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Autore: Hikari93    06/10/2011    7 recensioni
[Seto X Jono]
«Ti va un’offerta di lavoro?»
«Cosa?» spalancai ridicolmente la bocca.
Lui scosse il capo. «L’avevo detto che avevi problemi di udito… ti serve un lavoro sì o no?»
La domanda era diretta e la risposta anche. Era indubbio che avessi bisogno di soldi. Il mio ultimo lavoro, ovvero consegnare i giornali, era finito nel momento esatto in cui avevo mandato in malora la maggior parte dei quotidiani, dato che ero caduto rovinosamente dalla bicicletta. Il mio ego mi diceva di rifiutare, ma quel minimo di coscienza mi consigliava di accettare. «Di che si tratta?» Sempre meglio informarsi, prima.
«Niente che ti ammazzerà Katsuya, lo scoprirai a tempo debito. Ma voglio una risposta adesso. Accetti?» Mi porse la mano.
Ci riflettei su, ma mi pareva di avere una sola possibilità, anziché due, almeno se volevo sopravvivere dignitosamente. Strinsi la mano al mio peggior nemico, preparandomi al peggio.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Joey Wheeler/Jounouchi Kazuya, Seto Kaiba
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: A casa del nemico







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Nel misero “tempo debito” che Kaiba mi aveva offerto, che mi aveva poi svelato essere un solo giorno di semplici ventiquattrore, avevo riflettuto su cosa avrei dovuto fare per quel tizio. Essere alle sue dipendenze era un’espressione che suonava male, che odiavo. Avrebbe potuto sfruttarmi come un cane o chissà cos’altro. Umiliarmi, più di quanto già faceva.
Il giorno prima delle vacanze, giorno che doveva finalmente essere rilassante, si era dimostrato uno dei peggiori. Tralasciando la pessima mattinata e il pomeriggio non da meno per via di pensieri su pensieri che riguardavano un certo riccastro, neppure di notte avevo trovato pace. Mi ero continuamente girato e rigirato nel letto, chiudendo e aprendo gli occhi in media ogni decimo di secondo. La sveglia, poi, sembrava rotta, considerato che segnava sempre lo stesso orario.
Cos’era, ansia forse? Paura? Giammai.
Ragionandoci, lo avevo catalogato come un semplice e puro fastidio. Un senso di intorpidimento allo stomaco che mi impediva di addentrarmi al calduccio, sotto le coperte, e di dormire beato. Era strano che non riuscissi a prendere sonno: amavo dormire tanto quanto mangiare! L’avessi detto ai miei amici, avrebbero pensato che fossi posseduto.
Alla fine avevo riposato solamente per una mezz’oretta, prima che la sveglia -ma perché funzionava, ora, quella maledetta?- annunciasse l’inizio del mio primo giorno di vacanza da scuola, alias il mio primo giorno di lavoro. Qualcosa mi diceva di aggiungere un bel “forzato”.

