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Autore: coco1994    26/08/2011    1 recensioni
La spia correva sui tetti piani della città, più agile di un gatto.
La poca luce che c’era illuminava il fisico asciutto e atletico, allenato e curato ogni giorno, e la tuta che lo fasciava, nera come la notte in cui la spia si stava muovendo e che stava rapidamente giungendo al termine.
Saltò giù da un parapetto aggrappandosi ad un cornicione cinque piani più in basso, per poi darsi la spinta e raggiungere in un solo, fulmineo movimento l'altro lato della piazza.
Doveva sbrigarsi e fare presto. Il Sole sarebbe dovuto sorgere solo di lì a quarantatré minuti, ma, con un lavoro come il suo, non si poteva mai sapere quando e come arrivassero gli imprevisti.

Devo essere impazzita. Cosa ho appena fatto? Mi sono imbarcata in un'altra folle impresa... Sto iniziando un'altra long-fic.
Ma è inutile piangere sul latte versato, e passiamo al sodo.
Questa fic è completamente AU, la location è un mondo feudale e si intrecceranno le vite di nobili e plebei più o meno normali... tutti personaggi ben conosciuti. I cari vecchi Digiprescelti indosseranno maschere alternative... E da "sfondo", una ricerca. Di cosa? A voi scoprirlo!
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 2

GLI OSPITI DEL RE

 

Hikari crollò distrutta sulla prima sedia che le capitò a tiro.

<< Finito… >> boccheggiò. Dette uno sguardo all’opera completa e poté ritenersi piuttosto soddisfatta. La bottega non era mai stata lucidata tanto a fondo.

<< Abbiamo fatto un ottimo lavoro, non trovi? >>

Taichi, disteso sul pavimento (splendente come uno specchio), grugnì.

A Hikari scappò un sorriso, intenerita dal broncio del fratello – sembravano tornati indietro di quindici anni, quando il ragazzo veniva costretto a fare qualcosa che proprio non voleva.

Perché Taichi detestava con tutto il suo cuore la fucina pulita. La prima volta che avevano dovuto farlo, si era quasi messo a piangere, nonostante avesse già quattordici anni.

<< Non sembra neanche vera! >> le aveva detto, quando Hikari gli aveva chiesto il motivo.

In effetti, guardandola in quel modo, la giovane non poteva che concordare con lui. Era anche vero che una fucina in piena attività produceva una quantità di fuliggine inaccettabile per il passaggio di nobili di alto rango come quelli che stavano arrivando. Taichi lo sapeva. Per questo stringeva i denti e accettava la cosa, anche se mai e poi mai – questo era certo – gli sarebbe piaciuta.

<< Sai una cosa? >> Hikari ricevette un mugugno in risposta, ma se lo aspettava. << Stanotte non ho missioni. >> Non ebbe alcun commento. Odiava quando si chiudeva in un silenzio taciturno, ma decise di lasciare correre. Questa volta. << Forse dovevo aspettarmi che sarebbe successo qualcosa, domani. >>

Un mugugno diverso dagli altri attirò la sua attenzione.

<< Come? >>

<< Buon per te, dicevo. Così puoi riposarti ed essere splendida, domani. >>

Aveva detto tutto questo con un solo mugugno? Complimenti.

<< Perché, oggi non lo sono? >> chiese, un po’ offesa.

<< No.>> disse Taichi, serio, scoppiando poi a ridere mentre schivava l’attizzatoio. Sembrava piccola e dolce, ma picchiava duro, la sorellina.

 

L’aria quasi vibrava, quella mattina. Al posto della nebbia che spesso appariva in quel periodo dell’anno – la primavera – nell’aria pareva esserci attesa condensata, tanto era grande l’aspettativa per gli ospiti che di lì a poco sarebbero arrivati.

Nessun bambino sporco correva per le strade. Nessuno urlava parole più o meno gentili da un lato all’altro delle piazze, nessun rumore molesto* in giro. Gli uomini si muovevano con ordine e a passi misurati, le donne lavavano i panni in catini lustri e i bambini… beh, i bambini non sapevano proprio che fare, visto che non appena tentavano di avvicinarsi ad una qualsiasi fonte di gioco – come un albero – venivano subito acchiappati per la collottola e lanciati in un angolo – lindo anche quello – perché non rovinassero tutto il lavoro che era stato fatto per renderli puliti. In breve, chi per un motivo, chi per un altro, tutti non vedevano l’ora che tutte le carrozze arrivassero e si chiudessero nel castello, in modo tale che le cose tornassero alla normalità.

