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Autore: Aleena    17/10/2011    1 recensioni
Due fazioni, diverse tra loro come il Giorno e la Notte, un'antica tregua infranta.
Due eroi.
Due mondi divisi dalla luce.
Benvenuti nelle Terre Rare.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un rollare lento accompagnava i suoi sogni, carichi di immagini sfocate e di un dolore pulsante, vivo; tutto attorno a lei oscillava, il pagliericcio, i muri, ella stessa. Qualcosa gracchiava lontano, qualcosa sciabordava, uomini gridavano: una cacofonia di rumori ed odori che i sensi maggiormente sviluppati della jalil amplificavano, rendendole impossibile riposare; ed allo stesso tempo, non era in grado di recuperare la lucidità, finendo per passare da uno stato di veglia ad uno di sonno profondo, entrambi turbati.
Poi, qualcuno era entrato –forse era meglio dire “salito”- e poco dopo nella stanza s’era diffuso un aroma di menta così prepotente che Takrin era stata costretta ad aprire gli occhi.
La prima cosa di cui si rese contro fu che era nuovamente al buio, una lampada ad olio poggiata sul pavimento molto distante, distesa stavolta su una tavola di legno spesso coperta da un materasso sottile foderato di paglia, scomodo; sentiva un pulsare lento ma questa volta nausea e dolore avevano quasi la stessa intensità, e Takrin sapeva che era quel maledetto rollare a procurarle la prima; nella speranza di  attenuare il voltastomaco, si alzò lentamente, poggiando un piede nudo e scuro sulle assi di legno del pavimento quasi con timore prima di guardarsi attorno.
Non c’era nessuno nella stanza stavolta, solo la penombra, lei ed una bacinella bassa e fumante, fonte dell’odore; prima ancora che avesse finito di chiedersi il perché di un tale oggetto, si era ricordata di ogni cosa, e le mani erano scese lungo il collo fino al petto, coperto da un panno di seta grezza che la suppurazione della ferita aveva fatto attaccare alla pelle in via di guarigione. Con una smorfia, Takrin valutò la bacinella, abbastanza vicina perché potesse raggiungerla senza abbandonare la posizione seduta, indi chiuse gli occhi e fece per strappare la pezza, ma dopo qualche centimetro si bloccò, reprimendo un’imprecazione fra le labbra. L’infezione le aveva quasi incollata la striscia di tessuto alla pelle, che ben presto l’avrebbe cicatrizzata con se.
Che sia il loro modo di imbonirmi? Si chiese, solo vagamente interessata alla risposta, mentre immergeva una mano in quell’acqua che si intiepidiva in fretta, la risollevava ed afferrava una delle strisce di seta pulite, caritatevolmente lasciate lì accanto; con il decotto di menta si lavò la ferita, aiutandosi a staccare la vecchia fasciatura, del tutto indifferente al suo bagnare lenzuola e pagliericcio, sporcandole.
Stava rifacendo il bendaggio, non senza notevoli difficoltà, quando dabbasso il rumore di una porta chiusa le arrivò chiaro, seguito da quello di passi che risalivano; in meno di un minuto la testa mora ed il viso del ragazzo Siryo fecero capolino da una botola nel pavimento, non molto distante dalla porta, seguiti dal corpo massiccio del giovane uomo. Takrin s’era mossa pigramente, a coprire il suo corpo nudo con una coperta quel tanto che bastava affinché l’uomo potesse avere uno scorcio delle sue braccia, dell’incavo del collo, un accenno del suo pieno seno sinistro fino al fianco e null’altro; la jalil era una dea, nella sua stessa mente, un essere vanesio che non temeva a definire sé stessa la più bella creatura che il sottosuolo avesse concepito, e nei lunghi anni della sua vita molto maschi, jaluk e non, l’avevano ammirata e voluta, cosa che aveva accresciuto in lei l’orgoglio per il suo corpo scuro e sinuoso, piccolo ma perfetto a suo modo.
Fu per questo che rimase interdetta quando l’uomo le lanciò un’occhiata di sufficienza, apparentemente più interessato al suo stato di salute che non alla pelle d’ossidiana in evidente contrasto col lenzuolo bianco.
«Sei fortunata ad essere una jalil, ragazzina. Non tutte le razze si riprendono in fretta come la tua. Fossi stata umana, saresti ancora distesa su quel letto in balia della febbre, ed a mio padre toccherebbe chiamare un Medico. Sono molto costosi, sai?» concluse, col tono di chi non sia sicuro che ne valga la pena, avvicinandosi e scostando un poco il lenzuolo dal petto di Takrin, per valutare lo stato di cicatrizzazione con occhio critico.
«Dove siamo?» la domanda della jalil era posta con un tono sottile, tagliente come una lama, carico di fastidio: chi era lui per permettersi di toccarla? Come osava restarle così indifferente?
«Non sai dire altro?» fu la risposta calma dell’umano, che non diede segno di aver colto l’astio nella voce della femmina «Questa è la Zephiro, l’ammiraglia, costruita su progetto di mio nonno. Mio padre ti spiegherà i dettagli ma… è bene che ti chiarisca un paio di cose, ragazzina» cominciò, guardandola fissa negli occhi vermigli, che dardeggiarono, carichi d’ira per l’ennesimo gesto sfrontato «Sei una Neutra, adesso. Che ti piaccia o no, che tu lo voglia o meno; perciò, togliti quell’atteggiamento superiore, chiudi la bocca ed apri le orecchie: non sei niente qui, adesso. Qualunque cosa tu sia stata in una tua vita precedente, dalla scorsa notte sei un mozzo, l’ultimo fra gli ultimi, e questa e la tua realtà. Perciò, accettala in fretta, eviterai di farti male» l’aveva detto senza minaccia, con una calma fin troppo invidiabile, ma Takrin non voleva, semplicemente non poteva accettarlo. «ora» riprese l’uomo «io finirò la fasciatura, poi ti vestirai, scenderai quelle scale ed ancora altre, fino ad una stanza da notte con un salottino, dove ti fermerai. Tutto chiaro?»