Quando arrivai davanti a casa Kaiba, non avevo quasi più aria nei polmoni. Come mio solito, infatti, avevo perso tempo con i cosiddetti “altri cinque minuti”, e avevo tardato. Tipico.
Mi appoggiai sulle ginocchia piegate, e trassi quanti più lunghi respiri potessi. Sapevo già che una volta entrato tra quella quattro mura, sarebbe stato difficile trovare anche un solo spiazzo che non fosse stato contaminato da Seto Kaiba. La peggiore delle malattie infettive, il più marcio tra i frutti andati a male, quanto di più sadico e antipatico potesse esserci nel mondo. E il tutto in un unico organismo: Seto Kaiba.
Alzai il capo, deciso a non indugiare più del dovuto. Avevo fatto una fatica immane, inimmaginabile, per arrivare mezzo minuto prima; se avessi perso questo, seppur minimo, anticipo, sarebbe stato come aver tardato.
Sbuffai, e presi a camminare verso il cancello alto e nero, terminante a punta. Sembrava una galera, degna dimora del suo possessore. Oltre le sbarre, in quello che era un immenso e spazioso giardino senza fiori, sorgeva incontrastata “Reggia Kaiba”.
Già, proprio “reggia”.
Probabilmente in tutta Domino non esisteva una dimora tanto imponente, di chissà quanti piani e con chissà quante stanze. E quanto relax, quanta comodità e quanti inservienti… sarei diventato uno di quelli? Comunque, l’unico edificio più mastodontico poteva essere solo la Kaiba Corporation, guarda caso appartenente sempre e “Mister Simpatia”.
Chissà, magari sarebbe diventato il padrone assoluto della città. Non potevo nascondere che ce lo vedevo fin troppo bene in quel ruolo, tanto da farmi raggelare il sangue nelle vene.
Rabbrividii a causa di una soffiata di vento che mi prese in pieno e mi strinsi nella spalle. Osservai una sottospecie di citofono di ultima generazione, con tanto di telecamera incorporata. Probabilmente il signorino mi aveva già visto. Infischiandomene di questa possibile ipotesi -del resto sapevo che mi aspettava, no?- allungai un dito e suonai. Simbolicamente, ripulii il polpastrello contro la giacca, non avendo intenzione di infettarmi con quelli che, d’ora in avanti, avrei chiamato Kaibagermi.
Ed eccolo: sul videocitofono comparve il faccino adorabile di Seto. Avrei allungato volentieri un braccio e fracassato la sua faccia, se avessi potuto davvero procurargli dei danni. Ma evitai, dato che sarebbe stato solo un mio svantaggio.
«Sei arrivato.» Non era una domanda, quanto una constatazione.
Avrei voluto sventolare la mano davanti al monitor, esprimendomi in un ironico “beh, non mi vedi? Problemi di vista, stamattina?”, ma evitai di nuovo. Più tempo passava e più avevo l’impressione che avrei dovuto evitare molte, ma molte cose di quelle che mi sarebbero passate per la mente.
«Buongiorno» salutai. Fu già uno sforzo immane. Potendo, cercavo di rivolgere la parola a Kaiba quanto meno possibile. Tuttavia, non riuscii a nascondere un sorrisetto nervoso e tirato, che però non comportò alcun mutamento nell’espressione facciale del mio “videointerlocutore”. Stranamente, quel giorno Seto sembrava meno propenso a battibeccare. Meglio così. Io non lo avrei disturbato, e me ne sarei tenuto alla larga, e lui non mi avrebbe disturbato e -possibilmente- si sarebbe tenuto alla larga.
«Entra su, non perdiamo altro tempo.» E mi aprì.
Rimasi sbalordito dall’assenza di ironia nel suo tono, ma non glielo feci osservare.
Il cancello si aprì verso l’interno, come quelli delle case stregate nei film horror. Mi trattenni dallo spalancare ridicolmente la bocca -perché quelle sbarre che si muovevano facevano davvero un bell’effetto- e mi mossi. Avrei dovuto essere sempre calmo e padrone di me, quanto più serio possibile ed efficiente, cosicché Seto non potesse avere niente da ridire.
Mi misi le mani in tasca e camminai, tranquillo. Mi accostai all’enorme portone marrone, e attesi. Stavo già per lamentarmi del fatto che mi avesse volutamente lasciato fuori a congelare come un hawaiano in Antartide, quando un’anta si aprì velocemente, quasi travolgendomi.
Fui lesto a scansarmi, dunque la mia faccia non ne risentì. Mormorai solo un paio d’insulti silenziosissimi verso il padrone di casa, ma una voce mi interruppe.
«Ti stavamo aspettando Jonouchi.»
Mokuba Kaiba. Un piccoletto che avrebbe difeso a spada tratta suo fratello anche se questi si fosse trovato nel torto più marcio. In compenso, caratterialmente era più ragionevole di Seto, tranne in alcuni casi, casi in cui, purtroppo, il gene Kaiba si faceva sentire più forte.
Tentai di rilassarmi, constatando che ci stavo riuscendo.
«Seguimi, ti porto immediatamente da Seto.»
Risposi con un sorrisetto nuovamente nervoso e forzato.
Seto, Seto, Seto! Quel dannato nome riusciva a farmi andare su tutte le furie! Ancora sconosciuti i metodi secondo i quali avveniva il mio cambiamento repentino di umore. Qualcosa da scoprire, un po’ come la questione degli UFO.
«Andiamo» mormorai, conscio che si trattasse di un’esortazione rivolta più a me che a Mokuba.
Il ragazzino annuì e mi fece strada.
Non appena misi piede dentro, spalancai occhi e bocca. Trattenni a stento un’esclamazione di stupore -mai apprezzare il nemico, specialmente se ti trovi al suo covo-, ma la mia faccia doveva dire molto, troppo.
«E’ enorme, vero? Quando la vidi per la prima volta, feci più o meno la tua stessa faccia.»
Come, come, come? Mokuba c’era nato qui dentro. Forse la famiglia Kaiba si era trasferita nel corso degli anni, del resto non che Seto parlasse molto di sé, anzi; di lui sapevo solo il nome, a momenti. A ogni modo, preferii lasciar perdere, almeno per il momento. Anche se il fatto che il ragazzino si fosse morso le labbra, come a pentirsi di aver parlato, me la diceva lunga. Oh beh, fatti loro.
«Più che una casa mi sembra una dimora reale, Mokuba!» Con lui non dovevo temere di tenere la bocca serrata, non troppo almeno.
In effetti, spalancata la porta, l’ambiente in cui mi ero ritrovato era stato diverso da ogni tipo di costruzione ed edificio che avessi mai visto. Persino i centri commerciali in cui talvolta mi recavo con Yugi e il resto della compagnia mi sembravano così piccoli al confronto. Ci trovavamo davanti a un rampa di scale che portava al piano superiore. In pratica, questo primo “luogo” aveva la stessa funzione della sala d’attesa degli studi medici: mi sembrava di aver intrapreso un rito di iniziazione, che si sarebbe concluso solo quando fossi stato al suo cospetto.
Mi sforzai di rimuovere quegli sciocchi pensieri dalla testa, e proseguii, preceduto sempre da Mokuba. Sulle scale ci mancava solamente il tappeto rosso, poi sarebbero state “regali”.