<< Mamma! Maaaamma! >>

Un bambino di circa sette anni inciampò davanti a Taichi. Lui lo riprese al volo.

<< Rido! Cosa accidenti stai facendo? >>

<< Ta… i… nii… san… A… A… Arrivano! >>

Finalmente!

<< RAGAZZI! CI SIAMO! >> la voce possente di Taichi rimbombò per le vie, e coprì il rumore di centinaia di piedi che correvano.

 

<< Dai**! Dai! Svegliati svegliati svegliati! >>

<< Mmmmh… Miko, cosa c’è? >> che accidenti voleva sua sorella?

<< Siamo arrivati! Siamo quasi in città! >>

Un ragazzo castano spalancò gli occhi.

Per una volta, la nanerottola diceva qualcosa di interessante!

Il primo figlio maschio del casato Motomiya si avvicinò alla finestra della diligenza e sbirciò fuori, in lontananza, la capitale del regno. C’era stato solo una volta, diversi anni prima, e non se la ricordava granché. Gli era sembrata strana… fin troppo pulita, si ricordava. Però gli abitanti erano stati gentili con lui, soprattutto un ragazzino dai capelli biondi che aveva incontrato al castello.

<< Kyaaaaa! Dai-chin, siamo in città! >>

Urgh.

Sua sorella maggiore gli si affiancò. Aveva ventiquattro anni ed era la primogenita, ma non era ancora sposata. Non aveva trovato l’amore della sua vita, gli diceva più o meno otto volte al giorno. Aveva rotto un numero incalcolabile di fidanzamenti, ma la cosa non sembrava scuoterla più di tanto.

Daisuke scosse la testa, mentre le ruote della carrozza cominciavano a percorrere le strade acciottolate del centro abitato. Il suo sguardo cadde su una giovane che sbirciava curiosa fuori dalla finestra, un secchio d’acqua in mano.

Una ragazza castana molto carina. Le guance gli si tinsero di rosso. Forse l’aveva già incontrata?

La carrozza superò la bottega da cui la ragazza li guardava e svoltò l’angolo. Il giovane conte sospirò. Sperava di rivederla ancora una volta…

 

<< Chi era, sorellina? >>

<< Non lo so, non ho visto la carrozza davanti. Però al finestrino c’era un ragazzo castano di circa la mia età… >>

<< Allora dovrebbero essere i Motomiya. Altri dettagli? >>

<< No, ma… mi ha guardata intensamente. Chissà se gli ricordavo qualcuno. >>

A Taichi caddero di mano un paio di tenaglie.

<< Come, scusa? >>

Hikari rimase interdetta. Che domanda era quella? Non intendeva mica…

Guardando negli occhi il fratello si rese conto che, invece, era proprio così. L’idea era talmente assurda che si mise a ridere.

<< Non ridere, che è una cosa seria! >>

<< Santo cielo, Taichi! Quando la smetterai di preoccuparti così tanto per me? Con questo >> lo anticipò << Non intendo dire che hai ragione. È impossibile! E non esistono i colpi di fulmine. >> l’altro non disse niente, ma storse il naso.

<< Lasciamo perdere, dai. >> Hikari sorrise e uscì, osservando distratta due bambini entrare precipitosamente in casa.

Precipitosamente?

…Accidenti!

Le orecchie registrarono un rumore di zoccoli dietro di lei, lungo la strada.

Percepì. I cavalli erano molto vicini.

Calcolò. Aveva abbastanza tempo per scansarsi, ma era necessario un movimento troppo fulmineo per una cittadina qualunque.

Capì. Poteva solo girarsi, e lo fece, ritrovandosi ad un soffio dal viso gli zoccoli scalpitanti di un cavallo bloccato a metà corsa.

La sua reazione fu di buttarsi per terra, perché l’animale la scavalcasse, ma il cavallo stava andando troppo forte, e calò gli zoccoli su di lei.

 

Due ragazzi biondi smisero di litigare non appena la carrozza sulla quale viaggiavano interruppe bruscamente la sua corsa.

<< Che accidenti succede? >>

Il più piccolo dei due stava per sporgersi dal finestrino quando l’altro lo agguantò per la collottola e lo scaraventò a sedere.