Takrin annuì piano, poi lasciò andare la coperta, esponendo la sua nudità fin quasi all’inguine; l’uomo mosse le labbra a sussurrare qualcosa che suonava come “esibizionista” ma non diede altro cenno di essere interessato a lei, iniziando ad applicare prima qualcosa preso da una cassetto e poi a legarle il bendaggio stretto.
Intanto, la mente di Takrin si era messa a lavorare velocemente, valutando: nella sua vita, la sua faccia innocente prima e la sua bellezza poi le avevano aperto molte porte –non c’era stato professore o saggio che potesse rifiutarle un favore, fosse un voto o la possibilità di accedere a pratiche e rituali più avanzati con un aiuto speciale-; che fosse un suo sguardo, un suo bacio od il suo stesso corpo, Takrin non s’era fatta scrupoli: era lo scopo ultimo che le interessava, era la maestria e la perfezione che qualunque mezzo valeva per conquistare. D’altronde, quella era una tecnica che nessuna jalil disprezzava, sebbene la loro natura fosse di comandare più che di sottomettersi: ma il fine giustificava i mezzi, sempre, e Takrin ce l’aveva fatta, ben prima di quanto tutti si aspettassero, e nonostante la necessità di ammaliare non sussistesse più, in cuor suo le dava orgoglio vedere che i maschi la desiderassero –e quanto la divertiva deluderli, scacciandoli con la sua gelida indifferenza o con la sua lingua affilata!
Con le donne era il suo talento, con gli uomini la bellezza, che sopperivano alla mancanza quasi totale di vero carisma. Insomma per tutta la vita la magia innata ed il fascino, entrambe lascito della sua razza, erano state la chiave del suo successo.
Ora, in quel buco puzzolente che non riusciva a smettere di dondolare qua e là, nessuna delle sue due armi sembrava poter funzionare. Cos’avrebbe dovuto fare, come comportarsi, allora?
«Fatto. A questo ritmo, direi che domani mattina sarai già in grado di iniziare i tuoi compiti. Ora, se permetti, ho una nave da preparare. I vestiti» ed indicò con un gesto distratto un basso cassettone irregolare sulla parete di sinistra «e la cabina del Capitano, due piani sotto. Non è difficile, no?» concluse, con un sorrisetto a metà fra il divertito ed il beffardo, alzandosi ed allontanandosi senza voltarsi a dedicarle neanche un’occhiata. Discese la scaletta, aprì un cassetto e fece frusciare qualcosa che somigliava al rumore della carta, quindi una porta venne aperta e chiusa, un ordine venne gridato dalla voce possente di un uomo che poteva essere Rigel, quindi passi scalpicciarono lontano. Takrin si alzò, muovendosi verso la cassettiera con passo incerto –tese le mani per reggersi quasi ad ogni cosa, mentre il rollare della nave le dava un altro forte conato- quindi si mise ad aprire cassetti a caso, da quelli minuscoli che contenevano pastiglie di erbe a quelli più grandi pieni di cambi di biancheria e bende pulite su cui era poggiato un rametto di lavanda; non c’erano pietre d’onice, ma non se l’aspettava: quegli uomini erano troppo attenti per lasciarle un catalizzatore vicino.
Il mobile era ancorato al suolo ed alla parete così come, scoprì, anche la coppia di letti che occupavano la stanza, il comodino sul quale era poggiata la bacinella ed uno scrittoio privo di carte. La cabina era troppo in ordine perché qualcuno vi abitasse o la utilizzasse regolarmente, valutò Takrin, aprendo il cassetto giusto e prendendo i vestiti, che si tese davanti ed osservò con un’espressione sconcertata in volto. Un paio di lunghi calzoni di un cotone blu dall’aria consumata, una maglia bianca dello stesso materiale dalle maniche lunghe ed il collo basso ed un paio di stivali di cuoio nero, talmente usurati che Takrin ebbe paura che, indossandoli, le si sarebbero squarciati in mano. Riluttante, la jalil indossò ognuno di quei capi, un brivido di ribrezzo che le percorreva la pelle nonostante profumassero di pulito. La lanterna aveva dato in un guizzo e s’era spenta, così che Takrin, immersa nel buio che le era congegnale, osservò la botola nel pavimento prima di scostare la lampada con un calcio e d’aprire la porta.
Ebbe appena il tempo di registrare uno squarcio di legno, cordame e vele prima che la pelle le si incendiasse e gli occhi si riempissero di lacrime. Gridò, perché il dolore era più forte ogni secondo in cui il sole le colpiva la pelle sensibile, e serrando gli occhi si mosse a tentoni fino alla porta, meno di due passi indietro. La frescura protettiva e buia della stanza la accolse come l’abbraccio più caritatevole che avesse mai ricevuto, sanando in parte la ferita e lo shock. Sapeva che la luce le era fatale, ma non vi s’era mai esposta direttamente, senza protezione. La sua pelle doleva, arrossata, mentre sugli occhi era scesa una nebbia che persistette mentre scendeva le scale fino ad una stanza dalle tende caritatevolmente tirate, che non guardò, e poi ancora più giù, dove le era stato detto di andare. Sforzandosi sempre meno, mise a fuoco la stanza, una vasta camera da letto con un’intera parete coperta da tendaggi spessi dietro al letto a baldacchino, segno dell’attenzione alla sua natura drowish; su di una parete si apriva un grande armadio, che ad angolo continuava fin sopra la porta trasformandosi in una libreria chiusa da ante di vetro, oltre le quali file e file di volumi facevano bella mostra di sé. Sull’altro lato, un’ampia scrivania ingombra di carte, piume e calamai tappati e gettati alla rinfusa. Ai piedi del letto, un ampio baule mentre proprio dinnanzi alla porta, a quattro o cinque passi da questa un tavolo rotondo con tanto di centrini e sedie trattenute con una cinghia faceva bella mostra di sé: come nella cabina in cui si era risvegliata, anche qui tutto tranne le sedie ed il baule era inchiodato al suolo od al muro.