Inutile dire che arrivai col fiatone.
Chissà per quale motivo, ma Seto Kaiba mi stava aspettando proprio al quinto piano. Ero rimasto di stucco nel vedere con quanta rapidità e facilità Mokuba salisse, percorrendo talvolta anche due gradini per volta.
«Siamo arrivati, Jonouchi» mi disse infine, quando ero più morto che vivo.
«Finalmente…» biascicai tra un respiro profondo e l’altro.
Guardai con astio la porta. Ci avrei messo il cartellino “Attenti al Kaiba”, oppure “Vietato l’accesso” o ancora “Pericolo esplosioni”. Effettivamente la semplicità di essa mi parve fatta apposta per i miei assurdi progetti di avviso. Avrei fatto solo un bene alla comunità, mettendoceli.
«Ehi Seto, siamo arrivati!» enunciò Mokuba, abbassando la maniglia e mostrandomi una stanza molto semplice, arredata col minimo indispensabile: si trattava di una sottospecie di studio, con le “normali” due sedie a poltroncina ai due lati di una scrivania. Su di essa, vidi disposto un portatile chiuso, affiancato da un mucchietto di libri messo l’uno sull’altro. Mi sorpresi del paradosso tra ciò che l’esterno faceva supporre, e ciò che effettivamente si trovava all’interno. «Non abbiamo preso l’ascensore, proprio come volevi tu.»
Momento, momento… ascensore? Non l’avevo notato, altrimenti avrei almeno chiesto di poterla utilizzare. Uffa, come fare dinnanzi all’alleanza Kaiba?
Inquadrai all’istante il padrone di quell’impero. Non riuscii a non trasmettere tutta l’antipatia che provavo nei suoi confronti.
«Ottimo Mokuba, ben fatto. Ora puoi andare.»
Il ragazzino annuì, sparendo dietro la porta.
Tra me e Seto Kaiba scese un rumoroso silenzio. Le occhiate astiose e infastidite che gli lanciavo cozzavano con le sue, fredde e impassibili, producendo un sibilo acuto. Nemmeno quando aveva parlato, prima, si era smosso. Ma mi aspettavo da un momento all’altro un suo cambiamento di espressione facciale. Cambiamento che non si mostrò.
«Siediti Katsuya, a meno che tu non preferisca restare in piedi.»
Decisi all’istante: mi sarei trattenuto, ma non fatto trattare come uno straccio. Avrei risposto alle sue provocazioni come avevo sempre fatto da quando lo conoscevo. «No, no, mi siedo volentieri, grazie.» Fui quanto più acido riuscissi a essere con quel ringraziamento finale, dunque mi accomodai, proprio di fronte a lui. «Allora, di che si tratta?» chiesi. Non mi andavano giri di parole, e speravo di uscirmene quanto prima da quella situazione.
«Vai di fretta, Jonouchi, a quanto vedo.»
Alzai le spalle e sventolai una mano davanti al volto, in un gesto di noncuranza. «Beh non proprio, ma dato che devo lavorare, mi aspetto di cominciare quanto prima. Prima inizio, prima finisco, ecco.»
«Nemmeno a me piace perdere tempo, dunque andiamo al sodo.»
Cercai di non darlo a vedere, ma drizzai le orecchie quando parlò. Ero proprio curioso di sapere che cosa avrei dovuto fare. Il tempo sembrava essersi fermato e Seto, che di solito aveva sempre la lingua biforcuta, pronta a offendere, a umiliare e a parlarmi spiacevolmente in continuazione, pareva non avere la minima intenzione di continuare. Deglutii, e mi disposi in ascolto.
«Sarai una specie di tuttofare, Katsuya» disse secco.
Alzai i sopraccigli. «Tuttofare?»
«Considera che la maggior parte dei miei inservienti è in ferie per il periodo natalizio, dunque capirai, forse, che mi occorre qualcuno di allenato che possa avere la forza di occuparsi di più faccende» spiegò. Poi, appoggiò un gomito sul bracciolo della sedia e mi squadrò. Probabilmente si aspettava una mia reazione, che non tardò ad arrivare.
