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Autore: Blackmoody    26/06/2006    8 recensioni
Imprecò di nuovo dentro di sé contro le nuvole che lo sovrastavano, rovesciandogli addosso la loro ira. E lui, a sua volta, covava una rabbia cieca contro di esse. Odiava la pioggia, quelle implacabili stille d’acqua che cadevano senza quasi far rumore. Erano piccole, leggere e letali, come proiettili. E il ragazzo le detestava con forza.
In una Tokyo "senza sole" – e forse senza speranza – s'intrecciano e scontrano quattro vite, quattro storie d'amore, morte e vendetta.
Enjoy the danger.
| incompiuta |
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Cho Hakkai, Genjo Sanzo Hoshi, Sha Gojio, Son Goku
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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The LOST

Life Of  Sunsheltered Tokyo

 

 

 

 

 

 

O1. Kiss The Rain

 

 

 

“Che la pioggia sia dannata”.

Con un gesto di stizza, il ragazzo si tolse un ciuffo di capelli biondi dalla fronte: era bagnato fradicio, e aveva ancora una buona mezz’ora di cammino prima di poter arrivare a quella che era la sua destinazione. Imprecò di nuovo dentro di sé contro le nuvole che lo sovrastavano, rovesciandogli addosso la loro ira. E lui, a sua volta, covava una rabbia cieca contro di esse. Odiava la pioggia, quelle implacabili stille d’acqua che cadevano senza quasi far rumore; le stesse indifferenti stille che avevano assistito assieme a lui, in una notte di due anni prima, alla morte di suo padre. Erano piccole, leggere e letali, come proiettili. E il ragazzo le detestava con forza.

Una macchina, passando lungo la strada, sollevò uno spruzzo da una grossa pozzanghera, e lui fu costretto a ritrarsi contro uno dei piloni del ponte sotto il quale si accingeva a transitare, onde evitare di ricevere una doccia sporca e fuori programma: - Merda! Almeno fai attenzione ai pedoni, stronzo – borbottò tra i denti.

Avanzò di qualche passo, e si bloccò. Aveva intravisto, poco più avanti, la sagoma di quella che sembrava una persona accovacciata contro un pilone, una figura minuta e immobile, silenziosa. Lo era a tal punto che lo incuriosì, e il ragazzo le andò incontro, godendo al contempo del riparo che gli offriva il largo ponte.

Non c’era molta luce, lì sotto, ma capì subito che si trattava di un moccioso più giovane di lui, che sedeva per terra con le ginocchia piegate contro il petto e la testa reclinata sulle braccia sottili, con indosso soltanto un paio di jeans e un maglioncino leggero, come se fosse scappato di casa in fretta e furia. Si avvicinò ancora, credendo che l’altro stesse dormendo o fosse, addirittura, svenuto. Dovette ricredersi nel giro di un istante, poiché non appena sentì i suoi passi il bambino alzò il capo e lo guardò dritto negli occhi. Il ragazzo sussultò quasi: il viso del moccioso era pallido, e il mondo che li circondava era grigio e piovoso, eppure le iridi che lo fissavano erano calde e luminose, ambrate e grandi, benchè seminascoste da ciocche di capelli castani impastati di gocce.

Il bambino tirò su col naso: - Chi sei? – domandò. Aveva una voce incredibilmente tranquilla.

- Soltanto uno che passava per caso – rispose il ragazzo, asciutto – E tu? Non dovresti essere a casa tua? -

Che osservazione idiota, gli venne da pensare subito dopo.

- Non credo di avere più una casa – disse l’altro scuotendo le spalle esili.

- E non hai nessun altro da cui andare? -

Il ragazzino fece un cenno di diniego, senza smettere di guardarlo. Il biondo gettò un’occhiata attorno a sé: non c’era nessuno oltre a loro, lì, non transitavano nemmeno più macchine, e la pioggia continuava a scendere. Gli importava il giusto della sorte di quel moccioso, però non gli piaceva l’idea di abbandonarlo lì, non dopo averci parlato, seppur il minimo indispensabile. Non s’interessava più al prossimo, lui, ma fregarsene di questo bambino gli sembrava un crimine, un affronto verso gli occhi dorati con cui seguitava ad osservarlo.

- Quanti anni hai? – lo apostrofò di nuovo.

Quello gli sorrise timido: - Dieci. Li ho compiuti il cinque di questo mese –

- Non m’importa sapere quando sei nato – tagliò corto il ragazzo.

