Di tutto quel che segna il passaggio all’età adulta, non
avrei mai detto che un dettaglio apparentemente insignificante fosse pure quello
più importante di tutti. Ma da bambino – o ragazzino, perché quello eravamo
allora – è facile scambiare pagliuzze per montagne e poi schiantarsi contro un
palo.
Non ho mai capito, comunque, cosa trovasse tanto da
commuoversi il Maestro Gai nella fiamma della nostra giovinezza.
Il fuoco brucia e ci travolse tutti. Forse sarebbe stato meglio ardere con più discrezione o non
farlo affatto, perché le nostre ceneri roventi seguitarono a crepitare anche
quando il nostro cuore sembrava morto.
Il simbolo della nostra trasformazione – quella di Naruto e
mia, ma anche quella di Temari. O di Neji. O di Gaara – fu un improvviso,
insignificante mutamento di prospettiva. La scelta di un nuovo soggetto cui
tendere con tutte le nostre forze, se vogliamo.
La Sakura che avevo lasciato alle spalle e a volte
occhieggiava ancora tra le pieghe dei miei ricordi, era una bambina abituata a
pensare al singolare. Persino quando portavo lo sguardo su Sasuke non potevo
fare a meno di dirmi quanto sarebbe stato bello per me essere la sua compagna.
Per me.
Uchiha era una meta o un trofeo: strapparlo a Ino, che pure
non l’aveva mai posseduto, come simbolo della mia clamorosa rivincita. Ero
sbocciata e Sasuke era una specie di sole chiamato a benedire la mia bellezza.
Suona bene, no? Suona poetico, ma è sbagliato.
Me ne accorsi il giorno in cui mi disse ‘grazie’ e se ne andò
lo stesso. Me ne accorsi quando mi respinse con forza in ospedale, dando un nome
a quel che stavo facendo. Non ero una geisha e non ero neppure una fidanzata
premurosa: ero una che provava pietà. Ero una che, nell’esercitare le sue
attenzioni, gli ricordava i suoi fallimenti peggiori.
Dove c’è una ferita suppurante non puoi passare la mano senza
che il malato sussulti come colpito da una scossa: qualunque ninja della squadra
medica lo sa. Quel ch’è meno evidente e intuibile, però, è che lo stesso accade
alle piaghe dell’orgoglio quando posi su di esse la pietà ipocrita del
vincitore.
Senza volerlo, eravamo stati Naruto e io a infliggergli il
danno maggiore. O forse eravamo solo arrivati tardi, in una storia tutta
sbagliata. È vero anche questo, in fin dei conti.
Resta il fatto che Naruto c’è arrivato prima di me ed è stato
proprio lui ad aprirmi gli occhi.
Accadde poco prima dell’ultima missione – quella che doveva
tradursi nell’eliminazione di Itachi, ma che si trasformò nel coro muto di una
tragedia della memoria.
Uzumaki aveva già perso l’uso della mano destra, ma non per
questo si era arreso. Il suo motto, dal giorno in cui era rientrato dalla porta
del villaggio, era divenuto: ‘Sono tornato, Sasuke, per riportarti indietro’ e
non aveva mai mostrato l’intenzione di mutare avviso.
Fu lui a rivelarmi la ragione per cui Uchiha era divenuto nel
tempo tanto importante ai suoi occhi da essere il fratello che non aveva mai
avuto. Mi raccontò del bambino che tornava in una casa deserta, perché non aveva
mai avuto genitori, e di quello che fissava il vuoto, perché aveva perso tutto.
Erano il peggiore e il migliore allievo dell’Accademia: non potevano essere più
diversi, eppure uguali.
Naruto trovò sollievo nella solitudine di Sasuke. Mi disse
che l’aveva aiutato a sentirsi migliore. In un certo senso ‘superiore’.
“Perché io, Sakura, non avevo mai avuto nessuno. Era dura, ma
c’ero abituato. Sasuke, invece, anche se per poco, aveva avuto una famiglia.
Stava peggio di me. Faceva più pena di me.”
Naruto è onesto con se stesso e con gli altri. Già allora
aveva qualità morali che non t’insegna la scuola, ma che nascono con te e
definiscono gli eroi. Eppure anche Naruto, come me, faticava a distinguere l’ego
dal gruppo. In un certo senso ci vollero davvero tre anni per capire appieno la
lezione che il maestro Kakashi voleva darci: quella di un ninja è una vita che
usa sempre il plurale. Una vita corale, in cui si agisce, si muore, si combatte
nel nome di tutti.
