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Autore: Sakura00    06/11/2011    4 recensioni
Ok, ora basta prendere frammenti dai capitoli che scrivo! Non troverò mai una intro per questa maledetta fan fiction. Mi toccherà scriverla di mio pugno! (*tossisce*)
Questa è una storia molto complicata, i cui fili si districheranno molto lentamente. Ci sono Ranma e Akane, ci sono il loro amici, c'è anche Soun, c'è Ranko, c'è Ryoga e un sacco di altre persone. Personalmente la storia mi piace dal capitolo 10, ma lascio a voi commenti ;)
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Cap.1





Ecco la mia seconda fanfiction! ^^

Questa volta sarà più lunga e, dato che non ho pronti altri capitoli, gli aggiornamenti saranno più lenti rispetto a quelli dell'altra fic, mi scuso quindi per questo U_U

Il testo in corsivo è un mio pensiero sul titolo, se lo vedete troppo lungo e noioso potete saltarlo non influisce sulla trama. Mi piaceva però introdurre così...



Preludio****



Ogni giorno incrociamo lo sguardo di molte persone. Quante volte ci siamo fermati a chiederci perché qualcuno ci sta guardando? Quante volte ci siamo sorpresi nel fissare una persona, solo perché non ci piaceva il suo paio di scarpe?

Sin da quando siamo bambini ci viene insegnato che non bisogna mai fermarsi alla prima impressione. Eppure ognuno di noi lo fa. Con una sola occhiata si decide se una persona è bella o brutta. Con una sola occhiata decifriamo le espressioni. Con una sola occhiata si capiscono le emozioni. Con una sola occhiata riusciamo a prendere decisioni, seppur avventate, ma purtroppo alcune volte necessarie. Con una sola occhiata riusciamo anche a trasmettere i pensieri. Il nostro assenso o la nostra disapprovazione. Inarchi un pochino le sopracciglia. Sgrani leggermente gli occhi. Li rendi sottili come fessure. Storci leggermente la bocca. Abbassiamo la testa insicuri. La teniamo alta con orgoglio. Con una sola occhiata possiamo notare migliaia di espressioni che vogliono dire altrettante cose. Una sola occhiata può bastare a far risultare interessante una persona.

Ma pur sbagliando la maggior parte delle volte, nessuno si può fermare. È un istinto del nostro subconscio. Ogni volta che posiamo per la prima volta lo sguardo su una persona, facciamo considerazioni, senza neanche volerlo. Solo il tempo potrà decidere se cambiarle o meno. Alcune volte rimangono quelle, alcune volte cambiano. Alcune volte portano delusioni, alcune volte sorprese.

Ma l'amore? Non è una scienza, eppure non è neanche una magia. Possiamo innamorarci di una persona per il suo aspetto, per la sua anima, per il suo sguardo e sentirlo eterno in quell'istante. Ma si sa, in amore può finire anche male, un tradimento, una bugia, un litigio o semplicemente perché svanisce la fiamma. E anche in questo uno sguardo può dire tutto. Con una sola occhiata puoi capire se due persone si amano. Ma puoi capire da uno sguardo se una persona ama te? Può uno sguardo accendere l'amore che dura tutta la vita?

E quindi solo ora pongo la fatidica domanda. Esiste l'amore a prima vista?



****Capitolo****



I capelli gli cadevano lunghi sulla schiena.

Erano quattro giorni che stava rannicchiato per terrà, su quel pavimento gelido e lurido. L'odore di nafta invadeva quel posto disgustandolo, una sola finestra illuminava la stanza. Aveva ignorato la branda cigolante buttata in angolo, come ignorava tutto del resto. Da quando lo avevano portato in quella stanza il tempo si era fermato, non sentiva neanche il battere del suo cuore, ma ignorò anche questo. Il suo tempo era fermo.

Occhiaie scure gli ornavano il volto, aveva l'impressione di non aver mai sbattuto le palpebre.

Aveva lo spirito e il corpo distrutti, aspettava di essere pervaso dal dolore da giorni, invano.