- E tu, invece? -

- Quindici – rispose sbrigativo. Poi gli tese, abbastanza riluttante, una mano: - Dai, alzati di lì -

Il bambino lo fissò stupito per un attimo, e infine afferrò la mano che l’altro gli aveva offerto; la sua era umida di pioggia e terriccio, e nonostante tutto tiepida. Si rimise in piedi e sorrise per la seconda volta:

- Io mi chiamo Goku. Son Goku – rivelò con una certa infantile, immotivata e gradevole soddisfazione.

Il biondo ritrasse la mano: - Hoshi Sanzo. Adesso seguimi – concluse, voltandosi per proseguire il cammino.

Goku non ribattè, si limitò ad obbedire, e gli tenne dietro con passo svelto. Forse era sconsiderato fidarsi così di una persona appena conosciuta, soprattutto nella situazione in cui si trovava, ma c’era qualcosa in quel ragazzo dai capelli chiari e lo sguardo di ametista amara che lo attirava e confortava.

Perciò si avviarono assieme lungo la strada deserta e battuta senza sosta dalla pioggia d’aprile.

 

 

La casa di Makoto Uehara, l’unico parente di Sanzo ancora in vita e amico di lunga data del suo defunto padre, si confondeva tra decine di altre abitazioni simili in un quartiere di periferia di Tokyo, una zona che, nei giorni di sole, si poteva considerare accogliente. Nei pomeriggi cupi, invece, incuteva una specie di soggezione: era immersa nel silenzio, con le vie strette rese meno plumbee dalle poche luci che filtravano dalle finestre e le case semplici, alcune tristi e vecchie.

Quella verso cui si diresse il biondino, per lo meno, era tra le migliori. Goku lo seguì fin sotto la veranda, e lo tirò piano per un lembo della camicia bagnata: - Perché mi hai portato qui? –

- Perché queste persone potranno tenerti con loro. È brava gente – spiegò Sanzo, sempre in tono piatto.

Il bambino sporse un po’ il labbro inferiore a mo’ di broncio: - Io vorrei restare con te – si azzardò a dire.

Il ragazzo fu costretto a reprimere una risata sarcastica. Si era bevuto il cervello, quel moccioso?

- Non mi conosci nemmeno, vedi di non sparare cavolate – lo freddò. Avvertiva un vago imbarazzo.

Goku gli lasciò andare il lembo di camicia: - Lo so che ti conosco da pochissimo. Però mi piacerebbe tanto –

Sanzo si chinò su di lui, cercando di apparire il più autoritario e ragionevole possibile:

- Ascoltami bene. Io non posso tenerti con me. Prima di tutto non mi pare una cosa sensata, e inoltre ho solo cinque anni più di te e non ho più una vera famiglia. Vivo alla giornata. Credi che potrei accollarmi una responsabilità del genere, cioè accudire un moccioso come te? Non posso, punto e basta -

Si girò senza aggiungere altro e suonò il campanello, mentre Goku sorrideva senza farsi vedere. Perché Sanzo aveva detto “non posso”, e non “non voglio”. Era una magra consolazione, ma gli fece piacere.

Attesero una manciata di secondi, e infine la porta si aprì, e un uomo piuttosto anziano comparve sulla soglia, avvolto in un tradizionale kimono da casa: - Sanzo? Come mai sei qui, oggi? – si stupì nel vederselo di fronte.

- Ho un problema, Uehara-san – esordì il ragazzo, scostandosi per indicargli Goku.

Makoto lo squadrò da capo a piedi, assorto, e annuì con fare grave: - Sarà meglio che entriate – commentò, facendosi da parte perché si mettessero al riparo nell’ingresso. Prima di chiudere la porta, però, guardò fuori a destra e a sinistra, come per accertarsi, per chissà quale motivo, che nessuno li avesse seguiti.

L’abitazione degli Uehara era senza pretese, e confortevole. Goku dette un’occhiata in giro con espressione quasi avida, non come se non avesse mai messo piede in un luogo accogliente, bensì come se fosse felice di trovarsi di nuovo in un ambiente che lo rendeva sereno; Sanzo, intanto, cercava di asciugarsi come poteva.