Crescemmo davvero, insomma, solo quando ci aprimmo del tutto
agli altri, e ci accorgemmo che non eravamo soli.
Mai.
Il senso di quella battaglia si vide nell’operazione di
salvataggio di Gaara, ad esempio. Forse fu proprio un giovanissimo Kazekage ad
aprirci gli occhi su quello ch’eravamo diventati: non più ragazzini vogliosi di
affermazione, ma uomini e donne che inseguivano sogni e idee per il miraggio di
una felicità comune.
Gaara, che non conosceva la forza e il calore dell’affetto
umano, fu tra noi forse il primo che rinunciò al proprio ego più respingente e
assassino. Lo fece perché colse nelle azioni di Naruto il segno di una forza che
si alimentava delle emozioni, delle frustrazioni e delle utopie di un coro di
voci che non aveva mai ascoltato.
Naruto, che pure era il vaso di un demone, come gli era
toccato in sorte, gli insegnava che l’amore non è mai pretesa, né certezza. Che
l’amore va seminato, corteggiato, insultato e sofferto: solo allora, forse,
potrai coglierne i frutti.
Gaara lo comprese prima di me.
Ero sempre stata una bambina troppo fortunata per avvicinarmi
al mistero e all’incubo della solitudine. Perché questa riflessione è
importante? Perché è quella che traccia il confine discrimine tra noi ch’eravamo
rimasti e Sasuke.
Uchiha, che pure era cresciuto sino ad assumere quell’aria
distaccata e gelida che hanno certe perfette bellezze maschili, era il solo tra
noi a essere rimasto un bambino. Mi procura una strana impressione pensare a
come sia mutato il mio pensiero: un completo stravolgimento d’ogni convinzione
pregressa, se vogliamo.
Ai tempi dell’Accademia, Sasuke era un profilo sfuggente
dalla purezza disarmante. Accanto a Ino, a bassa voce, facevamo scivolare contro
il banco foglietti di fantasie melense e minacce velate, perché non c’era volta
che l’intenzione migliore non diventasse una sfida furiosa per guadagnarci
l’attenzione o l’affetto di Uchiha.
Ci sentivamo donne a sette anni e lui, ch’era un ragnetto
piccolo e carino, con quei suoi capelli arruffati e l’aria sempre assorta, ci
sembrava già un uomo.
Sasuke non parlava, non rideva, non si distraeva. Naruto,
Shikamaru, Kiba erano sguaiati, rumorosi, fastidiosi, divertenti. Facevano
gruppo, giocavano ai ninja e sognavano il giorno in cui avrebbero avuto una
missione di livello S.
Sasuke, solo davanti a un bersaglio – a volte le labbra
ferite dal suo stesso fuoco – invece, sembrava già un guerriero consumato. Non
era la pallida imitazione dei nostri maestri: era qualcuno che anche gli
istruttori fissavano con sgomento.
Ino e io non potevamo fare a meno di stabilire stupidi
confronti e dirci che sì, Sasuke era l’unico uomo vero in mezzo a quella
marmaglia di lattanti.
Forse Neji si salvava appena – ma anche Neji, di quando in
quando, sorrideva.
Ora che ci penso, invece, in cinque anni non vidi mai Uchiha
stirare le labbra neppure per scherzo. Né alzare la voce. Né fare a botte. Né
abbandonarsi a fanfaronate che chiunque avrebbe scusato e imputato all’età.
Era così perfetto da non sembrare vero: infatti era la
maschera di cera di un’infelicità assassina.
Ma a sette anni non lo sai; a dodici neppure, altrimenti mi
sarei accorta prima che Sasuke non era un uomo, ma quel bambino di sette anni
che Itachi aveva terrorizzato sino al punto da farlo – lentamente, ma con
costanza – impazzire senza rimedio.
Mentre i cialtroni dell’Accademia diventavano uomini – ed era
così carino, all’improvviso, il Naruto che guardava dall’alto la sua Konoha, con
il cielo negli occhi e il vento nei capelli –Sasuke restava sempre lo stesso.
Restava solo. Cresceva nell’oscurità della tana di un Serpente, si nutriva del
suo veleno e si indeboliva sempre di più.