Era vuoto, non sentiva alcuna emozione e sensazione.

Era perso, non riusciva a trovare la strada per parlare e muoversi.

Non era morto.

Non era vivo.

Un pensiero occupò la sua mente per una frazione di secondo.

Lui era o non era?

Sentì l'istinto di una risata morirgli nello stomaco nel rievocare l'Amleto, ma non ci mise molto a svuotarsi di nuovo.

Bussarono per la decima volta alla porta e il ragazzo capì che era iniziato il quarto giorno e che erano le 9.30 di mattina. Lasciarono, stavolta in silenzio, un altro vassoio di cibo sull'unico tavolino nella stanza, portando via l'altro, che neanche di uno sguardo era stato degnato. Un sospiro e la porta era chiusa di nuovo. Solo la prima volta, chiamato per nome, si era ridestato e aveva guardato con disgusto il cibo sul vassoio, non perché fosse buono o cattivo, ma perché il solo pensiero di rimettere in moto lo stomaco gli aveva fatto salire la bile in bocca. Non era lui questo, solitamente avrebbe divorato ogni portata senza fare complimenti. Sospirò.

Non si era cambiato mai di vestiti, aveva gli stessi da una settimana, anche se sulla branda avevano buttato qualche indumento nuovo. I suoi bisogni, chiamiamoli intimi e non ignorabili, erano andati scemando per via del digiuno e oramai non si alzava mai dalla sua postazione oscura (così la chiamava).

Solamente quattro giorni fa aveva corso tanto, a perdifiato, senza mai rallentare il ritmo seguendo l'asfalto della strada per uscire il prima possibile da quell'inferno. Aveva sentito bruciare le gambe e i polmoni e aveva stretto i denti per non mollare. Era inciampato e una volta fermo aveva cominciato a tossire convulsamente per l'enorme sforzo. Non aveva sentito il cuore in gola, ma nella testa, al centro della testa, che pulsava e sembrava che avrebbe voluto esplodere. A quattro zampe aveva cercato di riprendere fiato alzando e riabbassando irregolarmente il busto. Con occhi sgranati dalla fatica aveva osservato il sudore mescolato alle lacrime che gocciolava sulla terra brulla. Si era poi guardato intorno e una volta resosi conto di non essere neanche fuori città, aveva urlato, alzato i pugni in cielo come aspettando un segno da quelle coltri di nubi, che sembravano essere state spettatrici dello scempio da cui era fuggito per cercarla. Quando aveva visto che non succedeva, ovviamente, niente, con un ringhio aveva sbattuto i pugni a terra. Aveva aspettato che la rabbia rifluisse per sfogarsi, ma il rumore di un auto lo aveva interrotto. Aveva alzato lo sguardo verso quella e aveva visto scendere gli uomini che lo avrebbero portato lì, dov'era ora. Nella postazione oscura.

A cercarla, ripensò. Già, perché la suddetta ragazza era scappata ben quattro anni prima di lui, per ovviamente altri e futili, secondo lui, motivi. E perché la cercava poi? Già, non l'avrebbe più cercata, non c'erano motivi per cercare quell'incosciente. A parte una stupida promessa, facile da infrangere...

Ma si disse che era inutile mentire a se stessi. Non sapeva quante volte se l'era ripetuto, ma sapeva che l'avrebbe continuata a cercare.

Lui non aveva più niente. Lei era tutto ciò che gli rimaneva. Loro, erano come due metà.

Improvvisamente, come un fulmine nella sua mente, capì. Capì perché non l'avevano più trovata. Ripensò a tutti i pianti della madre, ogni volta che il padre tornava la sera a casa scuotendo senza speranza la testa. Pensò che era ovvio che non l'avevano trovata, conoscendola avrebbero dovuto cercarla nell'altra metà. Certo, è anche probabile che non sarebbero riusciti a trovarla anche se era in questa di metà, Nerima era immenso. Ma lei...Lui la conosceva bene, aveva il suo stesso carattere e se scappare implicava quello che pensava, sarebbe andata non poco lontano.

