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Autore: StephEnKing1985    28/08/2011    2 recensioni
Donatello è un ragazzo gay un po' in sovrappeso. A causa del suo aspetto fisico, si trova a dover fronteggiare in modo particolare la superficialità e meschinità del mondo gay sotto forma di delusioni che riceve puntualmente da ogni ragazzo che conosce. Per rifuggire al dolore, si diletta in ciò che sa fare meglio: Disegnare fumetti. Il suo personaggio preferito è Dandy Landy, un bellissimo ragazzo frizzante e dolce, in cui Donatello proietta il suo fidanzato ideale, innamorandosene. Ben presto il bel personaggio di carta incomincerà a vivere di vita propria, ma sarà una felicità per Donatello oppure sarà solo l'ennesima delusione?
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Non capisco, Fiorella… mentre disegno, ogni tanto sento delle voci. – dissi, non senza vergogna. Credo che le mie guance rosse si sarebbero viste lontano un miglio, anche se Fiorella tradì di non essersene accorta.

- Che cosa senti, Donatello? – mi domandò, in quel suo tono calmo e misurato.

- Io… sento Dandy che mi parla. – risposi – Sì, lo sento che mi riprende, che cerca di darmi delle risposte… -

Ci fu un attimo di silenzio tra noi, come se per la prima volta in quasi un anno di sedute, avessi rivelato qualcosa di veramente scioccante a quella ragazza che non si impressionava mai, nemmeno quando dicevo di sentire un bisogno istintivo di coccolare e fare sesso con un ragazzo.

- Che risposte ti da, Donatello? – domandò Fiorella, nel tono in cui una sorella maggiore cercherebbe di cavar fuori dalla bocca del fratellino un segreto troppo sconvolgente.

- Rispostacce. – dissi, senza pensarci. – Mi chiama stupido, pirla, e quant’altro… Perché? –

Sollevando entrambe le sopracciglia, Fiorella rispose – Non lo so. Forse è solo la tua immaginazione che ti fa sentire certe cose, magari tu vorresti parlargli e invece al posto della sua parola, agisce il tuo pensiero. –

- Cosa? Non ti ho nemmeno raccontato di quella volta che … - ma mi bloccai. Era troppo assurdo, talmente assurdo che non ci credevo nemmeno io.

- Di quale volta? –

- Oh? Niente – mi affrettai a chiudere – Niente, nulla di importante… -

 

 

Tornando a casa, mi accorsi che Francesco era uscito. Non mi aveva lasciato nessun biglietto sul tavolo, quindi me ne andai in camera e mi sedetti al mio tavolo da lavoro. I fogli disegnati imbrattati di colore blu erano ancora lì, non li avevo buttati perché di solito non buttavo mai nessuno dei miei disegni, ma avrei dovuto archiviarli già da un bel po’. Li presi in mano, toccando la loro superficie, resa ruvida dal colore. Mi morsicai le labbra, quindi cercai con gli occhi un posto dove metterli. Optai per infilarli in uno dei raccoglitori che tenevo sullo scaffale in alto e dopodiché mi misi al tavolo da disegno, finalmente pulito. Presi la matita in mano ed incominciai a fare quello che sapevo fare meglio. Disegnare.

Mi misi davanti al foglio bianco, e tamburellai con la matita per un bel po’ di tempo, cercando l’ispirazione. Modo buffo, non trovate? Cosa posso dirvi, noi artisti siamo così. Abbiamo le manie più strane, ad esempio quella di un mio amico scrittore: non si metteva mai a scrivere prima che avesse starnutito. Diceva che lo starnuto erano i suoi personaggi che lo sollecitavano a farli parlare, le idee che schizzavano fuori dalla sua testa. Almeno io mi limitavo solo a tamburellare con la matita, e non riuscivo nemmeno a trovare l’ispirazione, se dovevo dirvela tutta.

La scena mi ricordava un po’ quei film strani in cui il protagonista cerca di mettersi in contatto con qualcuno. Ricordavo di aver letto qualcosa di simile, forse era un romanzo horror: il protagonista era uno scrittore famoso che aveva in un certo senso “ucciso” il suo pseudonimo, e questi anziché essere una persona di fantasia era una persona viva, reale e pericolosa. Tra le altre caratteristiche, ricordo che il protagonista ed il suo alter ego riuscivano a comunicare telepaticamente, scrivendo. Uno scriveva qualcosa, e l’altro se si concentrava riusciva a captare i suoi pensieri e li riportava su carta sotto forma di scrittura.