<< Non comportarti come un ragazzo di strada, tu. >>

<< Tanto sei tu il primogenito, Yamato. Tu devi comportarti bene, io posso fare ciò che mi pare. >>

<< Vuoi litigare ancora, Takeru? C’è una netta vena polemica nel tuo tono. >>

<< Ehi, ascoltami bene… >>

 

<< Cosa sta succedendo? Cosa credete di fare ponendovi davanti a questa carrozza? Non sapete chi ci sta viaggiando? >>

 

I due giovani riconobbero la voce del loro cocchiere.

La curiosità ebbe la meglio su qualsiasi litigio. Entrambi scesero dalla carrozza… e non erano soli.

Una ragazza dai capelli rossi e dalla pelle bianca era appena scesa dalla carrozza dietro di loro. Il suo nome era Takenouchi Sora, ed era la fidanzata di Yamato da quando aveva compiuto sei anni.

<< Ma cosa… >>

Davanti alle carrozze c’erano due persone. La prima era una ragazza dall’aspetto dolce e delicato che, a terra, era proprio sulla traiettoria degli zoccoli dei cavalli, lo sguardo rivolto non al cavallo, nonostante la situazione. Ma era la seconda persona ad essere realmente sbalorditiva.

Si trattava di un ragazzo un po’ più grande e molto simile all’altra – fratelli? – ed era impegnato in una gara di forza a mani nude con gli zoccoli del cavallo. E vinceva.

<< Non me ne importa un accidente di chi viaggi in questa carrozza! Perché cazzo stavate galoppando per le vie di una città? Siete completamente fuori di testa? >> urlò, rosso per lo sforzo di tenere l’animale.

Rosso era anche il cocchiere, ma per la rabbia di essere contraddetto da… da… un plebeo.

Un plebeo che aveva ragione.

<< Yamato-sama, Takeru-sama, dove andate? >>

<< Il ragazzo ha ragione, Edgar. Abbiamo sbagliato noi. >>

<< Ma signore… >> il povero Edgar ammutolì di fronte alle due fessure color del ghiaccio del primogenito. Yamato sapeva farsi rispettare, se lo voleva. << Sì, signore. >>

Prese per le redini il cavallo, e i due ragazzi a terra furono liberi di alzarsi.

Lei potrebbe avere la mia età, fu il pensiero di Takeru quando la giovane si alzò. E lui quella di mio fratello, decise squadrando il ragazzo.

Lei era davvero carina. Inoltre era una persona interessante. Nonostante potesse essere schiacciata da un momento all’altro, non aveva assolutamente avuto paura – gliel’aveva letto negli occhi.

<< Taichi! >> chiamò angosciata l’oggetto del suo interesse. << Stai bene? >>

<< Sì, sì… urgh. >> si lamentò l’altro. << Senti, non posso dire di stare male, no? >> commentò davanti al sopracciglio alzato di lei. << Eddai, Hikari! Mi sono appena scontrato con un cavallo! >>

Yamato fece scorrere lo sguardo fra i due. Si concentrò sul ragazzo.

Era alto quanto lui e decisamente più muscoloso – nonostante Yamato, come nobile, avesse passato sette anni di apprendistato presso un cavaliere – ma non si poteva definire robusto. Riusciva ad essere esile nonostante le ampie spalle e le braccia forti. Il fisico asciutto e scolpito di chi lavora duro risaltava anche da sotto la tunica, roba da far morire di invidia chiunque. Aveva l’aspetto proprio di un ragazzo di città, forte e abbronzato, e a giudicare dalle bruciature alle dita e alle braccia doveva essere per forza un fabbro… un fabbro che lavorava a tempo pieno.

La ragazza, Hikari si doveva chiamare, si rabbuiò a quelle parole. << Mi dispiace… >>

Taichi le sorrise. Sembrava proprio una persona aperta e solare. << Ah, fa niente. Non ti preoccupare, sorellina! >>

<< Ha ragione. >> intervenne Yamato. << La colpa è nostra. >>

<< Vi porgiamo le nostre scuse. >> continuò Takeru.

Sembrò li stessero veramente considerando solo in quel momento.

<< Signori. >> entrambi i fratelli si inchinarono.

<< Vi ringraziamo per le scuse poste, e le accettiamo. >> affermò Taichi. Hikari annuì.