Non solo lontano, conoscendola, il suo lontano non doveva essere solo in senso fisico...

In quel momento il suo vuoto si riempì. Aveva un scopo. Doveva scappare.

Saettò per la prima volta con lo sguardo per la stanza, sorpreso di esser riuscito a ritrovare quella facoltà motoria così facilmente. Sciolse i muscoli indolenziti delle braccia e delle gambe rialzandosi, la gioia di sentirli pronti a combattere nuovamente lo pervase e sentì che il suo tempo aveva ricominciato a scorrere.

Si raccolse i capelli in una coda nella mano e si corrucciò di non avere un laccio per sistemarli nella sua familiare treccia nera. Cercò di non darci peso, per non pensare a come aveva perso la stringa, e di concentrarsi sul suo obiettivo, lasciandoli cadere come prima, lunghi sulla schiena.

Vagliò velocemente le opzioni praticabili. Di sicuro quelli del S.G. non lo avrebbero lasciato andare così, quindi sarebbe dovuta essere un'operazione di fuga molto ingegnosa...

Si guardò intorno e il suo sguardo finì sulla finestra. Sospirò e si sentì stupido. Anche se quelli non lo avrebbero lasciato andare, era impensabile una sua fuga.

Si diresse a lunghi passi alla finestra per vedere cosa lo aspettava fuori e si rese conto di essere al piano terra. Troppo facile, sbuffò, poi continuò a guardare e intravide l'entrata, sicuramente sorvegliata si disse, e tutto l'intero spiazzo che occupava l'edificio circondato da un muro. A quel punto fece per scavalcare la finestra quando il pensiero gli cadde sul lungo viaggio che lo aspettava e alle energie che gli sarebbero servite, fece spallucce e prima di andare decise che mangiare non avrebbe occupato troppo tempo.

Non appena ebbe dato un morso al pane sentì svegliarsi una fame vorace che gli fece rimpiangere di non aver mangiato la cena che era stata portata via e di doversi accontentare di una colazione.

Finì velocemente di trangugiare l'ultimo sorso di latte con bramosia, non sentendosi per niente soddisfatto, ma piuttosto peggio di prima. Ebbe la tentazione di andarsene dopo il pranzo, ma il suo obiettivo risalì al primo posto delle priorità.

Scavalcò con sicurezza la finestra e con maggior cautela e silenzio possibile si avvicinò alle mura, che superò con sorprendente agilità.

Il suono di un allarme gli penetrò i timpani e gli gelò il sangue nelle vene. Come avevano fatto a scoprire così presto della sua fuga?! Si infilò velocemente dietro uno stipite del muro. Si sporse leggermente e sbirciò verso l'entrata principale e oltre l'enorme viavai di guardie notò un piccolo affare grigio, affisso sul muro. Una telecamera. Imprecò a mente e uscì dal suo nascondiglio correndo, senza temere di essere scoperto, per le vie di quella città sconosciuta.

Sentiva chiaramente i passi dietro di se, scalpitavano sul terreno irregolare peggio di cavalli. Lanciò un'occhiata veloce alle sue spalle, valutando la loro distanza e il loro numero. Non era di questo che aveva paura, era più veloce di loro e, di sicuro, aveva percorso distanze maggiori.

Ciò che temeva era che prima o poi con le automobili lo avrebbero raggiunto.

Timore, paura. Un insulto era per lui, nient'altro. Aggrottò le sopracciglia e strinse i denti. Appena una settimana fa avrebbe preso a pugni chiunque lo avesse accusato di aver paura, ma doveva ammetterlo. Aveva paura.

Paura di non trovarla.

Paura di essere raggiunto.

Aveva paura delle conseguenze. Del futuro.

