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Autore: Callie_Stephanides    02/10/2011    2 recensioni
È un vento epico, quello che sfiora Sasuke e Itachi, nell’ora più buia della storia di un clan maledetto e potentissimo.
È un vento che sa di guerra e di vendetta, come di un amore indicibile che corre nel sangue e nel sangue muore.
Sakura racconta le ultime ore di Konoha e la privatissima, desolata guerra di un ragazzo che non l’ha mai vista davvero, perché dietro ai suoi occhi, no: lei non c’è mai stata.
[ATTENZIONE: what if post cap. 351 del manga]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Itachi, Un po' tutti | Coppie: Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Di tutto quel che segna il passaggio all’età adulta, non avrei mai detto che un dettaglio apparentemente insignificante fosse pure quello più importante di tutti. Ma da bambino – o ragazzino, perché quello eravamo allora – è facile scambiare pagliuzze per montagne e poi schiantarsi contro un palo.
Non ho mai capito, comunque, cosa trovasse tanto da commuoversi il Maestro Gai nella fiamma della nostra giovinezza.
Il fuoco brucia e ci travolse tutti. Forse sarebbe stato meglio ardere con più discrezione o non farlo affatto, perché le nostre ceneri roventi seguitarono a crepitare anche quando il nostro cuore sembrava morto.
Il simbolo della nostra trasformazione – quella di Naruto e mia, ma anche quella di Temari. O di Neji. O di Gaara – fu un improvviso, insignificante mutamento di prospettiva. La scelta di un nuovo soggetto cui tendere con tutte le nostre forze, se vogliamo.
La Sakura che avevo lasciato alle spalle e a volte occhieggiava ancora tra le pieghe dei miei ricordi, era una bambina abituata a pensare al singolare. Persino quando portavo lo sguardo su Sasuke non potevo fare a meno di dirmi quanto sarebbe stato bello per me essere la sua compagna.
Per me.
Uchiha era una meta o un trofeo: strapparlo a Ino, che pure non l’aveva mai posseduto, come simbolo della mia clamorosa rivincita. Ero sbocciata e Sasuke era una specie di sole chiamato a benedire la mia bellezza.
Suona bene, no? Suona poetico, ma è sbagliato.
Me ne accorsi il giorno in cui mi disse ‘grazie’ e se ne andò lo stesso. Me ne accorsi quando mi respinse con forza in ospedale, dando un nome a quel che stavo facendo. Non ero una geisha e non ero neppure una fidanzata premurosa: ero una che provava pietà. Ero una che, nell’esercitare le sue attenzioni, gli ricordava i suoi fallimenti peggiori.
Dove c’è una ferita suppurante non puoi passare la mano senza che il malato sussulti come colpito da una scossa: qualunque ninja della squadra medica lo sa. Quel ch’è meno evidente e intuibile, però, è che lo stesso accade alle piaghe dell’orgoglio quando posi su di esse la pietà ipocrita del vincitore.
Senza volerlo, eravamo stati Naruto e io a infliggergli il danno maggiore. O forse eravamo solo arrivati tardi, in una storia tutta sbagliata. È vero anche questo, in fin dei conti.
Resta il fatto che Naruto c’è arrivato prima di me ed è stato proprio lui ad aprirmi gli occhi.
Accadde poco prima dell’ultima missione – quella che doveva tradursi nell’eliminazione di Itachi, ma che si trasformò nel coro muto di una tragedia della memoria.
Uzumaki aveva già perso l’uso della mano destra, ma non per questo si era arreso. Il suo motto, dal giorno in cui era rientrato dalla porta del villaggio, era divenuto: ‘Sono tornato, Sasuke, per riportarti indietro’ e non aveva mai mostrato l’intenzione di mutare avviso.
Fu lui a rivelarmi la ragione per cui Uchiha era divenuto nel tempo tanto importante ai suoi occhi da essere il fratello che non aveva mai avuto. Mi raccontò del bambino che tornava in una casa deserta, perché non aveva mai avuto genitori, e di quello che fissava il vuoto, perché aveva perso tutto. Erano il peggiore e il migliore allievo dell’Accademia: non potevano essere più diversi, eppure uguali.
Naruto trovò sollievo nella solitudine di Sasuke. Mi disse che l’aveva aiutato a sentirsi migliore. In un certo senso ‘superiore’.
“Perché io, Sakura, non avevo mai avuto nessuno. Era dura, ma c’ero abituato. Sasuke, invece, anche se per poco, aveva avuto una famiglia. Stava peggio di me. Faceva più pena di me.”