<< Ehi, tu, ma come… >>

<< Silenzio, Edgar. >> i due nobili sorrisero sotto i baffi. Solitamente, quando porgevano le loro scuse – ed accadeva di rado – la maggior parte della gente si affrettava a dire che non ce n’era alcun bisogno, anche quando era palese il loro errore. Per i fratelli Ishida era qualcosa di assolutamente nuovo, essere trattati con sincerità.

<< Yamato-sama, Takeru-sama. È tempo di andare. >>

<< Sì, arriviamo. Allora… Arrivederci. >>

<< Arrivederci, signori. >> altra riverenza. Del resto, tra loro c’era comunque una certa differenza…

 

Gli occhi di Miyako luccicarono quando, dalla finestra della sua camera, si posarono sul ragazzo appena arrivato.

<< KEN-KU– >> ma la mano di suo fratello Mantarou le impedì di continuare a gridare.

<< Miya, piantala di essere così espansiva. Non va più bene. >>

La giovane perse d’un tratto tutta la sua felicità. Beh, non proprio tutta, perché Ken era lì al castello. Ma se lei non poteva neanche salutarlo…

<< Mi odio per essere cresciuta. >>

<< Saresti stata un portento se non l’avessi fatto. >>

Bah, comprensione pericolosamente uguale a zero, come al solito.

<< Su, Miya, non fare quella faccia. >> disse una voce alle loro spalle.

<< Cathy! >>

Gomitata nelle costole da parte di Mantarou.

<< Ma porca miseria, Miya, è la principessa! Almeno un minimo di rispetto! Ma mi ascolti quando parlo? >>

<< Non ti arrabbiare, Mantarou-san. Miya è fatta così, lo sappiamo tutti. >>

Quel precisino del fratello di Miyako si prostrò fin quasi a toccare terra.

<< Come desidera, Catherine-hime. Vi lascio sole. >> detto questo, uscì.

Bleah! Miyako dirò fuori la lingua, schifata. L’untuosità di suo fratello le faceva venire l’orticaria.

<< Non penso che Mantarou si rassegnerà mai all’idea che ci sia un altro uomo nella tua vita. >>

<< Scherzi? Non voglio averlo sempre fra i piedi! >>

La principessa sorrise con quell’aria di sapere tutto che la rendeva veramente odiosa.

<< Comunque sia… Stasera mio padre riceverà i suoi ospiti. >>

Miya annuì. Odiava le formalità, ma non poteva farci niente.

<< D’accordo. Avvertirò i miei genitori non appena torneranno. >>

<< Credi davvero che non sarei andata a cercarli se avessi dovuto avvertire loro? >> rispose piccata Catherine. Ahia. Si era dimenticata che la principessa era tremendamente permalosa. << I tuoi genitori li ho già avvertiti. Ora cercavo te. >>

<< Me? >>

<< Esatto. Stasera sono invitati anche gli eredi. >>

 

Takeru Ishida sorrise sotto i baffi, mentre le guardie passavano per il giro di ronda e lui le superava di nascosto, guadagnando l’uscita.

Il Sole di fine estate gli lambì i capelli dorati e gli riscaldò il viso, facendolo sentire finalmente felice. Quel prato se lo ricordava bene, perché c’era stato diverse volte durante la sua ultima visita al castello. Era stato ormai diversi anni prima, quando ancora lui e suo fratello…

Alt.

Con quella piccola fuga si era promesso di lasciarsi alle spalle almeno per qualche ora Yamato e le questioni in sospeso che aveva con lui. Preferiva smettere di lasciarsi rovinare ancora la giornata da quei litigi sfiancanti. E dolorosi, non poté fare a meno di pensare.

Ecco, ci stava cadendo di nuovo.

Cominciò a correre verso il cancello, lasciando che il vento gli rinfrescasse la mente e facesse scomparire la malinconia almeno per un po’.

 

Aveva fatto appena dieci metri che si dovette buttare a terra, impiastricciando la bella veste azzurra. Poco male. Non gli erano mai interessati i vestiti.

Il male era che davanti al cancello c’era un notevole spiegamento di forze. Possibile che quella carogna di suo fratello avesse già avvertito le guardie?

Scosse la testa. Era impossibile. Mica gli aveva detto che sarebbe uscito dal castello, non era un deficiente.

Gli venne poi in mente una conversazione che aveva sentito su un nuovo ponte levatoio.