«Che intendi con allenato?»
Lui ghignò. Lo sapevo, lo sapevo che non avrei dovuto aspettare molto tempo per vedere quella sua espressione da superiore. «Bisogna spiegarti sempre tutto. Ti ho visto correre di mattina molte volte, per arrivare puntuale a scuola, ovviamente senza risultati.»
Sbuffai, stringendo i pugni.
«E ho pensato che tu fossi la persona adatta, quella che mi serviva.»
«Sei un lurido bastardo Kaiba, lasciatelo dire» mormorai, a denti sempre più stretti.
Ma lui non si scompose. Anzi, guardò alle mie spalle e mi parve leggermente sorpreso. O forse non lo era, chissà: era complicato interpretare Seto Kaiba, capire cosa gli frullasse per la mente. «Vedo che non hai portato nulla con te.»
Stavolta fu mio il turno di essere sorpreso. «Come scusa?»
Seto si appoggiò maggiormente allo schienale, facendo combaciare ancora di più la sua schiena al tessuto rosso. Poi poggiò una guancia sul pugno stretto. «Sarai un tuttofare a tutte le ore, Katsuya. Avrai una tua camera e vivrai qui per tutto il periodo natalizio, a mia completa disposizione.»
«Cosa?» urlai, alzandomi di scatto e facendo cadere la mia sedia a terra. Non mostrai nemmeno l’intenzione di volerla rialzare. «Ma questo… ehm… insomma…» cercai una frase che potesse aiutarmi. «Questo non era previsto!» sbottai.
«Niente era previsto, ma hai comunque accettato. Non c’era alcun contatto, ma mi hai stretto la mano, come se avessimo fatto un patto. Ora, un contatto regolare ce l’ho, eccolo qui.» Aprì un cassetto, tirandone fuori un foglio con qualche scritta che dalla mia posizione non riuscivo a leggere. «Se sei un uomo d’onore, e non una femminuccia, leggilo, riscontra che c’è scritto proprio quanto di ho detto, e firma, tenendo fede al tuo accordo.»
Dannazione, il suo discorso non faceva una piega dal punto di vista dell’onore. Seppur fosse vero che non mi avesse detto della “forzata convivenza”, allo stesso modo non potevo negare che aveva chiarito che mi avrebbe reso noto tutto solo dopo che avessi accettato. Accidenti, odiavo dargli ragione!
«Dà qua!» proruppi, afferrando il pezzo di carta tra le sue dita lunghe e affusolate. Tentai di non guardarlo in quegli occhi ridenti che mostravano di avermi in pugno.
Lessi con velocità quel che c’era scritto, poi allungai una mano. «Dammi una penna» sussurrai irato.
«Saggia decisione» mi disse soltanto.
Fui veloce: firmai.
Da quel momento, sarei diventato a tutti gli effetti il “tuttofare del Signor Seto Kaiba”. Mi avrebbero aspettato delle vacanze di inferno, lo sapevo già! Che bene avrei potuto ricavarne da tutta quella storia, oltre che un’emicrania terribile e un eccesso di veleno dentro di me?

 




Dunque, vediamo un po’ se c’è qualche precisazione da fare. Solo che Jono non sa che Seto è stato adottato, e qui si spiega la sua riflessione riguardo alle parole di Mokuba. Per il resto, credo sia chiaro, ma in caso di qualcosa chiedetemelo pure tramite recensioni o tramite messaggi privati, come preferite! ^___^

Ma non perdiamo tempo, la cosa più importante che ho da dire è che ringrazio tantissimo Tayr Soranance Eyes, perché mi ha betato il capitolo. Un lavoro ottimo, mi congratulo! *___*
Certe cose mi erano proprio sfuggite, grazie! *^*
Credo proprio che migliorerò di parecchio grazie al tuo preziosissimo aiuto, grazie ancora!







 

   
 
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