Naruto è onesto con se stesso e con gli altri. Già allora aveva qualità morali che non t’insegna la scuola, ma che nascono con te e definiscono gli eroi. Eppure anche Naruto, come me, faticava a distinguere l’ego dal gruppo. In un certo senso ci vollero davvero tre anni per capire appieno la lezione che il maestro Kakashi voleva darci: quella di un ninja è una vita che usa sempre il plurale. Una vita corale, in cui si agisce, si muore, si combatte nel nome di tutti.

Crescemmo davvero, insomma, solo quando ci aprimmo del tutto agli altri, e ci accorgemmo che non eravamo soli. Mai.
Il senso di quella battaglia si vide nell’operazione di salvataggio di Gaara, ad esempio. Forse fu proprio un giovanissimo Kazekage ad aprirci gli occhi su quello ch’eravamo diventati: non più ragazzini vogliosi di affermazione, ma uomini e donne che inseguivano sogni e idee per il miraggio di una felicità comune.
Gaara, che non conosceva la forza e il calore dell’affetto umano, fu tra noi forse il primo che rinunciò al proprio ego più respingente e assassino. Lo fece perché colse nelle azioni di Naruto il segno di una forza che si alimentava delle emozioni, delle frustrazioni e delle utopie di un coro di voci che non aveva mai ascoltato.
Naruto, che pure era il vaso di un demone, come gli era toccato in sorte, gli insegnava che l’amore non è mai pretesa, né certezza. Che l’amore va seminato, corteggiato, insultato e sofferto: solo allora, forse, potrai coglierne i frutti.
Gaara lo comprese prima di me.
Ero sempre stata una bambina troppo fortunata per avvicinarmi al mistero e all’incubo della solitudine. Perché questa riflessione è importante? Perché è quella che traccia il confine discrimine tra noi ch’eravamo rimasti e Sasuke.
Uchiha, che pure era cresciuto sino ad assumere quell’aria distaccata e gelida che hanno certe perfette bellezze maschili, era il solo tra noi a essere rimasto un bambino. Mi procura una strana impressione pensare a come sia mutato il mio pensiero: un completo stravolgimento d’ogni convinzione pregressa, se vogliamo.
Ai tempi dell’Accademia, Sasuke era un profilo sfuggente dalla purezza disarmante. Accanto a Ino, a bassa voce, facevamo scivolare contro il banco foglietti di fantasie melense e minacce velate, perché non c’era volta che l’intenzione migliore non diventasse una sfida furiosa per guadagnarci l’attenzione o l’affetto di Uchiha.
Ci sentivamo donne a sette anni e lui, ch’era un ragnetto piccolo e carino, con quei suoi capelli arruffati e l’aria sempre assorta, ci sembrava già un uomo.
Sasuke non parlava, non rideva, non si distraeva. Naruto, Shikamaru, Kiba erano sguaiati, rumorosi, fastidiosi, divertenti. Facevano gruppo, giocavano ai ninja e sognavano il giorno in cui avrebbero avuto una missione di livello S.
Sasuke, solo davanti a un bersaglio – a volte le labbra ferite dal suo stesso fuoco – invece, sembrava già un guerriero consumato. Non era la pallida imitazione dei nostri maestri: era qualcuno che anche gli istruttori fissavano con sgomento.
Ino e io non potevamo fare a meno di stabilire stupidi confronti e dirci che sì, Sasuke era l’unico uomo vero in mezzo a quella marmaglia di lattanti.
Forse Neji si salvava appena – ma anche Neji, di quando in quando, sorrideva.
Ora che ci penso, invece, in cinque anni non vidi mai Uchiha stirare le labbra neppure per scherzo. Né alzare la voce. Né fare a botte. Né abbandonarsi a fanfaronate che chiunque avrebbe scusato e imputato all’età.
Era così perfetto da non sembrare vero: infatti era la maschera di cera di un’infelicità assassina.
Ma a sette anni non lo sai; a dodici neppure, altrimenti mi sarei accorta prima che Sasuke non era un uomo, ma quel bambino di sette anni che Itachi aveva terrorizzato sino al punto da farlo – lentamente, ma con costanza – impazzire senza rimedio.