Sempre strisciando, andò a controllare la situazione duecentocinquanta metri a destra, per accorgersi che il ponte stava venendo smantellato da cima a fondo.

Represse un’imprecazione di stizza.

Decise di mostrarsi e di chiedere alle guardie – dopotutto, nessuno gli aveva impedito di andare a giro dove voleva nel castello, ma sarebbe stato carino vedere con quale autorità l’avrebbero fatto.

Appena alzato in piedi si accorse delle condizioni dei suoi vestiti. Peccato che a quel punto l’avevano già riconosciuto, e nascondersi di nuovo avrebbe dato origine solamente a maldicenze senza fine… Al suo castello, almeno, avrebbero fatto così. Si risolse avanzando e cercando di fare come se niente fosse, con un cipiglio simile a quello del fratello, che in giro faceva paura – ma che Takeru definiva solo “scoglionato” – perché a nessuno venisse in mente di prenderlo in giro. Si avvicinò a quello che sembrava il capo, visto come impartiva ordine a destra e a manca.-

<< Buongiorno. Cosa state facendo qua? >>

Il giovane dai capelli rossi si voltò e senza il minimo rispetto lo analizzò da capo a piedi, soffermandosi un paio di secondi buoni sulla larga macchia verde che aveva sul petto, e guardandolo negli occhi sul punto di scoppiare a ridere.

<< Cos’ha fatto lo chiedo a lei, signore. Non sono molto pratico dei passatempi delle altre contee, ma nella sua è per caso rotolarsi nell’erba? >>

Takeru rimase interdetto. Mai, mai nella vita qualcuno l’aveva trattato così a pesci in faccia.

Ma forse era una caratteristica di quella città, l’essere schietti col prossimo, di qualunque ceto fosse, considerò pensando ai due fratelli incontrati prima, a lui e a lei.

Un momento! Stava pensando troppo. Quello che gli era stato detto poteva essere considerato un insulto grave. Poteva farlo come minimo buttare nelle segrete, gli avevano inculcato in testa che si faceva così in questi casi.

Però sapeva di essere conciato male. Se avesse chiamato le guardie, queste avrebbero forse lasciato perdere sul momento, obbedendo al suo ordine e trascinando nelle segrete il ragazzo dai capelli rossi, ma entro sera il fatto che il figlio minore degli Ishida si rotolasse nel prato come sport sarebbe stato di dominio pubblico, e anche se non aveva paura di suo fratello, di suo padre eccome, e lui l’avrebbe certamente scorticato vivo.

Abbassò ancora lo sguardo alla sua tunica. Era effettivamente ridicolo, e l’espressione tronfia che aveva adottato fino a quel momento non aveva migliorato le cose. Se si fosse trattato di qualcun altro, gli avrebbe riso in faccia.

Guardò negli occhi il giovane davanti a lui, e il guizzo divertito che intravide gli fece ricordare di chiudere la bocca, rimasta aperta per lo stupore, ma ancora di più gli fece pensare che quello avesse intuito i suoi pensieri.

<< Anche a me piace farlo. >> intervenne inaspettatamente il capo dei costruttori. << E può continuare anche lei, mica glielo impedisco. Però, mi creda, per mantenere l’immagine è meglio che non si faccia vedere da nessuno, conciato in questo modo. >>

Capelli rossi, capo costruttore, giovane, intelligente, acuto e senza freni.

Takeru capì chi era il ragazzo.

Koushirou Izumi, il geniale inventore. Uno di quelli che “ne nasce uno e teniamocelo stretto, perché chissà quando ne ritroviamo un altro”. Era il migliore di tutti, nessuno ne faceva mistero. In una parola: insostituibile. Per questo, poteva permettersi quel comportamento. Ringraziò il cielo di non aver chiamato le guardie: avrebbe dato il via ad uno spiacevole incidente diplomatico. Peggio della storia della tunica.

<< Koushirou Izumi. >>

<< Esatto! Sono io. >> sorrise, senza ironia stavolta.

Cavoli, se era giovane. << Ho sentito parlare di te. Onestamente, non ti credevo così giovane. >>

<< Ho due anni più di lei. >>

Takeru preferì non chiedersi come facesse a saperlo. Si immaginò il re Gennai a impartire ai suoi sudditi lezioni sugli ospiti che dovevano arrivare. Pensò che avrebbe potuto – per quanto un abile regnante, aveva la reputazione di essere strambo.