Piuttosto inquietante, ma ricordare quel romanzo mi diede un’idea per cominciare: il primo disegno fu Dandy, che quel giorno non avevo ancora visto se non nel manifesto che tenevo nella mia stanza. – Vogliamo parlare, Dandy? E va bene. Parliamo. – dissi sottovoce, continuando a tratteggiare i suoi lineamenti. Conclusi, e venne fuori un Dandy con le mani in tasca, che stazionava in uno spazio vuoto.

- Uhm – mormorai – Si parla meglio da seduti. Che ne dici? –

Prontamente, cambiai quadro e lo disegnai seduto su un divano.

- Dove potrebbe essere questo divano? Un modernissimo loft? O una tenuta di caccia inglese? Oppure…? –

Non so perché, ma mi venne da disegnare il nostro appartamento. Nel disegnare le figure umane ero bravo, ma non lo ero altrettanto a disegnare ambienti e componenti d’arredo. Figuriamoci, se fossi stato bravo a disegnare componenti d’arredo ed ambienti, sicuramente a quest’ora frequenterei la facoltà di architettura, e non di giurisprudenza. Tuttavia, il nostro appartamento venne bene. Disegnai qualche inquadratura della mia stanza e di quella di Francesco (ovviamente vuote) per rendere viva l’idea che Dandy quel giorno si trovasse in un ambiente familiare piuttosto che in uno dei tanti luoghi che la mia mente gli confezionava ogni volta che doveva agire.

- Ti piace? – domandai. Trasferii la mia domanda su un baloon a lato della vignetta, e disegnai Dandy che si girava sorpreso dalla voce che aveva parlato. Ora mancava un’ultima cosa.

Il suo interlocutore.

 

Francesco, ogni volta che si preparava per andare in discoteca, stava ore ed ore a prepararsi: controllava che i capelli fossero a posto, che i trucchi avessero fatto il loro effetto sul suo viso, che i suoi vestiti fossero perfetti ed immacolati. A questo proposito teneva in camera uno specchio a figura intera. Lo odiavo, quello specchio. Ogni volta a causa della mia mole, non riuscivo a vedermi i fianchi. Era uno specchio troppo chiaro, imparziale. Ma quella volta avrei dovuto superare la mia antipatia verso di lui ed usarlo. Entrato nella sua stanza, ignorando tutti i ritagli di immagini di ragazzi appiccicati sul suo armadio per paura di perdere la concentrazione (dovevo parlare con Dandy nel fumetto e non volevo assolutamente che nulla interferisse con questa operazione), mi apprestai a spostarlo. Purtroppo non aveva le ruote ed era abbastanza pesante, quindi dovetti fare molta attenzione a non romperlo. Se l’avessi rotto, come minimo Francesco mi avrebbe spellato vivo.

Ultimato il trasferimento da stanza a stanza, lo misi proprio accanto al mio tavolo da disegno. Mi allontanai un po’, con le braccia incrociate sul petto. La mia immagine riflessa era terribile, e feci una smorfia di disappunto cercando di superare l’antipatia di vedermi così imperfetto. Studiai la mia espressione, la mia linea e le mie proporzioni rispetto a Dandy. Calcolavo da sempre che Dandy fosse un po’ più alto di me e non troppo magro; sì, insomma, un ragazzo che per baciarmi la fronte avrebbe dovuto chinarsi un po’. Senza staccare gli occhi dallo specchio, presi il mio Schizza e strappa, il block notes che usavo appositamente per le bozze, ed abbozzai un mio autoritratto, in piedi. Venni fuori come un individuo un po’ rotondetto, con l’espressione seria (qualcuno avrebbe detto imbronciata), ma molto dolce. Guardai il disegno e guardai me stesso. Approvai il lavoro e mi rimisi a disegnare.

