Mi sono spesso chiesta se Itachi se ne fosse accorto subito,
oppure se non sia stata una sorpresa per lui come fu per noi. E, laddove
l’avesse compreso al primo sguardo, cosa avesse mai provato: se gratitudine o
sgomento, o rancore o ammirazione.
La verità è che Itachi non ci somigliava. Non era della
stessa pasta di Orochimaru, ma neppure dei ninja di Konoha. Era nato tra noi,
aveva respirato la nostra stessa aria e ammirato quel cielo di un azzurro terso,
custodito tra volti di pietra: eppure, nel profondo, io credo che abbia sempre
sentito la nostalgia del dio demone da cui discendeva – come Madara. Come Sasuke
– e con quella nostalgia abbia pure covato il rancore che l’avrebbe trasformato
in un assassino.
Ai tempi in cui mi allenava, la maestra Tsunade non si
preoccupò solo di farmi lavorare e soffrire al punto da dimenticare persino
Sasuke, ma non smise mai di nutrire l’orgoglio che stavo forgiando. Rispose a
ogni mia domanda. Lo fece, suppongo, perché sapeva quanto male mi avrebbe fatto
il suo oracolo.
Un giorno – eravamo nella foresta limitrofa al villaggio, là
dove tante avventure avevamo vissuto. O speso lacrime. O coltivato speranze –
mentre raccoglievamo erbe medicinali – meglio: io stavo piegata a raccogliere,
mentre la maestra m’interrogava implacabile su ogni ciuffo verde che spuntava
dal suolo – le chiesi come fosse mai possibile che proprio i ninja migliori
finissero per tradire. Era successo a Orochimaru, poi a Itachi e infine era
stata la volta di Sasuke. La maestra rimase in silenzio per un po’, poi m’invitò
ad ascoltare. Anche s’eravamo lontane dalla radura in cui si allenava la squadra
del maestro Gai, le grida entusiaste di Rock-Lee arrivavano fino a noi. C’era
davvero una forza immensa nella determinazione con cui lottava per migliorare e
imparava a piegare ogni ostacolo. Era qualcosa che me lo rendeva caro, come
tanti altri volti della mia storia. “C’è una differenza fondamentale tra chi
nasce pieno di doni e chi ha dalla sua tutta la buona volontà del mondo. Il
primo potrà perdere molto. Il secondo, invece, solo conquistare.” Rimasi a
fissarla a bocca aperta, mentre sedeva su un piccolo masso, sradicava una
splendida digitale e me la mostrava in tutta la sua velenosa perfezione.
“Se pensi a Konoha come a questa pianta, comprenderai la
bontà di quel che ti dico. Quel che ne rende manifesta la presenza – se
vogliamo, tutta la sua bellezza – sta in un’infiorescenza tossica. Nessuno
potrebbe negare che sia splendida, ma a saggiarla si muore. Il che vuol dire che
anche il bello è insidioso, pericoloso, mortale. Il fusto che la sostiene
contiene ancora parte del veleno, ma non è altrettanto invitante. Se guardiamo
le radici, poi, nessuno potrebbe aver voglia di masticarle.”
“Ma le radici, maestra Tsunade, possono essere usate…”
“… Per decotti medicinali. Esattamente. Sono brutte, ma sono
buone, come capita spesso in natura.”
“Ma cosa c’entra Konoha in tutto questo?”
“Sforzati di ragionare, bambina! La vita non è una formula da
applicare, ma da guardare! Le risorse che servono a mantenere Konoha giungono
copiose dai Daimyo e i signori pretendono sempre il meglio. Vogliono sentirsi
sicuri, protetti, difesi solo dai ninja più celebri e valorosi, perciò quel che
da sempre ha reso evidente il nostro villaggio sono le eccellenze. Né più né
meno di come l’infiorescenza purpurea individua la digitale nel folto del
bosco.”
“Quindi, se i migliori sono il fiore, allora le radici…”
“Rock-Lee è una radice. Per certi versi anche tu e Ino siete
radici. Così Naruto, per il quale Kyuubi è stato più un ostacolo che non un
elemento di forza. Voi siete nati senza altra attitudine che non la vostra
applicazione e una straordinaria volontà. Lavorare sodo vi ha reso meno
corruttibili e meno vulnerabili. Come radici, siete quello che sostiene davvero
il villaggio e ne cura i valori. Siete invisibili, ma siete quel che conta
davvero. Purtroppo la natura ha sempre disposto che il veleno corresse là dove
si addensa il desiderio degli uomini.”