Mentre i cialtroni dell’Accademia diventavano uomini – ed era così carino, all’improvviso, il Naruto che guardava dall’alto la sua Konoha, con il cielo negli occhi e il vento nei capelli –Sasuke restava sempre lo stesso. Restava solo. Cresceva nell’oscurità della tana di un Serpente, si nutriva del suo veleno e si indeboliva sempre di più.
Il gelo profondo di una totale atonia morale, ch’era pure il fondamento della sua forza – e la sua debolezza peggiore – non era che il precipitato di vecchi incubi, che non era stato abbastanza uomo da sconfiggere e superare.
Non si era dimostrato all’altezza di Naruto e di Gaara.
Non aveva spezzato il suo silenzio. Non si era fidato, perché aveva troppa paura per scommettere sull’amore. Non era come me: io, per amore, avrei tradito Konoha.
Sasuke raccolse attorno a sé un mostruoso esercito. Sento un gelo sinistro scivolarmi lungo la schiena al solo pensiero, perché le belve che volle come alleati non dovevano proteggerlo da suo fratello Itachi, ma da noi.
Come mi disse Naruto, mentre liberavo tutto il mio chakra salvifico, pur sapendo che non sarei mai riuscita a salvargli la mano – Naruto ch’era una maschera di sangue, polvere e fatica, ma che pure non aveva la minima intenzione di abbassare lo sguardo – Sasuke era davvero diventato un vigliacco – uno spaventoso, spregevole vigliacco e un pagliaccio, perché dietro la sua aria da figo c’era un bambino frignone che aveva paura di farsi vedere per quello che era.
Gaara, con i suoi occhi glauchi spalancati su un deserto che aveva dominato e sconfitto, perché poco a poco il niente della sua anima era diventato un giardino fiorito, sorrise un poco, quasi con imbarazzo. Era un sorriso triste, ma timido e gentile: un sorriso che non aveva nulla del ghigno deviato con cui aveva tentato di ammazzarmi.
“Forse ha la testa più dura della mia,” gli disse, ma ci fece capire che non ci avrebbe abbandonato.
Quel giorno, nella Valle della Fine, davanti a due colossi di pietra che avevano già visto la sconfitta di Uzumaki e di un valore chiamato ‘amicizia’, per ironia della sorte, arrivammo compatti a gridare il contrario, perché c’eravamo tutti.
Proprio tutti.
C’erano Gai e il maestro Kakashi, che si sostenevano a vicenda e scommettevano sino all’ultimo su chi avrebbe compiuto l’azione risolutiva.
C’erano la Maestra Tsunade e il Sannin Jiraiya, uniti, una volta tanto, davanti a un tavolo da gioco ch’era intriso di sangue.
C’era Rock-Lee, che mi aveva salvato la vita per l’ennesima volta da un demonio chiamato Seigutsu, che ai miei occhi non era altro che un fantasma dalla spada affilata, defilato nella nebbia densa di una missione indimenticabile.
C’erano Neiji e Hinata, non più rivali, ma compagni di guerra – occhi preziosi dove cinque sensi non bastavano più a sopravvivere.
C’era Temari, che tratteneva sotto le ciglia le lacrime e accompagnava la marcia sempre più faticosa di Shikamaru – che aveva ormai solo un polmone su cui fare affidamento, ma non rinunciava a fumare perché il figlio di Asuma conoscesse l’odore di un padre morto troppo presto.
C’erano Ino e Choji, che covavano un sentimento troppo luminoso e troppo caldo per un giorno votato alle lacrime.
C’era Gaara, con la sua sabbia fedele; Gaara che non era più un jinchuuriki, ma che della sua maledizione aveva fatto una bandiera e una scelta di campo. Gaara che aveva lottato al mio fianco affinché Naruto non fosse privato di quel che l’aveva reso speciale non perché più forte, ma perché ne aveva forgiato lo spirito sino a trarne un eroe.
C’era Kankuro, che un tempo mi aveva terrorizzata con le sue marionette, ma che ora era solo uno dei tanti volti del passato, metabolizzati, recuperati, trasformati in un sostegno e in una speranza.
C’era Sai, che doveva uccidere Sasuke, ma che alla fine aveva scelto di salvarlo insieme a noi.
Perché?
“Perché devo ancora capire in cosa sarebbe più figo di me.”
Era cambiato tanto anche lui; tanto da diventare uno dei nostri, benché non sapesse come comportarsi e sorridesse sempre a sproposito.