 

Dandy se ne stava lì seduto come lo avevo lasciato. Guardava fuori dalla finestra, con un’espressione pensierosa che mai gli avevo visto dipinta sul volto. Mi avvicinai lentamente, come timoroso di rompere un incantesimo che erano i suoi pensieri mentre osservava Bologna fuori dalla finestra. Improvvisamente si accorse di non essere più solo, e lentamente voltò lo sguardo.

- Ciao – mi disse, con un lieve sorriso sul volto.

- Ciao. – risposi io, neutro. – Ti piace casa mia? – domandai.

Lui fece spallucce – Sono abituato a posti ben più emozionanti, e tu lo sai. – disse – Ma mi piace abbastanza. –

Sospirando, ritornai a guardarlo. Lui era lì che mi guardava. I suoi occhi mi studiavano, ed il suo sorrisetto era un sorrisetto di rimprovero.

Con la mano destra toccò il divano, invitandomi a sedermi accanto a lui. Ragazzi, se c’era una cosa che mai nessuno aveva fatto in venticinque anni di vita ed in cinque che frequentavo il mondo omosessuale, era di invitarmi a sedere così garbatamente. Mi sedetti, e dopo un iniziale silenzio, fu Dandy a rompere il ghiaccio.

- Che cosa stai cercando di fare? – mi chiese. Io lo guardai come trasognato.

- Cosa vuoi dire? –

- Voglio dire… ma che cosa stai cercando di fare? – domandò, ridacchiando. – Cerchi in tutti i modi di disegnarmi un fidanzatino, non ci riesci e poi vai dalla psicologa a dire che senti le voci? – rise.

Quelle parole mi colpirono come dieci pallottole al cuore. Non mi piacque per niente il tono che il mio Dandy usò contro di me, così schernitore e impudente. Se non mi alzai da quel divano per andare chissà dove, fu soltanto perché sapevo com’era fatto Dandy; lui era così, un insieme di assoluti: impudente, dolce, cinico, romantico, faccia da schiaffi, sensuale, e tante altre cose. Così l’avevo creato io.

- Non rispondi? – rise ancora. – Lo vedi che sei uno stupido, allora? –

- Piantala. Non sei divertente. – risposi io, tagliente. Lui stette zitto per un po’, poi ritornò a schernirmi.

- Se ti dico che sei stupido, vorrà dire che un motivo ci sarà. – rise ancora. Io mi voltai e gli presi il polso, alzando la mano per dargli uno schiaffo. Sorprendentemente, lui mi tirò a sé con l’altra mano e mi appioppò una sberla bella forte sulla guancia destra, tanto che io gemetti più per la sorpresa che per il dolore.

- Ahio… -

- Così impari a provare di colpirmi. – era ritornato serio. Accidenti, non avrei mai creduto che Dandy si sarebbe comportato così con la persona che in linea teorica era suo padre.

- Tu non sei mio padre, ricordatelo. – disse, come leggendo i miei pensieri – Tu sei soltanto un ragazzo che mi ha evocato dalla tua fantasia – mi si avvicinò lentamente sul divano, prendendomi sottobraccio mentre io mi massaggiavo la guancia colpita. Gentilmente lui tirò via la mia mano e al suo posto vi mise la sua bocca. Mi baciò dolcemente la guancia, accoccolandosi a me. Quel gesto ebbe un effetto calmante sul mio sistema nervoso, ma pensai che forse era un trucco per farmi un altro scherzo.

- Nessun trucco – disse lui – E smettila di pensare. Piuttosto parla, dì tutto quello che ti passa per la testa, non farmi parlare da solo. E soprattutto non pensare che soltanto Fiorella possa capire ciò che dici. Anche altre persone possono riuscirci, ma sopra tutti ci riesco io. Quindi avanti. Parla. –

- Perché mi tratti così? –

Ci fu un minuto di silenzio, in cui cercai di non pensare a nulla ma solo di godermi l’attimo con lui. - Non lo so. Forse perché credo che tu mi stia troppo addosso… O forse perché non voglio che tu ti preoccupi per me più del necessario. – rispose lui, accarezzandomi dolcemente i capelli. I suoi capelli biondi odoravano di buono, ed erano morbidi e lucenti. Chiusi gli occhi, annusandoglieli. Docilmente, lui si lasciò andare e mi lasciò fare quello che volevo. Senza aggressività, senza smania di fare qualcosa subito. Con calma, lasciando che il tempo facesse il suo corso.