Rimasi incantata ad ascoltarla: per la bellezza delle
immagini, la semplicità solo apparente di una costruzione che custodiva invece
in sé l’essenza di tutto quel che eravamo e dovevamo diventare. Mi piaceva
l’idea di essere una radice. Prima di conoscere quelle dell’ANBU, almeno –
sebbene Sai non sia poi tanto male.
A guardare Itachi, quel giorno, non potei fare a meno di
pensare quanto la mia maestra fosse saggia, accorta e implacabile nel tranciare
giudizi: Uchiha non nutriva il minimo sentimento nei nostri confronti. Non
rabbia, non paura, né ammirazione; eravamo pezzi di carne che avrebbero
assistito a un’esecuzione annunciata. Nulla di più.
Su Sasuke, però, so che la maestra Tsunade ha raccontato solo
una verità parziale, perché l’emulazione del fratello fu quel che lo costrinse a
lavorare più di tutti gli altri. Era un Uchiha, lui, dunque non poteva che
essere perfetto.
Credo che quel giorno il mio mentore cercasse in me il segno
della ragazza che era stata, unico elemento femminile tra due Sannin leggendari
e gloriosi. Forse pensava a Orochimaru, al legame che aveva tentato di
costruire, ma che aveva visto poi cadere in mille, minuti brandelli.
Le ho chiesto anche di lui, perché il Quinto Hokage non si
adonta mai delle domande, piuttosto diffida di chi non ne ha mai una da porne.
Le ho chiesto come fosse quel demonio che mi aveva rovinato la vita, mordendo e
corrompendo chi amavo con tutta me stessa. La sua espressione non cambiò mai,
benché la storia fosse di quelle che ti fanno solo male – persino a distanza di
anni, non puoi viverle e arrenderti a quel che sono state.
Forse è stata proprio la vicinanza della maestra Tsunade a
farmi montare interrogativi che non avevo mai nutrito, per superficialità,
inesperienza e forse persino codardia. Per me Orochimaru fu a lungo il
demone-serpente che quasi uccise Sasuke in una prova ferocissima, o la creatura
perversa e tentatrice che me lo nascose per quasi tre anni: che fosse stato un
ragazzo, un ninja come me e come Naruto; che avesse forse amato, oppure sofferto
tanto da impazzire, fu un sospetto che arrivò molto dopo. Forse quando per prima
avevo compreso il significato di parole abusate come sono sempre le emozioni
della retorica.
Eppure Sasuke, maldestramente e senza volerlo, era stato il
primo a indicarmi la via per comprendere: la nostre radici – il fondamento degli
uomini e delle donne che volevamo diventare – erano il passato. Erano la nostra
stessa memoria. È la consapevolezza il fondamento dell’essere, e quella non la
trovi nei ‘se’ e nei ‘forse’, ma in quel che la storia ha metabolizzato fino a
digerire del tutto. E Sasuke era un rinnegato perché quella notte aveva
assistito al massacro dei suoi, non perché volesse davvero abbandonare il
villaggio. Non perché odiasse Konoha, nei cui boschi fitti aveva visto allenare
un dio-fratello-invincibile.
Così Orochimaru: il più perverso dei fantasmi che affollavano
la mia coscienza non poteva essere figlio di un’ispirazione improvvisa, perché
quello che chiamiamo ‘male’, a volte, non è che l’infinita banalità del nostro
egoismo. Ma Tsunade non possedeva una risposta che potesse davvero placare la
mia curiosità: non ce l’aveva perché Orochimaru non l’aveva coinvolta con
l’intensità con cui Sasuke mi era piuttosto entrato dentro, dunque non poteva
porsi le mille domande con cui io avevo flagellato me stessa.
‘Dove ho sbagliato?’ ‘Cosa avrei potuto fare?’ ‘Cosa avrei
dovuto dire?’
Il Quinto Hokage è una donna pratica e di buonsenso e mi ha
detto che nella vita le domande non finiscono mai, ma le risposte che si possono
dare sono limitate. Anche Sasuke aveva una volontà, un cervello e un destino:
prima o poi avrebbe finito con l’appartenere loro.
