo fare per capire? Non capisco. Non capisco. Non riesco a
immaginarmi cosa volesse significare quell’espressione. Perché
hai voluto suicidarti quando c’ero anch’io? Volevi dirmi qualcosa. Forse volevi
dirmi che ti suicidavi per colpa mia.
Perché non mi hai detto dove
sbagliavo? Non litigavamo spesso, forse accumulavi
dentro ogni rancore. Io ti ho sempre amato. Ogni volta che ho sbagliato non
l’ho fatto con odio, mai con secondi fini, mai con gelosia, mai con rancore nei
tuoi confronti, mi dispiace se ho sbagliato, mi
dispiace immensamente.
I petali di queste rose galleggiano sull’acqua, assieme
alle mie parole.
Le mie parole che tu non ascolterai, forse non hai mai
voluto ascoltarmi. Un gabbiano stride all’orizzonte, altri si
uniscono, altri ancora, uno stridore tremendo, fa quasi male alle
orecchie.
Mi allontano. Abbasso la testa. Il cuore sanguina. E’
livido. Troppi calci nel culo.
Nei canti dei pescatori, nello stridere dei
gabbiani, nella vecchia ruggine di questo tempio di gelo. Rose
galleggiano sul tuo sepolcro.
Morte galleggia nel veleno di questa siringa.