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Autore: Nadir de Orpheus    05/11/2011    1 recensioni
Ricordo. E non ha significato dire che la ricordo, ora che lei è distesa accanto a me –una mano posata sull’onda dei capelli sparsi sul cemento. Sparsi sul suo viso sottile, e sparsi come sul mio cuore. Lo sento rallentare. Venisse il sonno. Venisse l’oblio, ora che scende la sera.
Voglio ricordare di lei ancora una volta, mentre le guardo le ciglia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IV
The Connection.


 

Come se fosse un filo trasparente.
L’avevo sentito, nei giorni prima, quando avevo iniziato a cercarla –ma subito l’avevo perso. Era come se non facesse parte di questo mondo, ma solo di me. Lì, annodato intorno al cuore, o in un recesso più profondo, nel punto in cui lo specchio di me era stato forgiato. E lo percepivo. Teso.
Teso, ma scosso dal vento e dalla mia imperfezione, svaniva e si scioglieva nell’aria, e si riformava, ma ancora non riuscivo a coglierlo. Mi collegava a lei. A quando eravamo nati, come se fossimo stati tagliati, ma un filamento ancora ci unisse –infrangibile, ed impalpabile. Una fibra dell’anima.
All’inizio non ne ero cosciente, e la cercai in modo banale. Traccia di fiore appassito nel vento.
Da lupo, il mio olfatto era anche troppo sviluppato, come tutti i miei sensi –eppure non la trovavo. Il suo profumo, che era quello dei piccoli negozi di fiori e delle grandi serre variopinte, svaporava in un bouquet di cui non restavano altro che residui ed impronte. Lei era stata in quel punto –sì, ma chissà quante ore prima. Ed io correvo. Inutilmente.
Finchè non percepii quello strappo.
Lei tirava, all’altro capo del filo. Tirava con il pensiero –tirava me, verso di lei. Mi pensava.
Mi pensava?
Impiegai giorni che apparvero infiniti, per catturare il sentore di quel legame –ed avrei dovuto capirlo subito, che era un’essenza. L’angelo me l’aveva detto, di cercarla come me stesso. Dovevo soltanto dare la caccia alla sensazione che mi dava la mia anima. Non c’è un altro modo di spiegare, ma era come cercare un arto che mi era stato strappato, e riceverne un segnale. Era così. Come muoversi lungo viali declinanti di memoria –come ripercorrere tutta la mia storia, al contrario, fino al punto zero. Il punto in cui ero stato tagliato in due. Il punto in cui noi eravamo diventati lei ed io.
Quando la trovai, lei era al centro della strada, sotto la pioggia.
La mia forma umana era perfettamente fradicia.
Lei, a bocca aperta con il viso rivolto verso l’alto.
“Finalmente. Sei qui.”
Ancora adesso, non so se sia stato io a dirlo, o se sia stata lei. Abbassò lo sguardo su di me, con un sorriso che era vago come un sole filtrato da nuvole spesse in un’aria densa, di quelli dal riflesso potente, che ti accecano anche di spalle. Quanto era bella. Mi rivolse un cenno lievissimo, e la seguii al riparo, sotto una tettoia. Il mondo risuonava di pioggia, in un pentagramma grigio –ma l’acqua, l’acqua di cielo era la tenda che ci separava da tutto. Oppure, forse, la tenda eravamo noi.
Un legame come un diaframma di vetro smerigliato.
“Mi hai salvata.”
“No.”
“No, lo so. Hai ragione.”
Non riuscivo a capacitarmi che fosse morta. Sembrava così reale. Così viva, a guardarla, anche se non a sentirla. Sapeva di fiori morti e di sconfitta, sapeva di terra, e di una benedizione evitata.
Chissà dove era sepolto, il suo corpo. Se andava a trovarlo, ogni tanto.
“Sei un fantasma.”
“Tu dici? Sono soltanto io.”
“Perché sei ancora qui?”
“… non lo so.”
Tese una mano verso la mia, ma scivolò attraverso le mie dita. Era come essere toccato dal niente, o da uno spostamento d’aria, infinitamente leggero. Si morse il labbro –e non poterla baciare.
Non poterle accarezzare i capelli scuri, lunghi, o sentire le sue ciglia contro le mie.
“Forse… sì, forse sono un fantasma. Non mi ricordo niente. Solo… te.”
Aveva un modo strano di guardarmi. Strano e bellissimo, con il viso di tre quarti, un po’ inclinato in avanti, e quegli occhi grandi che ogni tanto si assottigliavano, come per mettermi meglio a fuoco. I suoi capelli che scivolavano sulla spalla, oscillando in avanti, sul petto, una ciocca alla volta.
Uno sguardo alla volta, ed ognuno come una carezza timida. La voglia che avevo di stringerla.
“Me?”
“Stavo camminando, sai, come quando devi andare da qualche parte. Non sapevo dove, ma sentivo che avrei riconosciuto il posto quando ci sarei arrivata. Però, c’era qualcosa che mi richiamava indietro. Qualcuno, non chiaramente, ma c’era. E mi sono voltata. Ho iniziato a camminare nella direzione opposta. Che cosa volevi da me?”
“Credo niente. Credo tutto.”
Lei annuiva arricciando le labbra. Giocava di continuo con il castone di un anello. Mi sarebbe piaciuto tenerla con me, non lasciarla andare. Intrecciare le dita alle sue per tenerle ferme, come se potesse servire a fermare quel velo sottile d’angoscia che si portava negli occhi. Curarla. Guarirla, qualsiasi fosse la sua malattia –la cosa che la rendeva così pallida. Non c’entrava che fosse un fantasma, era lei, era stata così anche quando era viva. Assurdo, ma ne ero sicuro.
“Come ti chiami?”
“Julia Jensen. Julia.”
Avevamo le stesse iniziali. Sollevai una mano, mostrandole il palmo. “Jamie. Johnson.”
Sorrise appena, mentre posava la mano contro la mia –come toccare la superficie bagnata del mare. Freddo, e la sensazione rarefatta di qualcosa di accostato, ma che non avrei mai potuto afferrare. Il lupo in me guaiva, senza sapere se fosse di dolore o di gioia. Era lei, era lì. L’avevo trovata.
E già perduta.
“Andiamo.”
Non c’era modo di fermare la marea.

 
 



Angolino.
Grazie a tutti per le letture, le recensioni. Scusate se ci metterò ancora qualche giorno, risponderò a tutti.
Con quello che sta succedendo qui a Genova, ho la testa da un'altra parte.
Nadir_de_Orpheus.
  
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