Takrin si mosse verso il tavolo rotondo poi si fermò, volgendosi verso la scrivania e sedendosi sul bordo della panca fissa, troppo minuta per potersi mettere comoda; velocemente afferrò un calamaio, vi intinse una piuma e chiuse gli occhi, concentrandosi su qualcosa per almeno due minuti prima di scrivere freneticamente nella sua lingua madre ed in una lingua strana, fatta di simboli arcani. Quindi riaprì gli occhi, soffiò sull’inchiostro finché non fu asciutto e poi lo ripiegò, infilandoselo in tasca.
Sapeva che la magia è cosa strana, frutto di studio e lavoro ma tuttavia sfuggevole, così maestosa e vasta che necessita di un ripasso costante per non essere cancellata dalla mente, troppo semplice per Lei: era questo lo scopo dei Grimori, ricordare e trasmettere; ma Takrin aveva lasciato il suo all’Accademia, ed aveva bisogno di ricordare almeno questo.
Si era seduta da appena qualche istante quando la porta della cabina si aprì, costringendola a distogliere lo sguardo dalla luce prepotente della giornata di sole.
«Non è bello far aspettare una femmina, lo sapere?» esordì Takrin ,quando l’uomo si chiuse la porta alle spalle.
«Specie se la femmina siete voi, immagino. Ma è anche vero che il Capitano può permettersi molti lussi, soprattutto se di un galeone come questo, non trovate, ragazza?» disse Rigel, con quella sua voce calma e perentoria «Lasciate stare. Con voi non serve essere diretti, ma sottili. Siryo vi ha dato un comando semplice e diretto e voi non l’avete eseguito, e ne state pagando lo scotto» e senza preavviso allungò una di quelle sue grandi mani a toccare il volto di Takrin in una carezza un po’ troppo forte, che riverberò sulla sua pelle infiammata e dolorante «il mio cuoco vi ha vista scottarvi al sole. Stupido, e ve l’avremmo risparmiato, come potete ben vedere. Siamo stati fin troppo cortesi con voi, ragazzina, ed ora mi domando se sia questo che meritiate» disse, dando un altro colpo lieve sulla guancia della jalil «o questo.» e ritrasse la mano, indicando l’aria ed i tendaggi che coprivano la finestra, poi «Qualunque cosa sia, state certa che quando la vostra ferita si sarà rimarginata, non avrete sconti. Qui bisogna lavorare per vivere, ed io esigo che ognuno si guadagni il pasto che consuma. Dunque, sarò franco.
«Vedo due scelte per voi, e la mia ultima cortesia sarà di farvi scegliere. La prima è quella per cui opterei, perché a mio parere vi si addice , e dubito che potreste essere usata per altri scopi: ebbene, abbiamo diverse basi commerciali ma un solo accampamento, in un sito che non vi è necessario conoscere ora. In tale luogo c’è una taverna che vanta la migliore… compagnia femminile che un marinaio possa desiderare. È lì che vi manderei a servire…»
«Vorresti fare di me una puttana, Rigel?» soffiò Takrin, serrando le mani al bordo del tavolo con uno schianto «Una schiava per il piacere dei tuoi sudici ed indegni marinai? Io sono una jalil nobile, per gli stramaledetti Dei caduti!»
«Frenate la lingua, ragazza. La vostra seconda possibilità è quella di servire come mozzo in questa nave, sotto il mio comando e controllo. Non potendo salire in coperta, servirete i pasti, controllerete i carichi, laverete i ponti di batteria e di stiva, rassetterete le cabine del Capitano e degli Ufficiali, l’infermeria e le camerate femminili, il tutto ogni giorno, sotto il comando del mio attendente e dei suoi due mozzi»
«Quindi o servetta o puttana. E la chiami una scelta, questa?» s’infiammò Takrin, aumentando la stretta sul legno.
«O scegliete o vi mando al bordello e, se vi ribellate, vi inchiodo davanti alla vostra bella Accademia e vi lascio ad attendere il sole completamente nuda. Avete il marchio, nessuno vi aiuterà. A voi la scelta, Ragazza» lo disse con calma, come se non gli importasse nulla né di lei né della sua sorte, e questo scosse Takrin molto più dell’immagine che Rigel aveva evocata. Ponderò la scelta, optando per la vita innanzitutto e per la fuga poi.
Se l’accampamento coincidesse col luogo in cui mi portarono dopo avermi catturata… ma se finisco nel bordello non mi lasceranno uscire, non si fideranno; il capitano mi farà scortare, e quanti maschi mi useranno prima che io possa avere anche solo una possibilità di fuga? Ma qui.. la nave salperà, e se non dovessi farcela prima di quella data, avrei un intero viaggio per conquistarmi la fiducia di tutti, in un modo o nell’altro. Ed una volta conquistata la loro stima, non sarà troppo difficile allontanarmi un po’… tutto questo, Takrin lo pensò nel giro di pochissimi secondi, prima di rispondere con voce svogliata.
