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Autore: Aleena    05/10/2011    0 recensioni
Dal primo capitolo:
La sirena risuonò, rompendo il silenzio della notte.
Da qualche parte, una frenata brusca, un’imprecazione soffusa, dispersa dalla brezza marina.
Sola, guardavo il soffitto della mia stanza, contando i battiti che, dal cuore, mi rimbombavano nel cervello.
“Una non è nulla. Una non significa niente. Vedrai che smette, vedrai... è l’avviso, una tromba d’aria, un altro terremoto forse. Vedrai che smette, vedrai che smette”
Non ho mai saputo pregare; non c’era un luogo di culto qui in città, quasi nessuno era più devoto. Ormai, la ragione aveva avuto la meglio.
Questa è la nostra punizione, dicevano i Radicali.
Se è così è ingiusto, affermavo io.
“Una non è nulla” mi ripetevo senza convinzione. Pregavo, anche se non lo sapevo.
Genere: Fantasy, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies'
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Parlai ancora con quella mia nuova, strana amica.
Mi disse che la pioggia stava lavando via ogni cosa che l’uomo avesse costruito, lasciando che la natura si riprendesse il mondo. Mi parlò di foreste e boschi e laghi e piante mai viste ed io, nonostante tutto, cominciai a crederle ed a desiderare di vedere questo nuovo mondo.
Stavo attenta a connettermi solo una volta la settimana, per dieci minuti al giorno. Anche così, però, in capo a undici mesi mi trovai a dover fare i conti con la fine della batteria.
Erano successe poche cose di rilevanza in quasi un anno: io e Gabriel eravamo innamorati, ed in cuor mio sapevo che sarebbe durata per sempre. Mia sorella, invece, aveva lasciato il figlio dei Dickens per quello di una famiglia due cubicoli dopo il nostro, per poi stancarsi anche del nuovo amore e spingersi più lontana per cercarlo. In breve, mio padre aveva dovuto costringerla nel cubicolo per evitare che la nomea le si tatuasse indosso.
Mio fratello aveva imparato a contare grazie soprattutto all’aiuto di mia madre e di un paio di due sue nuove amiche, con le quali aveva allestita una sorta di scuola nella sala di ritrovo.
La sera precedente, un forte boato aveva fatto tremare il suolo, creando il panico nella colonia e costringendo i militari ad interrompere il lungo silenzio radio che il risparmio energetico aveva imposto per diffondere messaggi confortanti.
Non aveva mai spesso di piovere.
Quella mattina l’avevo trascorsa al pc, intenta a leggere avida di una nuova specie che s’era accampata a nord-est della colonia, sulle rive di un fiume sorto all’altezza della mia vecchia scuola materna, quando dall’altoparlante venne una musica allegra, seguita dalla voce squillante di quella che sembrava una giovane donna.
D’improvviso, calò il silenzio, ed io mi accorsi che quella strana corrente d’eccitazione che aleggiava dalla sera prima nell’aria stava per concretizzarsi.
«Siamo lieti di comunicarvi il rientro della missione di colonizzazione, ed il suo pieno successo. L’astronave è entrata nell’atmosfera terrestre nella tarda nottata, e capsule monoposto sono scese con messaggi. Ci viene consigliato di prepararci perché, tempo un giorno, saremo tutti a bordo della SkySoldier, diretti a Gea»
Un urlo di gioia salì spontaneo dalle gole di ogni singola persona presente nella colonia. Ancora oggi, trovo quella scena così carica, così umana, che mi risulta difficile credere che lì per lì non compresi di non fare già più parte di quel mondo: intorno a me la gente si abbracciò, ridendo e baciandosi mentre l’aria si saturava di felicità pura e speranza.
Io rimasi in un angolo, il pc sulle ginocchia, a fissare attonita il mondo attorno a me. Gabriel mi abbracciò ed io avvertii la sua nostalgia, il suo disagio.
“Ragazza?” lampeggiò una scritta sul mio schermo “dove sei finita?”
«Parto» fu la mia risposta, e nello scriverlo un groppo doloroso mi si formò alla gola, serrandola.
“Non devi” ripose dopo qualche secondo “non se non vuoi”
«Come fai a sapere che non voglio?»
“Ti conosco. È qui che vuoi stare. Qui con me, con l’ombra di Gaia, con questo mondo che stiamo creando per noi, per te”
«C’è la mia famiglia qui»
“C’è anche qui fuori, se la vorrai” mi disse, ed ebbi la fugace visione di creature lanciate al galoppo. La scacciai, scuotendo la testa. Gabriel mi strinse più a se.
“Porta anche lui. Porta chi vuoi. Lascia andare gli altri. Questo mondo non è per loro”
«Io…» cominciai, ma lo schermo diede un guizzo, abbassando la luminosità improvvisamente. La batteria stava cedendo.
“Ti attendo sulla spiaggia, dove ci siamo conosciute. Resterò lì, finché non arriverai. So che lo farai. È la cosa giusta” mi scrisse.
Poi lo schermo divenne buio.
 
I bagagli erano pronti già da un’ora quando decisi.
Radunati nella sala comune, venivamo smistati in base all’ordine alfabetico quando qualcosa perforò la struttura metallica, ritraendosi subito dopo. Un pezzo di ferro grande quanto un cane , conseguenza della presenza in orbita della navicella. Una parte di supporto, a giudicare dalla forma.
I soldati intimarono di tenersi alla larga dalla chiazza d’acqua piovana che s’allargava sul pavimento; la folla, tuttavia, già si spintonava nel tentativo d’allontanarsi. Sapevano.
Anche io lo sentivo.
“Stalle lontano se vuoi rimanere integra”diceva un istinto di conservazione del tutto umano nelle nostre teste “allontanati se non vuoi che ti cambi per sempre”.
Guardai Gabriel, che annuì.
Fuori, la luce grigiastra del giorno di pioggia illuminava una parte di tetto spiovente ed un terrazzino.
Presi un respiro ed iniziai a correre, seguita in parallelo da Gabriel.
Quando la pioggia toccò il mio viso, seppi che niente sarebbe stato più lo stesso.
Poi fu solo la sensazione di vuoto ed un lancinante dolore alle ossa. 
  
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