Nessuno ci avrebbe disturbati, io lo sapevo. Non sapevo quanto tempo avevamo, né se quello era veramente un sogno oppure realtà. Fatto sta che mi piacque moltissimo il contatto con il “mio” Dandy.

- Penso di non volere un fidanzato disegnato da te – sussurrò. – Non sono sicuro di volere nessuno al mio fianco, almeno per il momento. – concluse, dandomi una stilettata al cuore.

- Ma… ma allora… che cosa vuoi? – chiesi io, sul punto di piangere.

Lui sbuffò a questa mia domanda – Uffa, come sei noioso. Devo per forza volere qualcosa, dalla vita? Non posso viverla e basta? Tu che cosa vuoi dalla tua vita? Un fidanzatino che ti stia accanto come fa Fiorella in veste di psicologa oppure qualcuno che completi la tua vita, indipendentemente dal fatto che te lo porti a letto oppure no? –

Ci pensai. Nonostante il tono arrogante e scocciato, la domanda era parecchio profonda, e non penso che quelli che avevo conosciuto nella realtà prima di Dandy se l’erano mai sentita porre o anche domandata.

Che cosa vuoi dalla tua vita?

- Vedi che non lo sai neanche tu? E vorresti provvedere alla mia, di vita? – mormorò Dandy, fra le mie braccia. In questo, mi sembrò simile a tanti ragazzi che dicevano di non volere ragazzi che avessero problemi con la loro identità sessuale. – Lasciami vivere. – concluse lui, continuando però a carezzarmi i capelli.

- Dovrei… abbandonarti, allora? –

- No. – disse, seriamente – Se tu mi abbandoni, io non potrò più vivere, lo capisci? –

Io annuii. La mia espressione neutra tradì un certo sconforto che provavo in quel momento, ovvero quello di non essere utile più di tanto nemmeno ad un personaggio della mia fantasia.

- Donatello. –

- Cosa? –

- Non essere precipitoso… sii calmo. Abbi pazienza. Continua a disegnare, a farmi vivere… -

- Non … non ce la faccio, Dandy. Io non sono felice. Non riesco più a disegnare cose felici… - quella confessione mi esplose dal cuore e deflagrò fino a farmi parlare, ma non fu abbastanza forte da farmi uscire qualche lacrimuccia. Sospirai ampiamente, cercando di controllarmi.

Di contro, lui mi accarezzò i capelli e con le labbra si avvicinò all’angolo della mia bocca. – Che cosa ti rende triste, cucciolone? –

Un altro dei suoi assoluti si fece vivo. Questo era il Dandy romantico.

- Mi rende triste… il mondo dove vivo. Non so quale sia il mio posto in quel mondo, non so che fare. Incontro tanti ragazzi ed è sempre la stessa storia. Francesco invece incontra tanti bei ragazzi e… e la sua storia finisce sempre meglio. Perché succede questo, Dandy, perché? –

Continuò a stringermi, mentre io continuavo ad annusare il profumo dei suoi capelli. Era veramente più alto di me, ma in quella posizione riuscivo benissimo a mettere il naso tra i suoi capelli dorati, beandomi nel loro profumo.

- Tu vorresti essere come Francesco? Passare da un fiore all’altro, senza sentimento, ma solo con una sistematicità degna di un campo di concentramento? – il paragone di un ragazzo viveur che cambia ragazzo ogni sera con la sistematicità con cui si sterminavano i prigionieri di un lager nazista mi provocò un brivido di freddo lungo la schiena.

- Io … vorrei solo un po’ di dolcezza. Perché non posso averla? – mormorai, disperato.

- Perché loro sono tutti degli stupidi… Credono che una persona bella fuori sia bella anche dentro. Invece spesso queste due caratteristiche non coincidono. Soltanto io sono bello fuori… e bello dentro. – mi rispose, ed io pensai che era vero, che Dandy fosse veramente bello dentro, prima che fuori.