«Servetta» scelse, iniziando a recitare la sua parte.
«Perfetto. Mastro Lokks vi insegnerà quello che dovete sapere sulla nave, ed il rispetto… bene, agli ufficiali ed in generale a chi vi è superiore dovete il “voi”; a me, al Mastro Carpentiere, ai miei figli, al Mastro Artigliere ed al Capocuoco dovete il titolo di “signore”, seguito se lo volete dal titolo. La mancata ottemperanza di queste regole porta a una frustata. Tutto chiaro, ragazza?»
«Si. Signor Capitano»
«Ottimo. Qui siete un membro della ciurma, nonostante le vostre mansioni. Perciò è vostro diritto denunciare offese al Capitano. Vi prego di farlo solo in caso di reali offese, o sarete voi a pagarne lo scotto»
«Si. Signore»
«Ottimo. Potete attendere qui, manderò Mastro Lokks a prelevarvi. Buona giornata, mozzo»
«A voi, Capitano» disse Takrin, e lo guardò voltarsi e lasciare la stanza con un misto di esultanza e piacere: aveva un piano, e recitare non le sarebbe stato difficile.
Era un’artista.
 
Passò l’intera giornata imparando a distinguere l’albero maestro da quello di mezzanella, a memorizzare cosa fossero una coffa, un bompresso e delle sentine; a ripetere i nomi di corde e travi e vele; a distinguere i vari ponti dai castelli e casseri. A sera, era stremata, le mani fra i capelli lattescenti e la testa china su di un foglio di carta con il disegno della nave e delle didascalie esplicative, certa solo di trovarsi nella camerata femminile, sul castello di prua, una stanza modesta con uno scrittoio da un lato ed un armadio dall’altro della porta, due letti a castello e quattro bauli. Le sue due compagne di stanza, entrambe umane, dormivano placidamente: Takrin non aveva rivolta loro la parola, limitandosi ad osservarle con apparente disinteresse per poi tornare ai suoi studi, lanciando appena un’occhiata distratta alla sua cuccetta, nel materasso della quale aveva infilato il pezzo di carta prelevato dalla cabina del Capitano.
Per l’intera notte era andata avanti a leggere, gli occhi incollati al foglio e la mente lontana, immersa in un complicato piano di fuga, certa che l’Accademia non avrebbe voluto altro che riaverla. Così, la campana dell’alba la sorprese ancora china, la testa poggiata mollemente alle mani scure.
«Non hai dormito?» le chiese una delle donne, svegliandosi e guardandola con interesse fin troppo vivo per i gusti di Takrin, che volse piano il capo trattenendo a stento un gesto di stizza e fastidio.
«Umana, non sono debole e fragile come voi. Sono una jalil nobile, ed ilo mio corpo è superiore al vostro. Non ho bisogno di dormire quanto voi» borbottò, squadrando la ragazza umana; era giovane, rossa di capelli e spigolosa, ancora acerba e nervosa; aveva il naso storto, come se fosse stato rotto, ed indossava un camicione di tela grezza, bianco. Una ragazza nel complesso comune, banale, la giudicò Takrin, non una minaccia.
«Ah… ok. Lara, in ogni caso» si presentò la ragazza, con un sorriso che le mise in mostra una fila di denti irregolari «e lei è Sashe» disse, indicando l’altra, una donna bruna la cui bellezza, nonostante gli anni, risplendeva di vitalità e forza, già vestita ed in fremente attività.
Takrin si limitò al continuare a fissare il volto lentigginoso di Lara che, a disagio, si stiracchiò in un concerto di scricchiolii di ossa, prima di tornare all’attacco.
«Sei la nuova, vero? Si, insomma, devi esserlo, visto che non ti abbiamo mai… »
«Lara, taci. Non vuole parlarti, è palese. Lasciala stare, prima o poi si piegherà. Vatti a vestire, o Lokks ti punirà di nuovo» s’intromise quella chiamata Sashe, afferrando per la lunga camicia da notte Lara e spingendola indietro con un gesto bonario ma deciso, prima di piazzarsi davanti a Takrin, vicinissima al suo viso «E tu, jalil nobile» disse con un sogghigno troppo simile ad una smorfia «ti hanno onorata di un posto sulla Zephiro, è vero, ma sei l’ultima arrivata, ed una bastarda del Giorno per giunta. Se vuoi sopravvivere, levati di dosso quell’aria superiore, prima di farti male. E tratta con più rispetto Lara in primis e la ciurma poi»
«Perché non torni ai tuoi compiti da sguattera e lasci me in pace, umana?» rispose Takrin, aprendo le labbra in un sorriso pieno e palesemente falso.
«Lokks ti aspetta sottocoperta, jalil. Quelle scale lì» con un cenno del capo, indicò una botola quasi addossata alla parete destra «Lara, buona giornata. Passa da me dopo il mezzogiorno, anticipiamo la lezione. In fondo, hai lei ora a sostituirti, no?» il suo tono era ammaliante, basso e con un accento di divertimento che fece assottigliare le labbra a Takrin.
Uscendo, Sashe si premurò di aprire l’intera porta alla luce cristallina del mattino, così che Takrin fu costretta a spostarsi ed alzarsi in piedi, dirigendosi suo malgrado verso Lara, che fece un sorriso incerto nella direzione della jalil.
«Sashe è una in gamba, vedrai, bisogna solo saperla prendere» si scusò «non parlare a quel modo, comunque. È il Mastro Carpentiere di questa nave»
«Ed istruisce te?» incredula, Takrin sollevò un sopracciglio, le braccia che si incrociavano al petto.