C’ero io e c’era Naruto. Eravamo tanti, ma ci sentivamo soli, perché il Gruppo Sette parlava di noi tre, ma avevamo dovuto attendere quel giorno per capire come della nostra amicizia – del nostro legame – non restasse più niente, se non il fatto che avremmo visto morire Sasuke.
Non so come quella certezza si fosse radicata in noi gradualmente, passo dopo passo.
La strada alle nostre spalle era tutta un succedersi di polle di sangue rappreso, sinistro memento di quel che avevamo vissuto per arrivare sin là, dove tutto era forse cominciato.
Procedevo piano, sostenendo anche il peso di Naruto. Era furioso, Uzumaki, e si vedeva. Quel briciolo di forza che gli era rimasto, sono certa, era pronto a regalarlo a Sasuke: per uccidere Itachi o spaccargli quella sua bellissima faccia poco importava. Sarebbe stato comunque un segno inequivocabile del suo affetto.
Aveva paura di non arrivare in tempo, di mancare anche quell’appuntamento con il destino.
“Due volte ci ho provato, Sakura…” mi ripeteva. “E ho sempre fallito.”
Fu la prima occasione in cui vinsi la mia ritrosia e tirai fuori la voce per scandire la verità, e la verità era che non aveva fallito solo; che non era stata sua la mancanza, perché almeno ci aveva provato.

C’era anche chi non aveva fatto niente: era anche il segno che non lo amassi abbastanza.
Nell’aria il sentore della fine era più intenso che mai. Ti scivolava addosso e lo respiravi con il soffio caldo dell’estate. Dalle occhiate che ci lanciavamo, Naruto e io, dividevamo quella stessa impressione. Era quasi la voce di Sasuke ci accompagnasse, ma non era la stessa che ci aveva schiaffeggiati con l’indifferente freddezza dell’ultimo incontro: era l’Uchiha dei giorni felici. Il compagno timido, ma anche premuroso. Quello che, all’occorrenza, sapeva vivere e morire per te. Ci diceva di procedere con calma, così quando saremmo arrivati sarebbe tutto finito.
Il vento suonava proprio così, quel giorno. Tutto finito. Tutto finito.
Quando arrivammo alla Valle della Fine, Itachi e Sasuke si fronteggiavamo sulla cima dei colossi contrapposti. L’acqua della cascata non produceva un fragore tanto assordante da coprire la tempesta del mio cuore. Tump. Tump. Tump.
Naruto, immobile, fissava lo sguardo là dove anch’io cercavo un futuro e le mie conferme; là dove c’era quella macchia d’ebano e d’avorio che avrei voluto stringere tra le mie braccia.
“Avanti… Ancora avanti.”
La voce di Naruto era un ringhio esausto, ma mi teneva ancorata a terra. La sua voglia di comprendere era più forte della sua debolezza. Gaara gli allacciò la vita e lo sorresse con me, mentre il ritmo della marcia si faceva incalzante e il silenzio sempre più cupo.
Nell’ultimo mese non c’era stato un solo giorno in cui non avessimo combattuto, non avessimo inferto o ricevuto ferite, non avessimo pianto o non ci fossimo guardati indietro per capire chi eravamo davvero, in cui non avessimo pensato che le parole erano come il vomito: nessuno poteva rimangiarle. Nessuno poteva inghiottirle e imprimere un nuovo corso alla storia.
Naruto non riusciva a staccare gli occhi da Sasuke. Il sangue, misto alla saliva, schiumava ai lati delle sue labbra, facendolo somigliare ancora a quella bestia infernale cui pure dovevamo la vita. Era pieno di emozioni trattenute, che nulla poteva davvero tradurre, perché – l’ho già detto – esiste un linguaggio segreto che gli ideogrammi non riflettono mai.

Io, invece, fissavo Itachi e cercavo in quel ragazzo-uomo-assassino un segno che me lo rendesse odioso, colpevole e respingente come doveva essere chi aveva fatto tanto male al mio Sasuke, ma non trovai nulla.
I suoi occhi di sangue, come quelli del fratello, erano pozzi cupi di solitudine e di tristezza.
In quel momento realizzai con sgomento che tutto sarebbe davvero finito quel giorno, perché anche se fossimo stati in mille a guardarli scannarsi, a dividerli o a vincerli, loro sarebbero stati sempre soli: stretti nella morsa di una maledizione che non avevano scelto, ma che pure aveva scandito le loro ore sino a quel giorno.
Sino alla Valle della Fine in cui, in fondo, tutto era nato.
Persino il mio orgoglio di donna.

   
 
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