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Autore: Marghe    22/02/2004    1 recensioni
Solo lettere a chi non c'è più da parte di chi lo ha perso per sempre. (momento decadentistico dell'autrice^^) Nonostante la sua banalità, prima classificata al premio letterario "Etruria" Aldo Zelli nel 2004.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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“nel Suo mantello nero, Lei ti ha portato via

“nel Suo mantello nero, Lei ti ha portato via.

Nel Suo mantello nero che tutto copre”

 

 

1. Nel mare di meduse

 

 

 

E’ qui che sei morto.

L’aria è carica della pioggia imminente. Il cielo annegato nel grigio azzurro si riflette nel mare.

Tutto è gelido. Immobile. Solo qualche raffica di vento, debolmente, ogni tanto scuote questa decadenza di freddo invernale. Reggo a mala pena i fiori, sento gli occhi bollenti e appannati, vorrei solo potermi svegliare sapendo che tutto questo non è mai successo. Invece è successo.

Ripenso all’orrore. Alla disperazione. Al tuo viso quando l’hai fatto.

Questo è un bel posto per morire ma la tua morte è stata orrenda. Sei morto in questo squallido porticciolo, ma ha un che di poetico. Pensavo che fossimo venuti per restare in piedi sugli scogli, contemplando il mare e il volo dei gabbiani. Avremmo preso di nascosto la barca di mio padre e saremmo andati a largo a guardare le meduse. C’erano tante meduse in questo periodo, stavano tutte molto lontane dai moli, e di notte riflettevano la luna come un oceano di stelle.

Quando hai proposto di accelerare, tanto per divertirci un po’, io pensavo che lo facessi per innocente immaturità. Lo facevi solo per morire. Sei uscito. Ti sei buttato di sotto. Mi hai sfiorato la mano mentre cadevi.

E l’elica ti ha fatto a pezzi. In quel mare di meduse.

Sangue, sangue, sangue ovunque. Pezzi amputati di te, del tuo bellissimo corpo, che si perdevano nel vuoto di quel mare scuro. Anche quel giorno era una brutta giornata. Tutto era diventato scuro e rallentato. Avevo visto veli di liquido rosso spargersi ovunque, ero riuscita a fermare la barca, e poi ero rimasta non so quanto a guardare ciò che di te era rimasto. Brandelli di vestiti emergevano, intravedevo sotto il manto plumbeo qualche tuo pezzo.

Non posso credere che tu sia morto così.

Non posso credere che per te, proprio per te, sia stata riservata una morte così indegna. Fatto a pezzi. A pezzi. A minuscoli pezzi, ossa triturate, carne stritolata. La tua lapide non ha niente sotto, solo una bara vuota e terra umida. Come pioveva quando ti hanno “sepolto”. Pioveva a dirotto. Qui piove sempre a dirotto, dalla nostra finestra si vede il lago, che ha lo stesso colore dei tuoi occhi.

Oggi contemplo le barche allontanarsi per la loro pesca. Puzza di pesce, reti fradice ammassate sui carretti, tutto coperto della strana ruggine dei porti. Una ruggine impregnata di tutti quei giorni di burrasca, passati, finiti. Per me la burrasca si è estinta. Non provo più niente. Sprofondo nella totale apatia, ogni tanto apro gli occhi e sollevo la testa, per vedere se, dal fondo di questo limbo, appare un sorriso, un piccolo raggio di luce a tirarmi su. Ma mai è successo.

Mio padre ha avuto un infarto il giorno che tu ti sei ammazzato. Io sono sospettata di averti ucciso. Tua madre non mi parla. Nessuno mi parla.

La mia vita è distrutta. Potevamo ancora andare avanti, amore mio. Potevamo fare tante cose. Che bisogno c’era di seppellirti nel mare di meduse? Nello squallido mare di questo posto piovoso. Un paesino sperduto che non ricordo neanche come si chiama.

Avevi i soldi, avevi entrambi i genitori, anche se ancora per poco. Come tutti forse avresti pianto la morte di tuo padre e avresti visitato la sua tomba, avresti portato dei fiori, l’avresti pulita, o forse avresti lasciato che questo lo facesse tua madre. Ma ora accanto alla tomba di tuo padre c’è la tua, io e tua madre le puliremo entrambe.

Non doveva essere così, non doveva. Oggi è il tuo compleanno.

Saremmo andati a vivere insieme, ci saremo sposati se ti fosse piaciuto, io sarei diventata una stilista e tu una rock star, ne sono sicura. Avremmo fatto esattamente tutto quello che imponevano i nostri sogni. Adesso non faremo più niente. Lavoro in un negozio di cosmetici. Sei morto da sette mesi e nessuno ha ancora riempito la mia anima della sostanza di cui tu l’avevi fatta traboccare. Ripenso a te, a quanto ti amavo e a quanto ancora mi struggo nel ricordo che mi hai lasciato, ma poi la tua espressione al momento in cui sei morto. Cosa volevi dirmi? Cosa devo fare per capire? Non capisco. Non capisco. Non riesco a immaginarmi cosa volesse significare quell’espressione. Perché hai voluto suicidarti quando c’ero anch’io? Volevi dirmi qualcosa. Forse volevi dirmi che ti suicidavi per colpa mia.

Perché non mi hai detto dove sbagliavo? Non litigavamo spesso, forse accumulavi dentro ogni rancore. Io ti ho sempre amato. Ogni volta che ho sbagliato non l’ho fatto con odio, mai con secondi fini, mai con gelosia, mai con rancore nei tuoi confronti, mi dispiace se ho sbagliato, mi dispiace immensamente.

I petali di queste rose galleggiano sull’acqua, assieme alle mie parole.

Le mie parole che tu non ascolterai, forse non hai mai voluto ascoltarmi. Un gabbiano stride all’orizzonte, altri si uniscono, altri ancora, uno stridore tremendo, fa quasi male alle orecchie.

Mi allontano. Abbasso la testa. Il cuore sanguina. E’ livido. Troppi calci nel culo.

Nei canti dei pescatori, nello stridere dei gabbiani, nella vecchia ruggine di questo tempio di gelo. Rose galleggiano sul tuo sepolcro.

Morte galleggia nel veleno di questa siringa.

 

  
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