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Autore: Guitarist_Inside    13/10/2011    3 recensioni
Eccomi.
Here I am.
Finalmente, potrei aggiungere.
Finalmente posso lasciarmi alle spalle un uragano di fottutissime bugie a cui non appartengo.
Finalmente posso prendere in mano la mia vita.
[...] E quindi, eccomi qui, che non ne posso più, e che cerco di lasciarmi alle spalle tutto ciò, questa terra di false credenze che non crede in me e in cui nemmeno io credo. Anzi, me ne frego altamente, o almeno così tento di fare.
Eccomi qui, dunque, che cerco di scappare da tutto questo, diventato fin troppo opprimente, per provare a trovare quello in cui IO credo.
...Direte che ho fatto una scelta fin troppo drastica, che ho esagerato, che sono pazza, o altre cazzate del genere. Ma voi non siete me. Voi non abitate nei contorti meandri della mia mente. Voi non avete vissuto quello che ho vissuto io. Voi non potete capire assolutamente niente di tutto ciò, quindi non fate i finti saccenti che si prodigano a dire le solite, ennesime, boiate. [...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hey!
Lo so, lo so, anche questa volta mi ritrovo a postare con enooooorme ritardo. I’m sorry, again. Avevo sperato di riuscire ad aggiornare molto prima, almeno questa volta, ma anche se metà capitolo era già grossomodo pronto, il mio computer e il torchio scolastico che a settembre è ripreso mi hanno rallentato assai…
Del capitolo successivo ho già scritto una buona metà, ma questa volta non mi azzardo a promettere un aggiornamento veloce perché non so se poi potrò mantenere la promessa, anche se spero di poter avere presto il tempo e l’ispirazione per continuare e postarlo ;).
Anyway… Prima di postare questo tanto atteso (?) capitolo, voglio ringraziare davvero di cuore coloro che seguono questo mio Sclero Mentale Formato Famiglia TM aka fanfic, ed in particolar modo coloro che mi lasciano una recensione **… Davvero, apprezzo moltissimo sapere la vostra opinione, e vedere aumentare il numerino delle recensioni accanto al titolo della fic mi provoca sempre un sorriso soddisfatto, perché ciò significa che qualcuno ha dedicato del tempo a leggere ciò che ho scritto e a comunicarmi la sua idea, le sue impressioni, eventuali consigli, etc…
E ancora un grazie a ShopaHolic per la recensione (ora vado subito a rispondere, sweetheart) e l’incoraggiamento costante :)
Okay, questa volta sono riuscita a dilungarmi meno del solito nell’introduzione, yeah! xD. Quindi, per non dover cancellare quest’ultima frase, vi lascio al capitolo! Inutile dire che anche questa volta spero sia di vostro gradimento (o che almeno non vi faccia schifo XD), e che sarei contenta se lasciaste una recensione…
See ya! :)






Soundtrack: Welcome To Paradise (Green Day)

“Pay attention to the cracked street and the broken home,
Some call it slum, some call it nice…”
“Dear mother, can you hear me laughing?
It’s been six whole months since I have left your home.
It makes me wonder why I’m still here…
For some strange reasons it’s now feeling like my home,
and I’m never gonna go…”
[ Welcome To Paradise – Green Day ]