«Si. Imparo a far di calcolo ed a conoscere i vari materiali. Bhe, è mia madre, e sa che sono brava, anche se non sembra. Non mi avrebbe scelta, sennò» disse Lara, arrossendo e distogliendo gli occhi dalla faccia carica di incredulità di Takrin.
«Dovrò scusarmi, immagino» commentò infine la jalil, arricciando il naso e stringendo i pugni; no, non era il tipo da piegarsi così facilmente.
«Oh non farlo, si accorgerebbe che menti, non è una donna stupida. Dimostrale che lavori bene, impara a portarle rispetto. Nessuno di noi è malvagio, nonostante quello che vi dicono nel giorno; e credimi, sono sicura che ti troverai bene sulla Zephiro»
«Immagino»
«Allora via, tieni quell’aria scontrosa se vuoi, però fai una prova. Avanti» Lare tese la mano, ora più sicura «Io sono Lara. Piacere»
È una bambina ancora… Lolth1, innocente ed ingenua, pensò Takrin, e sorrise di rimando, ricacciando fuori le sue maniere migliori. D’ora in poi, sorridente e rispettosa, chissà che il prossimo pezzente che mi torvi davanti non sia un altro ufficiale, o suo figlio.
«Takrin Cryso» si presentò a sua volta, tendendo con appena un’indecisione la mano nera a stringere quella dorata dal sole di Lara, che parve riprendere tutta la sua giovialità, lanciandole l’ennesimo, stucchevole sorrisone e correndo a vestirsi mentre riprendeva a parlare.
«Lokks è duro, all’apparenza, ma è un brav’uomo. Lavora su questa nave da almeno sessant’anni, credo che abbia cominciato quando nacque il Capitano, perciò sa come vanno fatte le cose per finire in fretta e tornarsene a casa… lui, intendo. Noi di solito –io e Steno- dormiamo un po’, certo a meno che mia… Sashe non voglia insegnarmi. Comunque, non c’è molto da fare, in realtà. Prima di colazione si pulisce il ponte, poi si mangia e si rassetta il refettorio, quindi…»
 
In vita sua, Takrin non aveva mai lavorato tanto; arrivò a sera senza energie, con il petto e gli arti doloranti e talmente affamata che litigò con uno dei cuochi per avere un’altra porzione di quello stufato acquoso che servirono loro, per poi andare a dormire senza dire una parola, conscia che la mattina successiva tutto sarebbe ricominciato. E così fu.
Lokks, un tritone in forma umana dall’aspetto più arcigno che soave, impartiva ordini, dividendo la zona da rassettare in tre aree ed assegnando a Takrin, Lara e Steno –uno Yali2 dalla corta pelliccia color ruggine- ognuna di loro perché la pulissero totalmente, sotto la sua supervisione. Il primo giorno Takrin dovette fare turno doppio, sostituendo Lara secondo gli ordini del Mastro Sashe, mentre il secondo giorno Lokks le fece pulire da cima a fondo la cabina del capitano due volte, sicuro che la jalil non ci avesse messo l’impegno dovuto. Da parte sua, Takrin sorrise e lavorò, silenziosa e mite quanto lei stessa non avrebbe mai potuto immaginare d’essere, ingoiando orgoglio e risposte taglienti come fossero un veleno amaro che le restituiva energia invece che toglierla, caricandola; la prima notte, affacciandosi con la scusa della nausea –che ancora la tormentava- aveva dato un’occhiata al ponte di coperta, osservando che l’asse per scendere sul pontile non veniva ritirato di notte: questo le aveva fatto ben sperare, ed aspettava solo l’occasione propizia, che si presentò quella notte.
Erano passati quattro giorni da quando Takrin si era risvegliata nella casetta con Rigel ed i suoi figli, ed ormai il tempo alla fonda era agli sgoccioli: quella notte, rientrando in cabina, Takrin la trovò vuota: sapeva che il Capitano aveva indetto una riunione per stabilire la rotta, ma non credeva che Sashe potesse volersi portare Lara. Vorrà addestrarla alla vita da ufficiale, senza dubbio… pensò, sorridendo in quel suo modo peculiare e sincero –incurvando le labbra a destra, così che più che un sorriso sembrava un ghigno di impietoso divertimento. Non si diede più di un secondo di tempo per valutare la situazione prima di aprire la porta con la massima calma, una mano  premuta sulla bocca ed una sulla pancia, l’espressione di chi sia affetta da una nausea incontrollabile; non incontrò nessuno, sul ponte: lontane sulla spiaggia, le luci di un bivacco, il rumore di cavalli, mentre dal ponte di batteria veniva il suono inconfondibile degli ubriachi: musica e risate, qualche sporadico rutto, tintinnare di piatti e bicchieri. Takrin si arrampicò lungo l’asse, incerta, calandosi per quei pochi metri che la condussero al pontile, sul quale rimase ferma un istante prima di cominciare a percorrerlo lentamente, senza fretta, allo scopo di dare meno nell’occhio.
Sulla nave, qualcuno si sporse a osservare, oltre la murata di legno che correva attorno al ponte di coperta.
«Sei ancora convinto, Siryo?» sussurrò, distogliendo lo sguardo dalla jalil per portarlo verso una seconda figura, in piedi dietro l’albero di maestra.
«È il modo migliore per farle capire, anche nostro padre ne è convinto. Non si darà mai per vinta, è cocciuta e stupida, a suo modo. Deve scontrarsi con la realtà.»