- Venite, venite, non statevene lì impalati – li esortò Makoto, invitandoli a seguirlo nel soggiorno – Non mi aspettavo una tua visita, ragazzo mio, credevo tu avessi ancora qualche commissione da sbrigare -

- Le ho infatti – confermò il biondo – Ma ci penserò più tardi. Non se la prenderanno -

L’uomo gli rivolse un sorriso senza allegria: - No, per adesso non se la prenderanno – mormorò. Si sedette su un vecchio divano e prese in mano una tazza di tè che doveva aver abbandonato per andare ad aprire la porta.

Sanzo si accomodò su una poltrona e Goku, temendo di sporcare la stoffa, si inginocchiò docilmente sul tatami, notando quanto fosse strano vedere mobili in stile occidentale in una stanza tipicamente giapponese.

- Veniamo al tuo problema, Sanzo – tornò a dire Makoto – Chi è questo bambino? -

- Non lo so. L’ho trovato sotto al ponte della Yamanote mentre venivo in qua. Si chiama Son Goku -

Nell’udire il nome, il volto dell’uomo parve adombrarsi, o rattristarsi, ma fu questione di poco. Sanzo, comunque, pur notandolo, fece finta di niente e proseguì: - Vorrei che lo tenessi con te –

Makoto e Goku si guardarono, poi il primo tornò a rivolgersi al biondino: - Ne sei sicuro? Per me va bene, e penso che mia moglie sarà d’accordo… del resto, sai che i nostri figli ormai stanno altrove, ci farebbe piacere… ma voglio dire, non è che preferiresti restare con lui? – indagò, cauto. Il bambino sospirò, speranzoso.

- Preferisco che stia con voi – ripetè Sanzo – Con me correrebbe più pericoli, e io non voglio grane -

L’uomo si sporse in avanti, preoccupato: - Pericoli? Che genere di lavori ti stanno già facendo fare? –

Il ragazzo alzò le spalle: - Non ho ancora ucciso nessuno, se è questo che vuoi sapere. Mi usano come spia, se serve, e soprattutto devo portare notizie e messaggi. Non mi piace lavorare per quell’italiano, però devo pur guadagnarmi da vivere – rispose senza scomporsi e guardando i vetri colanti d’acqua.

Makoto parve rincuorato e si riappoggiò allo schienale del divano, mandando giù un lungo sorso di tè. Goku non si azzardò a parlare. Quel signore gli stava simpatico e la paura provata prima di vedere Sanzo si era ridotta ad un pessimo ricordo, eppure avrebbe voluto lo stesso che il biondo lo tenesse con sé. Se qualcuno gliene avesse chiesto il motivo non avrebbe saputo spiegarlo, solo dire che “sentiva” che era così.

- Lo affido a te, dunque – sentenziò Sanzo, alzandosi in piedi. Doveva andarsene o avrebbe tardato.

- Puoi fidarti di me, ragazzo mio – lo rassicurò Makoto con un sorriso paterno – E anche tu, piccolo, stai tranquillo. Sono un vecchio burbero ma ho un cuore d’oro, garantito – disse con una strizzata d’occhio.

Goku ricambiò il sorriso: - Grazie, Uehara-san – mormorò. L’uomo lo guardò nuovamente con velata preoccupazione, seguendo un pensiero suo, e di nuovo non aggiunse altro.

Poi, annunciando che andava a telefonare alla moglie per avvertirla, si spostò verso la cucina, lasciandoli soli nel salotto. Per un po’ i due ragazzi non fiatarono, il silenzio che ticchettava di gocce ed orologi, e fu Sanzo a riprendere la parola per primo: - Ti troverai bene –

Goku mugolò per non sbilanciarsi: - Ti ringrazio – fece, a mezza voce. Appariva così fragile…

Sanzo chiuse gli occhi un momento, concentrandosi sulla propria parte fredda e razionale per non rischiare di venirsene fuori con frasi inopportune, ma era pur sempre un quindicenne che iniziava soltanto allora ad acquisire il cinismo necessario per resistere nel mondo cui apparteneva e non riuscì a comportarsi con l’indifferenza che si era augurato. Pertanto, s’inginocchiò di fronte al bambino e gli posò una mano su una spalla:

- Non potevo fare altrimenti – ribadì – Un giorno però tornerò, te lo prometto -

Goku incatenò per la seconda volta il proprio sguardo di ambra ardente a quello violetto e inquieto del biondino:

- Me lo prometti? Sul serio? Ti rivedrò? – chiese, incredulo.