CAPITOLO 3
Some call it slum, some call it nice


Scesa dal taxi, raccolsi buona parte del mio bagaglio, chitarra inclusa, cercando con lo sguardo i particolari che avevo visto varie volte nelle foto che mi aveva mostrato Alex, e che ora avrebbero fatto parte della mia nuova casa. Ne osservai anche altri, e cercai di imprimerli nella mia memoria, accanto ai precedenti, cercando di costruirmi in testa una specie di quadro generale della zona.
Non era un quartiere di lusso, anzi, tutt’altro.
Non era una casa di lusso, anzi, tutt’altro.
Ma, onestamente, non me ne poteva fregare di meno.
Ma non perché “a caval donato non si guarda in bocca”, figurati.
Il motivo era perché… Non sapevo neanch’io bene come dirlo. Però, quell’atmosfera, la Baia, quel cielo vespertino, quelle colline e quei grattacieli che si potevano scorgere in lontananza tra gli edifici, quelle strade periferiche di Berkeley, quelle vie dissestate, quelle case rovinate dalle intemperie e dal tempo a cui tuttavia resistevano tenacemente, quegli alberi al lato del viale che avevo di fronte e quel prato selvaggio accanto ad essi, quella panchina solitaria piena di scritte e con un’asse rotta al bordo del marciapiede, quella fermata del bus sconosciuta ai più che si reggeva poco distante, quelle poche auto parcheggiate ai bordi delle strade e quelle che ogni tanto vedevo sfrecciare, quel semaforo in fondo alla via vicino all’incrocio, quel cartello indicante il senso unico, quell’altro indicante Gilman Street (che non distava poi molto da dove mi trovavo), quei lampioni e quei fili elettrici, perfino quel gatto che cercava qualcosa in un bidone rovesciato… insomma, tutto, qui, mi pareva in un certo senso familiare, anche se non sarei riuscita a spiegarne razionalmente il perché.
Tutto questo, alcuni (anzi, probabilmente molti) lo chiamano semplicemente schifezza, squallore; lo vedono solamente, superficialmente, come dei bassifondi dai quali si guarderebbero bene a stare. Altri, invece, riescono a chiamarlo carino, a modo suo affascinante. E questi ultimi hanno i loro motivi per dirlo. Perché, per qualche strana ragione, riconoscono qui quella che chiamano casa, o almeno qualcosa che può assomigliarle.
Ecco, io sentivo di appartenere a questa seconda categoria.
Perché in quel paradiso infernale, beh, mi sentivo molto più a casa che in ogni altro luogo dove ero stata fino ad allora.
Perché riuscivo a assaporare la freschezza della libertà.
Perché riuscivo a riconoscere l’amicizia, quella vera, così rara, autentica ed indissolubile, che ora era al mio fianco, nel senso proprio della parola.
Perché, in quei sobborghi periferici, riuscivo a riconoscere la mia rabbia ed il mio amore, quelli che costituivano la storia della mia vita.
Perché… Perché avrei potuto trovare altri mille “perché”.
I miei pensieri correvano, mentre un leggero vento mi arruffava i capelli più di quanto già non lo fossero, e rinfrescava l’aria di quel tardo pomeriggio estivo che stava per cedere il posto alla sera.
A un tratto, iniziai a ridere, felice.
Nonostante tutto, quel posto mi piaceva, aveva qualcosa di particolare.
Sarei rimasta lì, sì. Non me ne sarei andata, a meno che Alex mi avesse buttato fuori, ma l’ipotesi era alquanto improbabile.
Chissà se quelli che si definivano i miei “genitori” riuscivano a sentirla, quella risata liberatoria.
E, nel caso, chissà se gliene sarebbe fregato qualcosa…
Chissà cosa avevano fatto e pensato constatando l’effettiva veridicità della mia partenza.
Chissà come avevano reagito vedendo che li avevo anticipati: me n’ero andata io, prima ancora che potessero mettere in atto la loro promessa di buttarmi fuori dalla loro casa quando fossi stata maggiorenne, dato che non ero la ragazza modello senza cervello che avrebbero desiderato e non ne potevano più di me (come io non ne potevo più di loro).
Già, chissà

Il corso dei miei pensieri fu interrotto dal rumore del taxi che si rimetteva in moto, passandomi davanti e sparendo in fondo al viale.
– Hey, ci sei? – la voce di Alex fu l’ultimo ingrediente che mi riportò alla realtà.
Annuii.
– Beh, è quello che è… – disse, alzando le spalle, riferendosi al posto – Però, nonostante tutto, può anche piacerti, se lo sai apprezzare…
Alex mosse lo sguardo su ciò che avevo osservato fino a qualche secondo prima, tra le mie elucubrazioni. E sorrise.
– Ma sono sicuro che tu hai tutte le carte in regola per saperlo fare. –
Ci guardammo, e sorrisi anch’io.
Some call it slum, some call it nice… – affermai.
– E tu in quale di questi gruppi ti collocheresti? –
– Nel secondo. –
Non ci fu neanche bisogno di pensarci molto, a come rispondere, perché ci avevo giusto riflettuto poco prima. E Alex, dalla prontezza della mia risposta, lo capì.
Poi, dopo un attimo di silenzio in cui parlarono solamente i nostri sguardi, raccolse la restante parte dei miei bagagli, e si avviò, facendomi cenno di seguirlo.
– Andiamo a casa a lasciar giù le cose, così ti faccio vedere la mia umile dimora e vediamo come possiamo sistemarti… Il resto, la zona e tutto ciò che concerne, te lo presento bene poi! – mi fece.