«Potrebbero tenersela, carpire informazioni da lei, farsi guidare…»
«Oh, è indubbio che lo faranno, e sicuramente verranno a sapere di noi il minimo indispensabile, che è quello che lei conosce. Ma noi… quando tornerà qui, umiliata, senza speranza e sola, chissà cosa vorrà rivelarci»
«Non mi fido, fratello. Ma è la voce di nostro padre. Andiamo ad avvertirlo» disse l’elfo, prima di tendere una mano a Siryo, che l’aiutò a sollevarsi in piedi; un fascio di luce investì il ponte quando la porta della cabina venne aperta, e lontano un rumore di voci si sparse, prima che la porta inghiottisse di nuovo luminosità e parole.
Takrin non vide nulla.
 
Il pontile era una struttura in legno e pietra risalente all’Epoca degli Dei, maestosa ed ancora perfettamente funzionante: i piloni che sostenevano la travatura orizzontale erano stati scolpiti a foggia di creature marine, talmente dettagliate e sublimi che, si diceva, perfino il mare aveva attenuato la forza delle onde per non arrecare danno alle opere. Se anche così era stato, doveva aver cambiato idea: ora, solo contorni abbozzati e levigati erano rimasti, ma le colonne erano grandi e forti, piantate da Titani e giganti così a fondo che nessuna tempesta, neppure quella che aveva seguito lo scisma, era stata in grado di abbatterli.
Il porto si estendeva per un lungo braccio di mare così da permettere anche ai galeoni dal pescaggio più ampio di attraccarvi. Takrin lo percorse quasi per intero, la tensione che le si attaccava addosso come la salsedine del vento e, quando finalmente i suoi piedi abbandonarono il legno per il pavimento roccioso e poi la sabbia, la jalil si mise a correre a perdifiato, ancora ed ancora senza guardarsi indietro, senza contegno, scompostamente.
Una piccola foresta di pini cresceva al limitare esterno della spiaggia; poi un tratto di pianura, gli alberi sempre più radi man mano che i contorni maestosi degli edifici cittadini le si palesavano davanti.
Palazzi, villette, giardini curati, i vialoni lastricati che tante volte nella sua forma umana aveva percorso: passò dinnanzi al Palazzo degli Dei, sede del governo, quindi svoltò in un angolo superando l’Accademia Bianca e tagliando per quel vicolo in cui l’odore del cuoio spingeva a voltarsi verso la bottega di Centralque, la migliore conceria della città, e poi sul lungoFiume attraverso il Ponte di Mezzo ed infine lì, a casa.
L’Accademia Grigia.
 
Sevia era sveglia, china su un testo dall’aria fragile ed antica, una piuma accanto a lei che svolazzava a mezz’aria, scrivendo su di una pergamena spessa parole in una lingua arcana che la Grande le dettava con un sussurro basso, quasi inudibile. Lontano, un orologio lanciò un basso richiamo, seguito da altri tre, che echeggiarono nella notte della Città deserta. Sevia sospirò, perdendo la concentrazione, e la penna diede in un ultimo sbuffo a mezz’aria prima di piegarsi e cadere di lato; l’Ifrit non vi badò e si portò le mani curate e troppo grandi per una donna alle tempie, massaggiandosele: aveva passato l’intera giornata in conclave assieme ai Maestri, cercando di decidere una sorte per quegli idioti che avevano deciso di giocare con gli Elementali. Erano ancora privi di sensi, e tali Sevia sperava sarebbero rimasti per poco, giacché un’idea la stuzzicava da quando aveva ricevuto la notizia: un colpo di fortuna inaspettato, si era detta, mostrandosi invece irosa e contrita con gli altri Rettori, minacciando pene e rimangiandosi tutto poi, scadendo nel sentimentale; sapeva recitare ed otteneva sempre ciò che voleva: per questo s’era sentita tanto attratta da quella jalil da offrirle il posto di suo Successore: un titolo senza senso, per quello che la riguardava, ma la ragazza pareva ambiziosa e potente e, cosa di ancor più pregio, stupida e manovrabile. Ne avrebbe fatto l’assistente perfetta, se solo quell’idiota non si fosse fatta catturare…
Qualcuno urlava, picchiando contro una porta con foga; Sevia scattò in piedi, attraversando l’uscio in cerca della fonte del rumore, ma nel corridoio l’eco era quasi impercettibile: con un cipiglio sorpreso, fu verso la finestra che la Grande tornò, scostando le tende decorate e guardando in strada.
Lei era lì: la jalil, quella che sarebbe dovuta… no, quella che era persa; quella catturata.
La osservò bussare e gridare nella notte che le aprissero, per lunghi minuti prima che qualcuno bussasse delicatamente alla porta: fuori, una piccola folla si stava radunando, ma non vi badò perché il servitore aveva richiamata la sua attenzione.
«Grande Sevia, vengo da parte dei…»
«Dì a Dionio e Mar’ja che richiamino all’ordine i loro studenti. Dà ordine ai custodi di non aprire i cancelli finché non mi presenterò io alla porta principale» ordinò perentoria la Ifrit, scansando con un gesto imperioso l’interlocutore ed affacciandosi in corridoio «Voialtri, in camerata. Tu, umana… Cèlia, no? vai tra i Neutri e dì loro di non uscire. Chi troverò nei corridoi verrà buttato fuori. Sono stata chiara?»
La ragazza annuì, correndo a portare il messaggio; Sevia la seguì per un istante con lo sguardo, quindi si volse, chiudendosi la porta alle spalle, e tornò alla finestra.
 
L’alba colse Takrin di sorpresa, facendola arretrare fino al limite estremo dell’ombra; poi fu solo dolore, un fuoco lento e costante che le bruciava la pelle sensibili e gli occhi, facendola lacrimare e gridare di dolore.