<< Lieto di conoscere una celebrità. >>

<< Perché, lei non lo è? >> Koushirou sorrise ancora.

Cominciava a stargli veramente simpatico.

<< Comunque >> fece il rosso, tornando alla prima domanda di lui – Takeru se n’era quasi dimenticato << stiamo ricostruendo il ponte levatoio. Visto che ormai tutti gli ospiti sono al castello, abbiamo pensato fosse una buona cosa iniziare ora, e temporaneamente l’entrata principale è il cancello sud. Ma forse già lo conosce… è quello con un grande prato verde davanti. >> Ok, fine della simpatia.

Takeru ignorò l’allusione – vera, purtroppo – perché si era appena dissolta la sua ultima speranza di fuggire in città.

<< Cosa c’è a destra? >>

<< Prevalentemente le stalle. >>

<< Allora andrò a fare un giro là. >>

<< Contento lei. >>

Takeru fece per girarsi, ma quello lo fermò.

<< Ehi… mi dispiace di averle bloccato la fuga. Sul serio. >> sussurrò a bassa voce.

Takeru lo guardò con degli occhi grandi come piattini. Koushirou fece un mezzo sorriso, davanti al suo sconcerto.

<< La prossima volta che vuole scappare di qui per un po’, mi avverta prima, che in un modo o nell’altro vedo di farla passare. >>

100 punti per Koushirou, perché sembrava davvero sincero. A quel punto sorrise anche Takeru, con riconoscenza, e meno male che erano tutti uomini eterosessuali, sennò tutti – tutti – gli sarebbero saltati addosso.

 

Passando dalle stalle, l’umore un po’ sollevato, Takeru Ishida notò tre persone.

<< Daisuke! >>

Il primogenito dei Motomiya alzò lo sguardo e gli sorrise, riconoscendolo. I due ragazzi avevano la stessa età, e nonostante le differenze di carattere erano da sempre grandi amici.

Seduto su un treppiede di legno, Daisuke porgeva il braccio sinistro ad un giovane dai capelli blu, che stava pulendo una larga ferita.

A Takeru quasi prese un colpo vedendola.

<< Che hai fatto? >>

<< Il deficiente. >> risposta tipica di Daisuke, che del resto non aiutava granché a capire la situazione.

<< È colpa mia. >>

<< No, figurati, mi sono messo davanti ai cavalli mentre non c’eri! >>

Il terzo ragazzo, quello che si era appena addossato la colpa, era piccolo e mingherlino, e a quanto pareva, si occupava degli animali nella stalla.

<< Buongiorno. Mi dispiace, ma non so chi siete. >> disse Takeru, con cortesia.

Entrambi si inchinarono.

<< Buongiorno a lei. Io sono Iori, scudiero. >>

<< Buongiorno. Sono Jyou, medico di corte. >>

<< È una fortuna che fosse qui per occuparsi dei cavalli, sennò chissà quanto sangue avrei perso prima di raggiungere l’ospedale! >>

Il biondo osservò il ragazzo dai capelli blu.

<< Ma un medico non è un veterinario. >>

<< Io tratto chiunque allo stesso modo, signore. E questo vale anche per gli animali. Ho dovuto studiare un po’ di più, ma adesso so curare chiunque. >>

Un pensiero sembrò agitarlo.

<< Cioè, almeno teoricamente, sulla carta! Non posso fare i miracoli! >> si affrettò a precisare.

Però la ferita era perfettamente pulita. Sapeva fare bene il suo lavoro, non era un ciarlatano.

E i miracoli, quelli non sapeva farli nessuno. Nessuno poteva biasimarlo, per questo.

Il giovane Iori alzò la mano, e sia Takeru che Daisuke ci misero un po’ a capire che stava chiedendo il permesso di parlare. Non si misero a ridere per quel gesto solo per via della cortesia che c’era messa. Esagerata, ma pur sempre cortesia.

<< Sì? >>

<< Non vorrei intromettermi, ma… Sono quasi le otto. Tra poco non avreste la cena col re? >>

Entrambi cascarono dalle nuvole.

<< Cena?!? >>

 

I due giovani nobili correvano in modo poco consono al loro rango attraverso il giardino, in direzione del castello. Stavano per lasciarsi, quando Takeru sbatté contro un ragazzo che veniva nella direzione opposta.

Suo fratello.

Daisuke, dal canto suo, fece del suo meglio per eclissarsi, ma Yamato gli mise gli occhi addosso.