Arrivammo davanti ad una palazzina disposta su tre livelli, in una condizione non proprio impeccabile. L’appartamento dove viveva Alex si trovava al secondo piano.
– Te l’avevo fatta vedere in una foto un po’ di tempo fa, mi pare… – disse, con un tono che forse tradiva un po’ di imbarazzo.
Confermai.
– Hey, tranquillo, va benissimo! – aggiunsi poi, notando l’intonazione con cui aveva parlato poco prima.
Mi sorrise, e mi fece cenno di seguirlo all’interno del portone, e poi su per le scale.
Nessuno dei due proferì parola finché giungemmo al pianerottolo; notai ancora un certo nervosismo nei suoi movimenti, mentre cercava le chiavi ed apriva la serratura.
– Guarda che dico sul serio! E poi, voglio dire, è grazie a te che ho un posto dove stare… Ogni volta che ci penso non so come ringraziarti, non so davvero come avrei fatto se non avessi conosciuto te… E poi, io non voglio un hotel a 5 stelle, no; mi va benissimo qui, con te. Sul serio, bro. –
Finalmente, l’espressione sul suo viso si rilassò. E non feci in tempo a sorridergli, che mi ritrovai stretta tra le sue braccia.
E in quella stretta trovai il suo modo di dirmi grazie, il suo modo di darmi il benvenuto, nonché la felicità di poter finalmente essere l’uno accanto all’altra.
Soffocai una risata sulla sua spalla e lo abbracciai di rimando.
E rimanemmo così, soltanto noi due, in un frammento d’eternità, nel mezzo di quel piccolo pianerottolo, davanti alla porta socchiusa, con ancora le chiavi inserite nella toppa, del suo appartamento. O meglio, di quello che da ora era il nostro appartamento.
Casa.

– Beh, entra. – mi sussurrò all’orecchio, prima di lasciarmi andare, facendomi cenno di varcare la soglia dell’appartamento.
Non me lo feci ripetere e mi accinsi a raccogliere i miei bagagli. Poi, decisi di lasciarli ancora un attimo sul pavimento: avevo una cosa più urgente da fare.
– Grazie. Grazie davvero. – dissi, alzando la testa nella sua direzione.
– E di che? – rispose lui di rimando, alzando le spalle e ridendo.
Sorrisi, e mi chinai per raccogliere i bagagli che avevo lasciato in attesa, ma una mano mi precedette.
– Hey! – protestai – Riesco a portarli dentro anch’io! –
– Ma guarda te, uno vuol farti una gentilezza e tu a momenti gli mordi la mano! – ribatté Alex.
– Scusa. – mormorai – Non volevo offenderti. È che sono abituata a dovermela cavare sempre da sola e… –
Don’t worry. – mi interruppe lui – Non mi sono mica offeso, figurati… Penso di poter dire di conoscerti bene, e ti capisco… Ma ora non sei più sola. Non mi permetto certo di dirti cosa fare oppure no, ma voglio solo che tu sappia che non devi per forza cavartela da sola, ora meno che mai. Voglio che tu sappia che, quando ne hai bisogno, o semplicemente quando vuoi, basta che tu mi chiami, e io sarò lì al tuo fianco. –
Lo ascoltai in silenzio, ero quasi commossa da quelle parole. Sapevo che era così, era sempre stato così, ma sentirmelo dire di persona, e sapere che ora quelle parole avevano un senso più fisico e reale di quanto l’avessero mai avuto prima, a mezzo globo di distanza, era qualcosa che non saprei spiegare a parole. Ma era indubbiamente fantastico. E pensando che già a nove fottutissimi fusi orari di distanza la sua presenza per me era così forte, la sua vicinanza emotiva era qualcosa di veramente impressionante che mi aveva aiutato innumerevoli volte a rialzarmi, non riuscivo a immaginare come avrebbe potuto diventare ora, che anche la distanza fisica era scomparsa.
– Sarò monotona ma… grazie. Grazie, bro. Ti voglio bene. Ma un bene veramente enorme. – dissi, sincera, ricacciando indietro una lacrima che iniziava a solleticarmi l’occhio – E voglio che tu sappia che lo stesso vale per me, sempre. –
– Grazie a te, sis. – mi mise un braccio attorno alle spalle, gentilmente. – Che dici, le portiamo dentro metà per uno? – disse poi, riferendosi alle valigie ai nostri piedi, per alleggerire quell’atmosfera fin troppo commovente che ci avvolgeva.
Gli fui grata per questo, e, annuendo, iniziai a portare la mia parte di bagagli all’interno dell’appartamento.