Quando una Sevia vestita e sazia le aprì la porta, Takrin era raggomitolata su sé stessa, avvolta come a proteggersi dall’attacco del sole, gli occhi ciechi a tutto; non riconobbe la voce di chi diede l’ordine, né prestò attenzione alle parole: seppe solo che qualcuno la sollevava, trasportandola in un luogo senza sole e senza dolore, ma non osò aprire gli occhi per vedere chi fosse; e poi, a cosa le sarebbe servito?
I minuti scorrevano lenti e dolorosi, cosicché Takrin avrebbe potuto dire quanto esattamente fosse durato il suo viaggio fino alla sala buia piena di voci in cui venne lasciata, sperduta e senza parole per la prima volta.
«Lantanide» esordì qualcuno alla sua destra «Lantanide!» tuonò ancora, con quella sua voce saggia ed impietosa, maschile; e, suo malgrado, Takrin si voltò, cercando di mettere a fuoco qualcosa fra il grigio scuro che era il suo mondo.
«Takrin» disse un’altra voce, femminile solo in parte «fu questo il tuo nome, vero? Fosti Arcimaga un…»
«Non ti è permesso di parlarne!» tuonò qualcuno, ma Takrin era tutta protesa verso quella seconda voce: l’aveva riconosciuta, l’avrebbe salvata.
«Io so cosa mi è permesso, o hai dimenticato chi sono? Taci e vattene, se devi interrompermi» tuonò quella voce bassa e profonda. Sevia.
«Non ti interromperà più, mia cara. Ora, continuiamo» riprese una voce evanescente, acquea.
«Takrin. Sappiamo chi sei stata, e cosa t’è capitato; non temere, avrai quello che ti spetta, ma prima abbiamo bisogno di sapere. Chi ti ha catturata, dove eri tenuta nascosta?»
«Un… marinai. Al Porto degli Dei» disse Takrin, la voce bassa e rauca per il troppo gridare, la gola in fiamme «Acqua» mormorò poi, supplichevole.
«Dopo, mia cara. Adesso devi dirci quali sono le loro forze. Quanti erano? Il loro equipaggiamento? Le razze, lo scopo, i piani?»
«Non so, pochi, ma non ho visti.. non… non so. Elfi, umani, tritoni.. come noi, vari. E… pulivo i pavimenti e… acqua, vi prego» disse Takrin, voltando la testa attorno, come cercando il sostegno delle figure che le erano invisibili.
«Dopo. Rispondi ora» Sevia, implacabile, continuò.
«Non… non lo so. Non so altro!» soffiò Takrin, avvolgendo le mani sulla pelle nuda delle braccia, indifferente al dolore «Acqua, vi prego»
«Parlaci di loro e l’avrai» concluse Sevia, con un sorriso.
«Hai detto.. mi hai detto che avrei avuto quel che mi spettava. Sono un’Arcimaga, maledizione! Datemi dell’acqua!»
«Avrai tutto quel che ti ho promesso quando ti avremo spogliata del tuo.. essere Lantanide. Espia la tua colpa e poi tornerai a casa. Vuoi provarci? Ci dirai tutto?» Sevia aveva un tono sereno, quello che avrebbe usato con una bambinetta viziata.
«Va bene, tutto, quello che volete…» disse Takrin , e cominciò. Narrò del vicolo, di Cèlia e delle moto, del sogno, della stanza, dell’uomo e dell’elfo; di Rigel e della nave, dei ponti, della cabina e delle sartie; della fuga e della corsa. Ad un certo punto, qualcuno bussò e Takrin dovette interrompersi, lasciando che gli astanti confabulassero tra loro, senza prestare attenzione alle parole che pronunciarono, poi riprese; e Impiegò un tempo lungo, fra pause e colpi di tosse, la voce sempre più bassa man mano che la gola terminava di asciugarsi, gli occhi che perdevano via via la patina opaca, rendendole nitidi i contorni ed i colori.
Quando non ebbe più voce, lasciò il silenzio ad allungarsi per qualche secondo, poi Sevia prese la parola.
«È tutto, dunque?» Takrin annuì «Bene. Signori, propongo di concludere l’altra questione prima di ritirarci. In quanto a te, Lantanide» il cuore di Takrin perse un colpo a quell’appellativo, trattendno il fiato con un rumore basso, simile ad un fischio, ma Sevia non vi badò e bussò alla porta, facendo un cenno veloce a qualcuno che entrò con solerzia ed impartendo ordini a bassa voce; qualcheduno lasciò la stanza, due figure presero la jalil, sollevandola da sotto le ascelle e reggendone il peso quasi senza sforzo «sarai confinata nei sotterranei in attesa della notte. Come premio per aver collaborato, sarai giudicata domattina da una giuria di Attinidi per il tuo crimine. Ti è chiaro, Lantanide?»
Takrin sollevò il mento e sputò in direzione della figura di Sevia che, assieme al Centauro bianco ed alla Cecaelia Nera, rimase a guardarla mentre veniva portata via.
Fuori, lungo i corridoi deserti e poi giù per una rampa di scale tanto, troppo familiare: incrociarono un servitore che sosteneva un’aquila barcollante, poi la luce dell’ingresso, le scale e l’oscurità della stanza, un raspare di chiavi, il silenzio.
Respirando velocemente, Takrin costrinse sé stessa a pensare con lucidità. Era mattina, e quante ore sono passate? Domattina… ho la notte, e posso… potrei… il mio crimine! Sapeva qual’era la legge in merito: ogni Lantanide, punibile per essere tale, era condannato a morte. La giuria era sono un proforma, una pagliacciata allo scopo di fingere equità e giustizia. L’avrebbero condannata, lo sapeva con lampante certezza. Io non l’ho mai voluto! Mi hanno presa, come possono non capirlo?