<< Buon pomeriggio, Yamato-sama. >> pigolò.

Sì, pigolò, perché sul volto di Yamato c’era un’espressione che non avrebbe augurato a nessuno. Men che meno al suo migliore amico, che ne era l’infelice destinatario, purtroppo.

<< Buon pomeriggio. >> sillabò il maggiore dei fratelli, e Daisuke, scusandosi con lo sguardo con Takeru, si levò di torno.

Non erano molto le volte in cui, per diversi motivi, non desiderava essere Takeru, ma questa era una di quelle volte.

 

Prima di infierire su di lui, Yamato lo mandò a lavarsi e a cambiarsi. Uscendo pronto per la cena dai suoi appartamenti, Takeru se lo ritrovò davanti, livido di rabbia, e si preparò al colpo. Che, come sempre, non arrivò.

<< Cosa devo fare con te? >> gli venne sibilato.

<< Perché cerchi sempre di rendermi la vita impossibile? Ti costa troppo non essere un totale peso morto? >>

Disprezzo puro nello sguardo, e, come sempre, Takeru desiderò sparire dal mondo, piuttosto che subire ancora per un secondo lo sguardo insormontabile del fratello.

 

Fu con questo umore che si avviò fuori dai suoi appartamenti – Yamato stava andando a prendere Sora – finché, nel corridoio, non vide una persona che aveva già incontrato in precedenza.

La ragazza chiamata Hikari rideva allegra assieme a una delle guardie.

Il suo fidanzato?

Si augurava di no, pensò guardandolo in faccia. Sarebbe potuto essere suo padre.

E infatti l’argomento del discorso verteva sulla spada nuova – o appena riparata, questo Takeru non riusciva a capirlo – che la ragazza aveva appena portato. Anche se quella persona non era il padre, lei lo trattava sicuramente come un familiare, cosa che probabilmente accadeva con ogni altra persona del castello. Sembrava così serena che Takeru si trovò a desiderare disperatamente di essere al suo posto.

Ecco, Hikari stava andando via.

L’aveva persa.

Chissà perché, si sentì triste.

Raggiunse l’angolo da cui l’aveva vista sparire e girò a sinistra.

Se la trovò davanti.

 

Imbarazzo completo e totale. Meno male che Hikari era più sveglia di lui.

<< Buonasera >> disse inchinandosi.

Nel farlo, scoprì i palmi, e Takeru vide come erano ridotti.

Doveva essersi irrigidito, visto lo sguardo che lei gli lanciò.

Seguì i suoi occhi e si accorse che erano puntati alle sue mani, mentre Takeru cominciava a sbiancare terribilmente, ad un passo dall’attacco di panico per via del profondo senso di colpa che già gli attanagliava lo stomaco. Era sicuro che non gli avessero fatto niente, e invece…

<< Tranquillo. >> sorrise però Hikari. << Cioè… Stia tranquillo. Non mi sono fatta male durante… insomma… l’incidente. >>

Le spalle di Takeru si afflosciarono per il sollievo, e la ragazza doveva essersene accorta, perché gli dedicò un altro sorriso pieno di tenerezza. Di quelli che si rivolgono ai piccoli bambini quando sono buffi, ma comunque un sorriso, e comunque tenero.

<< C’è stato– >>

Si interruppe, forse temendo di essere scortese.

<< Sì? >>

<< C’è stato un incidente alla fucina di mio fratello. È quasi esploso un forno, e abbiamo spostato diverse lame a mani nude. >>

<< Che cosa? >>

<< Se le avessimo lasciate dov’erano, sarebbe stato molto peggio. >>

Takeru restò in silenzio per un momento.

<< Ti chiami Hikari, vero? >> chiese poi.

<< Sì, Takeru-sama. >> il ragazzo fece una smorfia. Non gli piaceva essere chiamato così, ma doveva imparare a mascherarlo meglio.

<< Perché fai questo lavoro? >> le domandò.

<< E perché lei è un nobile? >> fu il veloce controbattere di lei.

Come come?

<< È diverso! >> protestò il ragazzo.

<< No che non lo è. Lei erediterà un titolo >> Forse, non poté che pensare Takeru << io e mio fratello la fucina. Non siamo diversi. >> disse, piantando negli occhi azzurri il suo sguardo profondo e magnetico.