Il gelo profondo di una totale atonia morale, ch’era pure il
fondamento della sua forza – e la sua debolezza peggiore – non era che il
precipitato di vecchi incubi, che non era stato abbastanza uomo da sconfiggere e
superare.
Non si era dimostrato all’altezza di Naruto e di Gaara.
Non aveva spezzato il suo silenzio. Non si era fidato, perché
aveva troppa paura per scommettere sull’amore. Non era come me: io, per amore,
avrei tradito Konoha.
Sasuke raccolse attorno a sé un mostruoso esercito. Sento un
gelo sinistro scivolarmi lungo la schiena al solo pensiero, perché le belve che
volle come alleati non dovevano proteggerlo da suo fratello Itachi, ma da noi.
Come mi disse Naruto, mentre liberavo tutto il mio chakra
salvifico, pur sapendo che non sarei mai riuscita a salvargli la mano – Naruto
ch’era una maschera di sangue, polvere e fatica, ma che pure non aveva la minima
intenzione di abbassare lo sguardo – Sasuke era davvero diventato un vigliacco –
uno spaventoso, spregevole vigliacco e un pagliaccio, perché dietro la sua aria
da figo c’era un bambino frignone che aveva paura di farsi vedere per quello che
era.
Gaara, con i suoi occhi glauchi spalancati su un deserto che
aveva dominato e sconfitto, perché poco a poco il niente della sua anima era
diventato un giardino fiorito, sorrise un poco, quasi con imbarazzo. Era un
sorriso triste, ma timido e gentile: un sorriso che non aveva nulla del ghigno
deviato con cui aveva tentato di ammazzarmi.
“Forse ha la testa più dura della mia,” gli disse, ma ci fece
capire che non ci avrebbe abbandonato.
Quel giorno, nella Valle della Fine, davanti a due colossi di
pietra che avevano già visto la sconfitta di Uzumaki e di un valore chiamato
‘amicizia’, per ironia della sorte, arrivammo compatti a gridare il contrario,
perché c’eravamo tutti.
Proprio tutti.
C’erano Gai e il maestro Kakashi, che si sostenevano a
vicenda e scommettevano sino all’ultimo su chi avrebbe compiuto l’azione
risolutiva.
C’erano la Maestra Tsunade e il Sannin Jiraiya, uniti, una
volta tanto, davanti a un tavolo da gioco ch’era intriso di sangue.
C’era Rock-Lee, che mi aveva salvato la vita per l’ennesima
volta da un demonio chiamato Seigutsu, che ai miei occhi non era altro che un
fantasma dalla spada affilata, defilato nella nebbia densa di una missione
indimenticabile.
C’erano Neiji e Hinata, non più rivali, ma compagni di guerra
– occhi preziosi dove cinque sensi non bastavano più a sopravvivere.
C’era Temari, che tratteneva sotto le ciglia le lacrime e
accompagnava la marcia sempre più faticosa di Shikamaru – che aveva ormai solo
un polmone su cui fare affidamento, ma non rinunciava a fumare perché il figlio
di Asuma conoscesse l’odore di un padre morto troppo presto.
C’erano Ino e Choji, che covavano un sentimento troppo
luminoso e troppo caldo per un giorno votato alle lacrime.
C’era Gaara, con la sua sabbia fedele; Gaara che non era più
un jinchuuriki, ma che della sua maledizione aveva fatto una bandiera e una
scelta di campo. Gaara che aveva lottato al mio fianco affinché Naruto non fosse
privato di quel che l’aveva reso speciale non perché più forte, ma perché ne
aveva forgiato lo spirito sino a trarne un eroe.
C’era Kankuro, che un tempo mi aveva terrorizzata con le sue
marionette, ma che ora era solo uno dei tanti volti del passato, metabolizzati,
recuperati, trasformati in un sostegno e in una speranza.
C’era Sai, che doveva uccidere Sasuke, ma che alla fine aveva
scelto di salvarlo insieme a noi.
Perché?
“Perché devo ancora capire in cosa sarebbe più figo di me.”
Era cambiato tanto anche lui; tanto da diventare uno dei
nostri, benché non sapesse come comportarsi e sorridesse sempre a sproposito.
C’ero io e c’era Naruto. Eravamo tanti, ma ci sentivamo soli,
perché il Gruppo Sette parlava di noi tre, ma avevamo dovuto attendere quel
giorno per capire come della nostra amicizia – del nostro legame – non restasse
più niente, se non il fatto che avremmo visto morire Sasuke.