- Tu invece… Sei bello dentro… Ma anche un pochino fuori. – Sorrise. – E’ questo che vorresti sentirti dire da un ragazzo, non è vero? –

- Beh, io… - tentennai. Era come se mi leggesse nell’anima, e lo faceva senza inorridirsi dei contenuti grigi che erano dentro di me. Avrei voluto continuare quel colloquio all’infinito, lasciare che Dandy investigasse dentro di me e alla fine decidesse che ero io il ragazzo della sua vita, quindi mi sarebbe piaciuto restare nel mio mondo di carta, dov’ero io a comandare e a decidere tutto, diversamente da quello schifo di mondo reale, dove io non ero nulla se non un ragazzo triste che era bravo a disegnare. – Sì. Forse sì. –

Dandy sorrise, e mi carezzò entrambe le guance con le sue mani. Cavoli, sembrava un ragazzo vero e reale, in quel momento. Invece era soltanto un disegno, ed io ero dentro questo disegno insieme a lui.

- E’ tardi – dichiarò sospirando – Direi di sciogliere qui la nostra seduta… - Si alzò e mi porse la mano – Vieni. –

Io gli porsi la mano e lui me la prese nella sua, facendomi alzare e conducendomi verso la porta che dava sul corridoio. Quando la aprì, vidi me stesso che dormivo appoggiato al tavolo da disegno con la matita in mano... Un’immagine piuttosto inquietante. Rimasi a bocca aperta, ma Dandy mi riscosse dal mio stato salutandomi velocemente con un “Ciao ci vediamo”, dunque mi spinse via.

- Ahhhhh!!! –

Urlai. Mi resi conto di essere tornato a casa mia, svegliato da una specie di sogno ad occhi aperti. Una scia di saliva era rimasta sul tavolo da disegno. Pochissimo dopo Francesco accorse nella mia stanza.

- Donatello! Che succede? –

Io mi voltai e lo guardai stralunato, strofinandomi gli occhi. Mi veniva voglia di mandarlo a quel paese perché non aveva bussato la porta, ma mi trattenni.

- Eh? Perché? – domandai.

- Ti abbiamo sentito urlare. – disse lui, e contemporaneamente sulla mia porta comparve un ragazzino moro con i capelli sparati all’insù, vestito con un bel gilet ed una camicia bianca. – Va tutto bene? –

- Io… sì… Tutto bene. Devo essermi appisolato mentre disegnavo ed ho avuto un incubo. Tutto qui. – risposi con nonchalance. Il ragazzino mi guardò con una punta di orrore nell’espressione, espressione a cui ero abituato da troppo tempo e che da troppo tempo mi teneva lontano dai locali. Francesco scosse la testa, cercando di ricomporsi, quindi voltò le spalle ed andò verso la porta, dove il ragazzino lo stava aspettando. Non si disturbò nemmeno a presentarmelo, quella volta. Chissà cosa frullava in testa al mio amico, da un po’ di tempo a quella parte.

- Io vado in camera – disse, evitando volutamente di usare il pronome “noi”, credendo che non mi fossi accorto che si era portato della compagnia a casa un’altra volta – Se hai bisogno di qualcosa, chiama. Ok? –

- Ricevuto. Ciao. – dissi, congedandolo immediatamente. Lui chiuse la porta e poco dopo sentii la porta della stanza di fronte che si chiudeva. In quel momento, capii che c’era qualcosa che non quadrava.

- Lo specchio! – esclamai con orrore. Mi guardai intorno cercandolo nella mia stanza, ma era come volatilizzato. – Dove cazzo è andato a fin…? – mi alzai di scatto dalla sedia, e così facendo urtai con il ginocchio contro il tavolo da disegno. Caddero alcuni fogli, per la precisione quelli che stavo iniziando a disegnare prima di cadere addormentato. Li presi in mano e li guardai.

C’era disegnata tutta la nostra conversazione, vignetta per vignetta, parola per parola, inquadratura per inquadratura. Tutte le vignette erano una scena statica, ovvero me e Dandy che sedevamo avvinghiati sul divano a parlare. Visti da quella prospettiva, sembravamo due fidanzatini. Nell’ultima vignetta, c’era Dandy che mi spingeva in una porta dalla quale fuoriusciva una luce, e dopo averlo fatto, spostava lo specchio che avevo preso nella stanza da letto di Francesco. Un brivido mi corse lungo la schiena. Posai i miei disegni e mi avviai verso l’uscita, incerto sul da farsi.

   
 
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