Una via di fuga lo distrasse da quei pensieri che sembravano volerlo far impazzire. Un uomo, seminascosto dietro un porta di una casa, gli faceva cenno con la mano di raggiungerlo. Agì d'istinto, con uno scatto disumano cercò di seminarli il più possibile per fiondarsi dentro. Il tale lo spinse in una botola per poi seguirlo a sua volta. Finì in uno spazio di massimo un metro quadro con una debolissima lampada ad olio vicino ai piedi che gli illuminava solo quelli. Doveva essere una specie ripostiglio, perché nel momento in cui atterrò sul fondo sentì lo scrocchio di alcune scatole sotto i piedi. Si disse che avrebbe dovuto rimanere il più fermo possibile per non fare rumore. Non capì come si era chiusa tanto velocemente la botola, ma sentì uno «Sh» appena accennato mentre l'uomo di prima gli teneva giù la testa e poco prima del botto di una porta sbattuta contro un muro. Trattenne il fiato mentre sentiva il rumore dei passi sopra di sè.

«Ah! Che volete da me?!» Era la voce di un vecchio.

L'individuo davanti a sé sussurrò con un filo di voce. «Cavolo, è vero. Abito col nonno!»

Ma che diavolo...? Era confuso. Con chi era finito?

«Non prenderci in giro, vecchio. L'abbiamo chiaramente visto entrare qui.» Cominciò a sudare freddo, come colui che aveva appiccicato addosso in quel buco in cui erano nascosti.

«Ma chi?!» Dalla voce del vecchio trapelava non poco panico.

«Ranma Saotome! Stiamo cercando Ranma Saotome! Ti abbiamo detto che abbiamo visto che è entrato qui e DI NON PRENDERCI IN GIRO!» Appena sentì pronunciare il proprio nome il ragazzo cominciò a tremare e gli venne l'istinto di scattare in piedi e scappare, ma, per fortuna pensò, lo spazio angusto in cui si trovava glielo impedì. Tremò perché quel nome lo aveva riportato a ciò che era stato. A ciò che era. Alla voce dei suoi genitori, dei suoi amici. Alla sua vita. O almeno a ciò che era stata una vita.

Fino a quel momento Ranma si era considerato semplicemente una persona, un viandante, con uno scopo tuttavia. Era vuoto tranne per quell'unico obiettivo. Ma il suo nome aveva riportato a galla tutto. Soprattutto la sua identità, quella che aveva ignorato negli ultimi giorni, quella che non aveva più voluto. Cercò un appiglio, per uscire di nuovo dalla sua vita e si distrasse ascoltando i rumori esterni. Sentì diversi tonfi e dei gemiti smorzati, stavano picchiando quello che doveva essere il nonno di chi aveva vicino e si lasciò pervadere dal senso di colpa. Ricominciando a ignorare la sua identità.

Fece per sussurare qualcosa, ma le voci di sopra lo fermarono. «Tsè, è svenuto... Perquisite la casa e poi andiamocene, se non lo trovate... torneremo domani, anche nelle case vicine.»

Risentì diversi passi muoversi rumorosamente per almeno dieci minuti, poi silenzio. Quello davanti a sé parlò a voce normale. «Vieni, usciamo.»

Ranma strizzò un poco gli occhi quando vide la luce del giorno entrare dalla botola aperta, ma poi lo seguì e vide quello che doveva essere il ragazzo di prima. Aveva i capelli castani, chiusi in un piccolo ciuffetto sulla nuca e portava uno strano abito blu. Afferrò uno... spazzolone?... per poi dirigersi con calma verso un vecchio, steso per terra, un po' livido e con la lingua di fuori. Aveva tutti i capelli e la lunga barba bianchi tranne che per l'enorme stempiata. Ranma per un attimo non seppe cosa fare, se chiamare un medico o chiunque altro, ma vide l'altro ragazzo sbuffare e dire: «Alzati nonno, se ne sono andati, mi fai senso lì per terra.»

Il vecchio schiuse un occhio con cui esaminò la stanza, poi balzò in piedi. «Allora? Avete fame?»


Poco dopo erano intorno a un tavolo, Ranma non aveva ancora spiccicato parola, ma stava divorando con ferocia il piatto che aveva aiutato a cucinare.

«Hai fame, eh?» Gli fece notare l'altro ragazzo.