Non so come quella certezza si fosse radicata in noi
gradualmente, passo dopo passo.
La strada alle nostre spalle era tutta un succedersi di polle
di sangue rappreso, sinistro memento di quel che avevamo vissuto per arrivare
sin là, dove tutto era forse cominciato.
Procedevo piano, sostenendo anche il peso di Naruto. Era
furioso, Uzumaki, e si vedeva. Quel briciolo di forza che gli era rimasto, sono
certa, era pronto a regalarlo a Sasuke: per uccidere Itachi o spaccargli quella
sua bellissima faccia poco importava. Sarebbe stato comunque un segno
inequivocabile del suo affetto.
Aveva paura di non arrivare in tempo, di mancare anche
quell’appuntamento con il destino.
“Due volte ci ho provato, Sakura…” mi ripeteva. “E ho sempre
fallito.”
Fu la prima occasione in cui vinsi la mia ritrosia e
tirai fuori la voce per scandire la verità, e la verità era che non aveva
fallito solo; che non era stata sua la mancanza, perché almeno ci aveva provato.
C’era anche chi non aveva fatto niente: era anche il segno
che non lo amassi abbastanza.
Nell’aria il sentore della fine era più intenso che mai. Ti
scivolava addosso e lo respiravi con il soffio caldo dell’estate. Dalle occhiate
che ci lanciavamo, Naruto e io, dividevamo quella stessa impressione. Era quasi
la voce di Sasuke ci accompagnasse, ma non era la stessa che ci aveva
schiaffeggiati con l’indifferente freddezza dell’ultimo incontro: era l’Uchiha
dei giorni felici. Il compagno timido, ma anche premuroso. Quello che,
all’occorrenza, sapeva vivere e morire per te. Ci diceva di procedere con calma,
così quando saremmo arrivati sarebbe tutto finito.
Il vento suonava proprio così, quel giorno. Tutto finito. Tutto finito.
Quando arrivammo alla Valle della Fine, Itachi e Sasuke si
fronteggiavamo sulla cima dei colossi contrapposti. L’acqua della cascata non
produceva un fragore tanto assordante da coprire la tempesta del mio cuore. Tump. Tump. Tump.
Naruto, immobile, fissava lo sguardo là dove anch’io cercavo
un futuro e le mie conferme; là dove c’era quella macchia d’ebano e d’avorio che
avrei voluto stringere tra le mie braccia.
“Avanti… Ancora avanti.”
La voce di Naruto era un ringhio esausto, ma mi teneva
ancorata a terra. La sua voglia di comprendere era più forte della sua
debolezza. Gaara gli allacciò la vita e lo sorresse
con me, mentre il ritmo della marcia si faceva incalzante e il silenzio sempre
più cupo.
Nell’ultimo mese non c’era stato un solo giorno in cui non
avessimo combattuto, non avessimo inferto o ricevuto ferite, non avessimo pianto
o non ci fossimo guardati indietro per capire chi eravamo davvero, in cui non
avessimo pensato che le parole erano come il vomito: nessuno poteva rimangiarle.
Nessuno poteva inghiottirle e imprimere un nuovo corso alla storia.
Naruto non riusciva a staccare gli occhi da Sasuke. Il
sangue, misto alla saliva, schiumava ai lati delle sue labbra, facendolo
somigliare ancora a quella bestia infernale cui pure dovevamo la vita. Era pieno
di emozioni trattenute, che nulla poteva davvero tradurre, perché – l’ho già
detto – esiste un linguaggio segreto che gli ideogrammi non riflettono mai.
Io, invece, fissavo Itachi e cercavo in quel
ragazzo-uomo-assassino un segno che me lo rendesse odioso, colpevole e
respingente come doveva essere chi aveva fatto tanto male al mio Sasuke, ma non
trovai nulla.
I suoi occhi di sangue, come quelli del fratello, erano pozzi
cupi di solitudine e di tristezza.
In quel momento realizzai con sgomento che tutto sarebbe
davvero finito quel giorno, perché anche se fossimo stati in mille a guardarli
scannarsi, a dividerli o a vincerli, loro sarebbero stati sempre soli: stretti
nella morsa di una maledizione che non avevano scelto, ma che pure aveva
scandito le loro ore sino a quel giorno.
Sino alla Valle della Fine in cui, in fondo, tutto era nato.
Persino il mio orgoglio di donna.