– Mi spiace, non è molto grande – la sua voce mi giunse alle spalle – ed è anche alquanto incasinato e… –
– Non devi assolutamente scusarti, Alex. – lo bloccai – Va bene così, grazie. –
– Sicura? – chiese ancora.
Quel ragazzo si stava preoccupando troppo e si stava ponendo problemi inutili. Sapevo che stava facendo il massimo per aiutarmi, e non potevo essergli più grata di così. In fin dei conti, gli ero piombata in casa, ma lui anziché farmelo pesare, pareva felice di ciò, e addirittura sembrava imbarazzato di non potermi offrire qualcosa ritenuto “meglio” dai più.
A me, però, più che la formalità interessava la sostanza, e la sostanza c’era eccome.
E non avrei cambiato quel suo appartamento scalcinato nemmeno con una villa di lusso.
Se per lui non era un peso avere in casa un’altra persona, e mi aveva assicurato millemila volte che ospitare la sua “sis” non lo era affatto, sarei stata assolutamente felice di vivere lì con lui.
Quella strafottuta maggioranza di gente ritenuta perbene avrebbe storto il naso, ma a me andava bene così. Anzi, più che bene, benissimo.
– Certo, pensavo di avertelo già detto prima, no? –
– Già, è vero. Scusami… – farfugliò – Posso appoggiarlo qui lo zaino? – chiese poi, spostando un borsone con un piede.
– Sì, certo, lascialo pure dove vuoi… C’è qualche problema se appoggio qui chitarra ed ampli? – domandai, accennando ad un angolo lasciato sgombro.
– No, figurati, fa come se fossi a casa tua… ora lo è. – rispose lui, ridendo.
– Casa nostra, vorrai dire – lo corressi, con la felicità che traboccava da ogni mio poro.
– Esatto, casa nostra. –

Finito di sistemare i miei bagagli, qualche minuto dopo, ci fermammo un attimo, pochi centimetri l’uno dall’altra, e ci guardammo negli occhi ancora una volta.
Quante cose riuscivo a scorgere, nei riflessi e nelle ombre dei suoi occhi, in quelle sfumature profonde, in quelle iridi così particolari, che sotto quella luce assumevano una tonalità intensa di colore grigio, solcato da striature verdi ed acquamarina, con qualche venatura più scura di cui non riuscivo a definire con esattezza il colore.
Avevo sempre pensato che quegli occhi fossero stupendi. Non solo per il loro colore, ma per l’espressività che riuscivano a comunicare. Quegli occhi che, quando il loro proprietario decideva di chiudersi in sé e non far trapelare nulla, diventavano vitrei ed impenetrabili; ma che con il suo consenso potevano però sciogliersi e diventare lo specchio di tutto ciò che passava per la testa di Alex, i suoi pensieri, le sue emozioni. E allora diventavano veramente stupendi. Tuttavia, il privilegio di poterli vedere in tali condizioni non era riservato a molte persone, e mi ritenevo fortunata a essere annoverata nell’esiguo numero di quelle a cui Alex consentiva di vedere attraverso il suo sguardo così vivo, e a cui permetteva di infiltrarsi nella sua anima e nella sua mente… Così come io facevo con lui. Perché pian piano, approfondendo la nostra conoscenza, entrambi avevamo valutato che valesse davvero la pena di rischiare con e per l’altro, entrambi avevamo deciso di fidarci e di abbandonare la corazza che ci eravamo costruiti negli anni, di esporci, di aprire il nostro mondo all’altro, di rivelare la nostra vera essenza… E quindi anche di permettere all’altro di leggerci negli occhi.