Lui fece solo un assenso col capo senza neanche alzare lo sguardo dal piatto.

Quando tutti ebbero finito. Rimasero in silenzio a tavola, il ragazzo col ciuffetto parlò per primo.

«Allora, come ti chiami?» Ranma per un attimo si chiese se stesse scherzando.

Intervenne il vecchio.«Ah, Shinnosuke! Nipote smemorato! Non hai sentito prima quei brutti ceffi urlare il suo nome?!»

«Ah, è vero. Ti hanno chiamato Ranma Saotome. È questo il tuo nome, Ranma?» È un povero idiota, pensò tristemente l'interpellato, che annuì deciso in risposta. A quanto pare avrebbe dovuto abituarsi a sentir nominare il suo nome, cercò di strapparlo da tutto quello che quella stupida parola si portava dietro. Solo Ranma. Ecco, un nome e basta.

Poi un'espressione confusa si impossessò di Shinnosuke e guardò il nonno. «Ehi, ma scusa, tu chi sei?»

Il vecchio diede un pugno in testa al ragazzo e lui disse di ricordarsi, un po' malamente.

Ranma aprì bocca per fare una domanda, ma non uscì alcun suono dalla sua gola. Si ricordò che non parlava da diversi giorni e dovette fare uno sforzo non poco trascurabile per articolare le parole e il risultato non fu eccellente. «Io...Voi... Perché mi... avete aiutato?»

Aveva la voce gracchiante e debole, che odiò subito, ma sentì che man mano che parlava andava migliorando.

«Beh, non so se te ne sei accorto, ma hai mai visto la ricchezza del centro da cui sei scappato? Hanno le macchine e tutte le loro strane tecnologie, che dovrebbero essere inesistenti qui a Nerima! Di solito tutti quelli dotati di tanti soldi stanno nell'altra metà. Allora perché loro stanno qui? C'è qualcosa che non quadra... E poi perché darsi tanto affanno per cercarti? Cioè, è normale, ma non con questa violenza, considerando i loro scopi ufficiali... Ma che è quella faccia? Non dirmi che non te n'eri accorto!» In realtà Ranma non ci aveva neanche lontanamente pensato, date le condizioni in cui era, ma... se Shinnosuke avesse avuto ragione? E se quel gruppo c'entrava qualcosa con lo sterminio da cui era scappato? Che ci fosse qualcosa di ancora più losco dietro tutte quelle morti lo angustiava. Cos'altro lo aspettava ancora? Sospirò. A quanto pare un “mistero” si era accantonato al suo scopo.

«Beh, comunque ti ho aiutato perché... Diciamo che mi fido del mio istinto...»

Stavolta cercò di chiarirsi la voce tossendo prima di rispondere. «Ah, grazie... Ma comunque hai ragione. È strano, ma...» Fece una pausa alzandosi. «...non mi riguarda. Io ho ben altro da fare. Quindi vi ringrazio dell'ospitalità, ma io mi congedo.»

Shinnosuke lo fermò. «Aspetta, se eri da solo da quelli. Non credo che... insomma, perdona la franchezza, ti rimanga qualcosa...» L'occhiata dell'altro lo astenne dal continuare, così cambio domanda. «Dove dovresti andare?»

Ranma rimase un attimo interdetto, lo squadrò per poi decidere che poteva fidarsi.

«Io devo andare...» Abbassò la voce. «...Nell'altra metà.»

I due lo guardarono sbigottiti.«Cosa?»

«Non ti faranno mai passare! Quelli di Nerima non possono andare là, lo sai bene! Lo sa bene chiunque! Dì un po' ti sei bevuto il cervello?» Aggiunse l'anziano, alzandosi a sua volta.

Ranma prima di rispondere sospirò rumorosamente. «Si, lo so! Ma... dall'altra parte, c'è tutto ciò che mi rimane a questo mondo.»

Il vecchio sbuffò mentre Shinnosuke lo guardò con uno sguardo grave, si alzò infine anche lui e disse: «Vengo con te, a Jusenkyo.»

  
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