Qualcosa dentro il giovane scattò. Gli sembrava fosse la prima volta che qualcuno non lo considerasse così diverso da sé. Dire che questo gli fece piacere è riduttivo.

Le campane suonarono le otto e un quarto. Doveva andare.

Hikari si scostò per farlo passare.

<< Ah! Un’ultima cosa. >>

<< Mi dica pure. >>

<< Perché prima hai cercato di tranquillizzarmi, quando ti ho visto le mani? >>

Lo guardò seria. << È una domanda giusta. >>

Poi, soppesando lentamente ogni parola della risposta, disse << Credo che il motivo sia che mi sembrava che fosse preoccupato per me, non per le conseguenze che avrebbero potuto esserci. È una cosa che si chiama gentilezza, e rispetto le persone che la possiedono. >>

Detto questo, si inchinò, incamminandosi poi nella direzione da cui Takeru era venuto.

 

<< Take. >>

Una voce parlò all’orecchio di Takeru. Era Daisuke.

<< Com’è andata? >> sussurrò.

Per un pelo il biondo non parlò al suo amico di Hikari, invece che di suo fratello.

<< Al solito. >> rispose, ma l’umore era nettamente migliore di come la voce facesse sembrare.

Notò che Daisuke aveva la tipica aria di quando doveva assolutamente dirgli qualcosa.

<< Senti… mi dispiace per averti lasciato da solo, prima. >> disse, infatti.

<< Lascia perdere, Dai. Non potevi fare altro. >>

<< Sì, però mi dispiace lo stesso. >>

<< E piantala! >>

<< Sssh, parla piano! >>

<< Anche tu. >>

Takeru sbirciò il corridoio con la coda dell’occhio. Hikari lo stava ancora percorrendo.

<< Ehi, ma lei… >>

Daisuke guardava nella sua stessa direzione.

<< La conosci? >> chiese Takeru curioso.

<< No, ma l’ho vista venendo in qua in carrozza. >>

<< E te la ricordi? >>

<< Sì, perché… >> ma il ragazzo non finì la frase, arrossendo di brutto.

<< Ti ha affascinato? >> ghignò il biondo.

<< No! Cioè… lei non ha fatto niente… >>

<< Comunque sia, si chiama Hikari. >>

Daisuke lo guardò con una punta di gelosia nello sguardo.

<< La conosci? >>

<< No, ma l’abbiamo quasi investita. >>

<< L’AVETE QUASI INVESTITA? >>

<< Parla piano! >>

Hikari, però doveva averli sentiti, perché indugiò un po’ più a lungo sul passo che stava per fare.

E mentre Takeru si affrettava a spiegare a un Daisuke a un passo dall’ira furente cosa effettivamente fosse successo, il biondo ebbe come l’impressione che, da dietro le proprie spalle, Hikari stesse sorridendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dite un po’, secondo voi perché ho questo orribile vizio di aggiungere capitoli a quest’ora di notte?

Comunque sia, sono soddisfatta di me. Ho messo poco ad aggiornare…

Allora… Sono arrivati gran parte dei personaggi! Mancherebbe praticamente solo Ken. Doveva arrivare sul finire di questo capitolo, alla famosa cena descritta da Catherine, ma alla fine veniva una cosa troppo lunga perché mi sono fatta prendere la mano parlando di Takeru. È tutto slittato a inizio prossimo capitolo. Temo di essere troppo logorroica, ma non so proprio come ovviare al problema. Metto troppi incisi ed è una cosa più forte di me.

Aldilà di questo problema, che non è l’argomento del capitolo ( meno male, sennò sai che noia ), passiamo ai due asterischi:

*rumore molesto = non so se l’avete visto… ma avete presente almeno il trailer di “Cattivissimo me”? “Rumori molesti” viene da lì.

**Dai = in questo caso, è il diminutivo del nome di Daisuke. Qualche riga sotto, sarà usato da Hikari come interiezione. Si potrebbe fare confusione, ma cercherò di essere chiara.

Parlando del titolo del capitolo precedente, è pomposo e senza senso, ma l’ho scritto prima di iniziare a formare la storia, e l’ho lasciato per puro affetto.

Ora vado, prima di crollare sulla tastiera. Alla prossima!

coco1994

 

P.S. Se in questo commento finale ci sono frasi assurde, cercate di essere comprensivi. Ho sonno, e quando ho sonno, il mio cervello va in pappa.

  
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