Orochimaru era considerato un genio fin da bambino, né più né
meno di quel ch’era capitato a Itachi, eppure le strade che hanno percorso sono
state fin dall’inizio molto diverse e mi chiedo se Sasuke non lo avesse capito e
su tali basi avesse scelto il suo maestro.
Lo sfregio più doloroso che poteva imporre a Itachi, in fin
dei conti, era proprio ammazzarlo secondo una legge diversa da quella che aveva
voluto indicargli.
Orochimaru, ad ascoltare la maestra Tsunade, era un ragazzo
molto più umano di Itachi. Anche se il suo sorriso era simulatorio e celava la
spregevole crudeltà di un demone incapace di guardare all’essere umano come a
qualcosa dotato di una sua dignità, applicava strategie che gli uomini conoscono
da sempre. Cercava il rispetto, l’approvazione, il potere. Era persino in grado
di stirare le labbra e regalarti una smorfia carina.
“Sai, Sakura? Il terzo Hokage fu a lungo convinto che
Orochimaru sarebbe stato un magnifico successore. A quei tempi era Jiraiya il
Naruto della situazione, ma Orochimaru riusciva ad averne ragione con estrema
facilità. Pensavo che fossimo diventati amici, tutti e tre. Buoni amici. E
invece…”
Lasciò cadere il discorso non appena vide le lacrime nei miei
occhi. Il fatto che fossi una piagnona nostalgica la infastidiva come
indispettiva Sasuke. Le ragioni, però, erano
diverse, e senza il Quinto Hokage non l’avrei mai capito.
Un giorno mi trovò a contemplare per la milionesima volta –
nell’arco di una stessa giornata, beninteso – quella fotografia che Naruto e io
ci portammo dietro persino nell’ultima battaglia: il segno della famiglia
ch’eravamo diventati e intendevamo ricostruire. Me la strappò di mano e la gettò
in terra con tutta la cornice. Schegge di vetro esplosero ovunque, assieme alla
mia rabbia cieca.
Perché l’aveva fatto? Perché proprio una cosa così gratuita e
tanto crudele? Eppure sapeva quanto importante per me fosse quel ricordo e
quanto bisogno avessi, di quando in quando, di rispolverarlo per compatirmi. Ma
la maestra Tsunade fu severissima, come un oni dell’Inferno.
“Sakura!” mi urlò con una tale violenza da far accorrere
persino un pubblico che non ero in grado di affrontare. “Le lacrime sono
preziose. Non è giusto buttarle via per niente. È un oltraggio a chi non ne ha
abbastanza!”
Come Sasuke, dunque. O come Naruto, nei giorni in cui era
ancora e solo il vaso di un mostro, non un bambino come noi. Così capii anche
perché Uchiha fosse a volte così duro nei miei confronti: calpestavo la sua
sensibilità senza chiedere permesso e avevo persino il coraggio di lamentarne le
reazioni.
Shizune, per la verità, venne poi a consolarmi, per
raccontarmi che la maestra Tsunade aveva pianto e sofferto sino a dimenticare il
sapore stesso della vita. Era preoccupata per me: che mi seppellissi nel culto
di un ricordo che non aveva mai salvato nessuno. Neppure lei.
Mi raccontò anche di come Naruto fosse riuscito a snidarla,
ponendo l’accento sul patetismo con cui si autocompativa, anziché alzare la
testa e combattere ancora.
“Naruto comprende molto bene il cuore delle persone, perché è
stato tanto saggio da non trasformare il suo dolore in rancore.”
Quello era qualcosa che avevo imparato da sola guardandolo;
che sentivo in me avendolo al fianco, là sul costone roccioso che ci divideva da
due fratelli in lotta da sempre.
Orochimaru aveva abbandonato la Foglia come tutti i
traditori, dando le spalle al mondo che l’aveva cresciuto, senza mostrare il
minimo rimpianto. Jiraiya aveva tentato di trattenerlo, ma quello scontro non
avrebbe mai potuto uguagliare, né sfiorare la drammaticità con cui Naruto aveva
offerto la propria vita a Sasuke perché tornasse indietro. Non era questione di
tempi, quanto di personalità.
Malgrado la sua crudeltà profonda… Malgrado il cinismo
impressionante con cui ha saputo incunearsi nella nostra storia, Orochimaru era
uno che seguiva uno strutturato disegno di devastazione e di imperio. Bramava il
potere, se vogliamo, e in questo obbediva ancora alla logica degli esseri umani.