– Ehm… – disse ad un tratto, con voce un po’ imbarazzata, riscuotendomi dal flusso di pensieri e ricordi e riportandomi al presente.
Lo guardai, interrogativa. Cosa c’era, adesso, per essere imbarazzato?
Mi chiedevo cosa stesse per dire.
– Purtroppo ho solo un divano-letto… – iniziò, mentre mi chiedevo dove volesse arrivare a parare – Mi spiace, non ho fatto in tempo a procurarmi un altro materasso… Però, finché non troviamo qualcos’altro, posso lasciarti il divano-letto… Se vuoi io posso dormire lì vicino per terra, sul tappeto, per me non c’è problema… –
Rimasi qualche secondo in silenzio, attonita da tanta ospitalità.
Lui però interpretò il mio silenzio in qualche altro modo: forse pensò che fossi perplessa, contrariata, insicura, o non so cosa, perché ciò che disse dopo mi lasciò ancor più stupita.
– Se no posso anche mettermi di là, che ne so, vicino al tavolo, se preferisci… Oppure… –
Ad un tratto scoppiai a ridere.
Questa volta fu lui che mi guardò sbalordito, e confuso.
– Perché ridi, scusa? – mi chiese, sempre titubante.
– Perché stai esagerando! – risposi, tra le risate. – Voglio dire, è casa tua, e tu vorresti dormire per terra? –
– Beh, dove dovrei mettermi altrimenti? Non vedo molti altri posti… –
– No, assolutamente no, non lo posso permettere. Al massimo dovrei essere io quella che deve dormire per terra, dato che ti sono piombata in casa e… –
– Questo non posso permetterlo io, invece. – mi bloccò, risoluto – Sei mia ospite. –
Gli sorrisi.
– Beh, vuol dire che allora nessuno dei due dormirà per terra. – conclusi.
– E come facciamo, allora? – mi chiese, col tono di uno che non riesce a capire se ha intuito quello che intendi o è completamente fuori strada.
– Beh, se non vedo male quel divano-letto è di una piazza e mezza abbondante, no? –
Annuì.
– Perfetto, allora. – conclusi – Dovremmo starci entrambi. –
Mi guardò un attimo spaesato, senza sapere cosa dire. Poi fu il suo turno di scoppiare a ridere.
– Sicura che per te non sia un problema? – mi chiese poi, un po’ più serio – Cioè, pensavo che… –
– Don’t worry. – lo interruppi, con tono deciso e rassicurante – Se mi assicuri che non mi salterai addosso né mi farai qualche altro brutto scherzo… Per me non ci sono problemi a dormire assieme. –
– Tu mi sorprendi sempre, sis! – esclamò.
Sorrisi, stringendomi nelle spalle.
– Allora me lo prometti? – gli chiesi.
– Prometto. – affermò, portandosi una mano sul cuore – Non ti dico che te lo prometto su ciò a cui tengo di più, perché non mi pare corretto promettere su di te. – aggiunse poi, sorridendomi.
Mi sentii arrossire.
Non ero abituata a tanta dolcezza.
Né ero avvezza a tanta considerazione, a tanta disponibilità, a tanta sincerità, a tanta schiettezza, a tanto amore fraterno, caldo, autentico, leale.
– Non dire queste cose, bro. – sbuffai, divertita – Altrimenti mi fai sentire troppo importante. –
– Lo sei. – mi sussurrò, abbracciandomi, mentre un brivido mi percorreva la schiena.
Lo abbracciai anch’io, ancora una volta, respirando il suo odore, quel profumo agrodolce, per me così rassicurante, che avevo subito imparato a riconoscere, appoggiando la testa nell’incavo del suo collo e asciugandomi fugacemente una lacrima, prima che lui potesse scorgerla.
Ero felice.
Finalmente riuscivo a riassaporare il significato del termine “felicità”, che da molto tempo mi pareva ormai soltanto una parola così vuota, priva di qualsiasi riscontro, sfuggevole, lontana anni luce da me, che avevo quasi dimenticato il suo vero e profondo significato, la sua essenza.
Finalmente, ora, ero felice.

   
 
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