- Tornerò a trovarti, sì. Prima o poi potrò farlo – confermò Sanzo, e si rialzò.

Il ragazzino lo sentì muoversi per raggiungere Uehara-san, nella stanza accanto, e li udì conversare piano, ma non capì bene quello che si dicevano e ricominciò quindi a curiosare con discrezione.

Il biondo, invece, scambiò le ultime parole di convenienza con Makoto, raccomandandosi di badare al moccioso e di salutare Ayako-san, sua moglie. L’uomo garantì che non lo avrebbe deluso.

- Sanzo – lo richiamò quando questi fece per dirigersi all’ingresso. Il ragazzo si voltò.

- Cosa c’è? -

- Abbi cura di te stesso. Sopravvivere in un mondo come il nostro, soggetto alle regole del clan, non è semplice. Sono certo che tu te ne sia già accorto, ma ti prego di una cosa sola. Non svendere il tuo cuore. Oh, sì – aggiunse, notando la smorfia di Sanzo – so che pretendi di non “averne” già più, e sai anche che non è vero. Puoi celarlo, serrarlo, soffocarlo, ma il tuo cuore t’inseguirà sempre. Qualunque ruolo ti affibbieranno in futuro, non gettarlo mai via. Tuo padre non lo vorrebbe, ed io nemmeno -

L’altro distolse lo sguardo, con aria vagamente e volutamente sprezzante: - Non ti capisco, Uehara-san –

L’uomo sorrise e agitò una mano: - Abbi cura di te stesso – ripetè – Arrivederci, Sanzo –

Questi chinò appena il capo e salutò a sua volta. Si rinfilò le scarpe umide ed uscì senza voltarsi indietro, ma una volta fuori gettò un’occhiata verso le finestre del soggiorno, intravedendo attraverso le tende la sagoma esile di Son Goku camminare lentamente per la stanza. Chissà se Makoto sapeva qualcosa su di lui… a giudicare dall’espressione che ad un certo punto aveva assunto, avrebbe giurato di sì.

“Che m’importa, in fondo?” si chiese all’improvviso.

Girò la schiena e si avviò giù per la strada, riprendendo ad imprecare mentalmente contro la pioggia d’aprile che sembrava penetrargli nelle ossa e nei pensieri al pari di quel paio d’occhi ambrati che, come non troppo tardi si sarebbe reso conto, lo avevano inconsciamente stregato.

Ma allora, certo, non poteva saperlo.

 

 

 

٭ First Chapter Ends ٭

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

ed ecco la tanto pubblicizzata nuova storia con i ‘Saiyukian’ come protagonisti ancora una volta. E ancora una volta, in un’ambientazione AU… me ne scuso con quanti preferiscono lo scenario classico, ma avevo un bisogno impellente di buttarmi in questo (ennesimo ^^’’) lavoro e non ho saputo (né voluto) trattenermi!

Come primo capitolo non è particolarmente lungo e, forse, ancora abbastanza ermetico, però garantisco che già dal prossimo spiegherò meglio svariate cose: cosa intendo con ‘clan’ (ma l’avrete capito, credo, sebbene non sia sicura che in Giappone usino lo stesso nostro termine), chi è “l’italiano” cui accenna Sanzo… Per i dubbi di Makoto-san, invece, dovrete attendere.

In ogni caso, che ne pensate? Spero davvero che vi piaccia e che continuerete a leggere… ne sarei contenta ^_-

Qualche curiosità: ho scritto questo capitolo tutto in una volta, in un paio d’ore, e adesso sono le 3 e un quarto di notte… ma si sa, il sabato sera è lecito fare queste pazziate, anche se si è appena tornati da una consueta uscita con la propria combriccola XP; ho lavorato col sottofondo musicale (immancabile ) delle colonne sonore dell’ Ultimo Samurai e di V for Vendetta, mentre al momento concludo sulle note di Ordinary World dei Duran Duran (rilassiamoci… *-*).

Il titolo del capitolo è ripreso dall’omonima canzone Kiss the rain, ma non ricordo di chi è… perdono!!

Grazie per aver letto fin qui. Alla prossima “puntata”, mi raccomando!

See you soon and go to the West! yours BlackMoody ~

 

Ps: tenete d’occhio la mia pagina di DeviantArt [ http://blackmoody.deviantart.com ].

I disegni a tema non mancheranno, e non mancano già adesso ^_-

 

 

 

 

 

 

 

  
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