Takrin si scosse, respirò, socchiuse gli occhi: era in una stanza da letto apparentemente vuota, senza finestre se non una feritoia per l’aria, troppo piccola perché potesse passarvi in mezzo; alzandosi, barcollò incerta fino alla porta, saggiandone la maniglia un paio di volte prima di arrendersi e stendersi sul letto, infelice.
Passò del tempo e qualcuno aprì la porta: un servitore, che le depose accanto qualcosa che sapeva di cibo caldo e che Takrin divorò, nonostante ogni boccone le graffiasse la gola, facendole salire piccoli conati; la bocca sporca di insipido sugo, bevve, usò le coperte morbide per pulirsi quindi si volse alla finestra, valutandone la luce; chiuse gli occhi, cercando di ascoltare rumori lontani; abbassò lo sguardo al giaciglio e poi al pasto, sorrise, si mosse e quand’ebbe finito si stese sulla branda, in attesa.
 
Il tramonto tingeva di rosso il vetro della finestra quando la porta grattò di nuovo, aprendosi per lasciare passare la figura dello stesso servitore, con un vassoio fra le mani. Takrin lo attendeva stesa su di un fianco, completamente nuda ed immobile, gli occhi chiusi a metà e fissi. L’uomo trattenne il fiato prima di avvicinarsi con calma, gli occhi spalancati fissi sulla macchia rossa che dal petto della ragazza aveva lordato le lenzuola; e non volendo spostò lo sguardo, indugiando un secondo di troppo sui seni della jalil e oltre, più giù, con una smorfia d’orrore e lussuria in volto. Le si avvicinò cauto, il vassoio ancora fra le mani stretto come un’ancora di salvataggio, e Takrin attese finché l’umano non le fu a portata, chinato su d’ella a controllare se fosse o meno sangue quello, quindi la jalil allungò una delle mani chiusa a colpire la virilità del servitore, che si accasciò a terra. Veloce quanto la sua razza e la disperazione potevano permetterle, Takrin si alzò, accanendosi contro la parte già dolorante del suo avversario finché questi non fu ridotto al silenzio, piegato e dolorante; incurante di tutto, Takrin si chinò a cercare la chiavi, afferrò i vestiti ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Il corridoio era silenzioso, segno che le grida del servitore non avevano suscitato allarme; Takrin si rivestì, quindi corse  verso l’ingresso, oltre il quale il sole era meno di un pallido ricordo: evitò la porta, infilandosi in una delle grandi sale al pianterreno e, prima che qualcuno degli ignari presenti potesse reagire, si era lanciata contro la grande vetrata che dava sulla strada, atterrando con malagrazia fra i vetri e rialzandosi per correre via, zoppicante, ferita ed incerta.
Nessuno la seguì.
La Notte riprendeva possesso della Città, stendendo i suoi domini carichi di motori ed acciaio, che già riverberavano nell’ombra, in lontananza.
Qualcuno arrivava, ma erano amici.
Lantanidi, come lei.
 




1Lolth, la Regina Demone dei Ragni, è la dea matrona degli elfi Drow. È anche conosciuta come la Regina Ragno.
 
2creature della mitologia indiana, raffigurate con un elegante corpo felino, la testa di un leone, le zanne di un elefante e la coda di un serpente. Cavalcano i Makara  (creatura acquatica, a volte identificato con il coccodrillo, a volte col delfino; in astrologia è il segno del Capricorno); qui intesi come semi-umani aventi corpo felino, peli sulle mani e lungo gli avambracci, sui piedi e lungo le gambe. Possono mutare la conformazione ossea delle gambe per camminare a quattro zampe (come i felini); i capelli sono simili alla criniera del leone, le zanne sono un'escrescenza ossea che esce un poco dai polsi per rientrare nella carne ed ai lati del collo. Sono sprovvisti della coda da serpente, che viene asportata dopo la nascita per rispondere ai canoni di bellezza.
 
Piccolo spazio-me: ok, questo capitolo è stato una piccola tragedia: scritto, cancellato, riscritto, riadattato, concluso. È molto lungo per gli standard che mi ero imposta, ma non potevo fare altrimenti.
Per chi fosse -come me quando iniziai a scrivere- digiuno di termini nautici, ho preparato QUESTA che spero possa essere un modo facile per orientarvi. Non userò molte terminologie tecniche, non sono abbastanza esperta, ma questa è la base. Non inserisco i credits perchè l'immagine di base non ricordo dove l'ho trovata, ma in ogni caso l'ho modificata quasi interamente io, aggiungendo didascalie e spiegazioni. Spero siano utile, chiara e sopratutto giusta: mi sono documentata in ben tre siti diversi, ma se qualcuno dovesse riscontrare qualche errore, segnalatemelo e vedrò di sistemare :)

Inoltre, non garantisco di riuscire ad aggiornare ogni settimana, ora che gli impegni universitari sono aumentati; perciò, in linea di massima comunico che l’aggiornamento sarà ogni due settimana, ma non sono tassativa: perciò chi segue la storia di un’occhiata comunque il LUNEDÌ, perché potrei aggiornare anche a distanza di una settimana. Dipende, non posso assicurare la precisione, solo che avrete la storia di lunedì :) conto di non metterci mai più di due settimane per aggiornare, ed in ogni caso il mio obiettivo sarà di farlo ogni settimana.
Detto questo… soddisfatti? Spero di si :)
Come al solito, critiche ed appunti sono sempre accettati (neanche i complimenti dispiacciono, ovviamente!)
Buona continuazione!
  
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