L’inumanità, quella vera, appartenne nella storia di Konoha
al solo Itachi, perché niente del suo piano somigliava davvero all’ambizione da
sciacallo di troppi altri criminali. Non credo che neppure una S bastasse a
indicare il rango di pericolosità di un simile assassino, perché una volontà di
potenza come la sua non si era mai vista.
Per questo davvero mi chiedo cosa si disse Itachi, quando
Sasuke sollevò le palpebre e mise a nudo il suo trofeo. Naruto e io eravamo
abbastanza visibili da lasciar intendere che no, lo sharingan ipnotico non
proveniva dal sangue di un amico. Aveva tutt’altra origine. Era il dono nefasto
di un altro sacrificio.
Itachi era una maschera di cera dalla bellezza quasi
ignominiosa. Sasuke aveva lineamenti più fini e delicati, ma il fratello era
l’icona dell’eroe. Nelle mie romantiche fantasie di bambina, tuttavia, non avrei
mai creduto che gli eroi potessero essere crudeli; che si era eroi, anzi, quando
si rinunciava a quanto di buono, di fragile, malleabile e puro c’era nel cuore
umano. Eppure la voglia di contestare quell’asserto bruciava in me allora e oggi
più forte che mai, perché non era tutta la verità. Meglio: non era vero solo
quello.
C’era anche chi viveva la sua vita giorno per giorno, senza
troppe ambizioni. Non rinunciava a guardare il sole e nello specchio trovava
sempre qualcuno che gli restituiva il sorriso: anche quelli erano eroi. Forse i
soli autentici.
Il vento taceva, mentre il nostro cammino si interrompeva
lungo il costone. Gaara non riusciva a staccare lo sguardo dai paramenti con cui
era stata officiata anche la sua esecuzione.
“È uno di loro, dunque,” mormorò a denti stretti. Naruto, la
cui volontà stava cedendo assieme all’argine delle sue emozioni più pure e più
ferite, gli replicò in rimando: “No. In questo momento è solo Itachi Uchiha.”
La sua voce squarciò il velo della menzogna con cui avevo
continuato a combattere giorno dopo giorno in quell’infinito mese: era tutto
finito. Non avevo il benché minimo titolo per scendere tra quei due e dividerli,
come pure avevo tentato di fare eoni prima, davanti a un altro campo di
battaglia – o alla promessa che ci sarebbe stata quella sfida, prima o poi.
Alle mie spalle, Ino e Temari insultavano Shikamaru con voce
sempre più malferma. Qualcuno stava morendo, dunque: accadeva ancora e non
avremmo potuto impedirlo.
Eravamo mille ed eravamo ancora soli davanti a quell’acqua
che scorreva derisoria, perché il suo flusso era immortale come non sarebbe
stato il destino di nessuno di noi – neppure dei due fratelli che cercavano di
offrire un punto fermo alla loro maledizione.
“Ha lo sharingan ipnotico,” ringhiò il maestro Kakashi,
cercandoci ancora una volta con lo sguardo, quasi non credesse all’evidenza del
fatto ch’eravamo comunque sopravvissuti. Sasuke non ci aveva uccisi, eppure
poteva finalmente combattere il nemico ad armi pari.
Sai si avvicinò con la consueta, felina indolenza. Assieme a
Gaara e Naruto restammo un quartetto inscindibile per tutta la durata del
combattimento. Era quasi avessimo bisogno l’uno dell’altro per trovare, l’uno
nell’altro, la misura di quel ch’eravamo.
Per oltre due anni, ogni giorno, mi ero guardata dentro,
stupendomi di quanto larga e informe fossi per la nettezza del profilo che
avrebbe fatto di me la compagna ideale di un eroe. Dovetti sfiorare
un’esecuzione annunciata per comprendere invece l’inutilità di un confine che
cingesse l’immensità di quel che portavo dentro.
Mi allontanai un solo istante, per raggiungere il gruppo di
Choji e Ino. Finsi di non vedere il calore con cui Temari violava la regola
venticinque, lacrimando il suo amore, il suo dolore e il suo rimpianto sul corpo
di Shikamaru: mi limitai a imporre le mani sul petto del migliore di noi e a
ricordargli che aveva un bambino da crescere.
Non solo quello di Asuma.
“Come l’hai capito?”
“Me l’ha detto il vento.”