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Autore: Aleena    23/11/2011    1 recensioni
Due fazioni, diverse tra loro come il Giorno e la Notte, un'antica tregua infranta.
Due eroi.
Due mondi divisi dalla luce.
Benvenuti nelle Terre Rare.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una volta, quando Takrin era ancora solo una bambina, sua madre le aveva detto che una jalil di rango si distingue dal contegno: serena quando uccide, ferma nel dare gli ordini, insondabile nelle sconfitte, inflessibile nella tortura, impietosa alle suppliche e salda nella fede. “L’unico attimo di follia è nell’amplesso” le aveva impartito con severità prima di farla sedere alla sua sinistra, il posto d’onore; era un tempo diverso e una Takrin diversa, ambiziosa ma ancora sottomessa: aveva trent’anni ed era l’erede della casata, troppo piccola per progettare la sua ascesa, abbastanza grande perché sua madre la portasse alle fosse a vedere i maschi della sua razza combattere fino alla morte, armati solo della propria forza. Solo questo divertimento era rimasto alle Matrone: non c’erano cacce notturne dal Tempo dello Scisma -troppo pericoloso perfino per i drow, ormai ridotti drasticamente ad un terzo degli esemplari di un tempo, eppure dediti ai riti di sangue e guerra cui non avrebbero potuto rinunciare.
Fu nella piccola cattedrale nei quartieri a nord-ovest di Feryxonis – la sua città natale- che Takrin assaggiò la morte per la prima volta: senza esitazione, piantò il coltello nel petto del fratello infante, ultimo di una serie di figli maschi, segno della poca considerazione di cui la sua famiglia godeva agli occhi di Lolth. Takrin compì il sacrificio di sangue come Primogenita ed Erede, senza provare colpa o vergogna, anzi pervasa da una sorta di mistico, cauto ottimismo: non era mai stata una fervente devota e, sospettava, l’ira della Dea era in parte causa sua; ma Takrin amava esercitarsi nelle arti arcane piuttosto che nella preghiera e trovava che non ci fosse nulla di sbagliato nel preferirle a Lolth: in fondo, la sua maestria avrebbe servito la Dea quando Takrin fosse divenuta Matrona a sua volta.
Il sacrifico era stato il suo primo ed ultimo incontro con la morte, anche se non l’ultimo col sangue: nonostante le armi fossero state vietate per gli alleati del Giorno ogni jalil aveva a fianco una frusta, l’arma che le femmine più amavano, e Takrin fu iniziata all’arte del combattimento meno di una settimana dopo il rito; sebbene fosse portata, amava quest’arte come amava le preghiere: era disciplinata ma feroce, facile all’ira e fin troppo supponente, la lingua che saettava a minacciare o deridere ancora prima che il cervello avesse potuto pensare di fermarla; e tale era rimasta, nonostante l’autocontrollo dimostrato in presenza di chi le era superiore, i maestri o sua madre o i Direttori.
Eppure c’era poca grazia od autocontrollo nella sua fuga, ed una incongruente gioia sul suo volto al sentire il rombo lontano dei motori mitigata dalla certezza, impressa sulla sua pelle ferita, che, nemici che fossero per la sua fazione, sarebbe comunque stata fra suoi simili. Erano occorsi l’intervento del sole e il duro disprezzo dei suoi vecchi alleati per farglielo capire, ma ora Takrin era certa e convinta del suo essere, definitivamente, Lantanide -ed adesso era disposta perfino ad accogliere con condiscendenza quel maledetto nano che le aveva fatto perdere i sensi in quella fatidica notte.
Tamponandosi una ferita all’avambraccio sinistro, nella quale una perfida scheggia di vetro ancora le scavava la carne, Takrin corse attraverso la piazza deserta del mercato per poi fermarsi, ansante: si voltò, scuotendo la testa e socchiudendo gli occhi al dolore e, mentre le dita estraevano la scheggia coperta di rosso, il figlio della Notte sbucò da un vicolo alla sua sinistra, sterzando per evitarla e fermandosi di botto ad un paio di metri dalla jalil, che sollevò lo sguardo ad inquadrare il nuovo venuto.
L’impressione che Takrin ebbe, osservando il Lantanide che imprecava, chinandosi a controllare il motore con un ringhio basso, fu di possenza: indossava solamente delle lunghe brache di pelle morbida, color nocciola, chiuse sul davanti da una cintura di cuoio color avana: l’abbigliamento di un lupo, caratteristico tanto quanto i capelli rosso ramato o la folta striscia di pelo dello stesso colore che scendeva dall’ombelico fino ai pantaloni o dagli avambracci fino ai polsi. 
Takrin lanciò uno sguardo veloce alla mezza falce di luna quindi riabbassò gli occhi, rassicurata, e restò a guardare il lupo con un misto di curiosità ed irritazione: decisamente non era abituata ad essere ignorata. Dal canto suo, l’altro non accennò a voltarsi prima di aver rimesso in piedi quel mostro meccanico che cavalcava, sibilando insulti ad ogni danno che trovava.
«Fa che ne valga la pena, jalil» sibilò infine, appoggiandosi al sellino della moto ed incrociando le braccia nude al petto. Sul pettorale sinistro aveva un marchio di fuoco, due linee parallele orizzontali, la seconda più lunga della prima. Takrin non rispose, restando a guardare quel simbolo, cercando di ricordare se anche il Nano l’avesse indosso. «C’è qualcosa che ti interessa?» chiese infine il maschio, aprendo la bocca ad un sorriso pieno di lascivia.
«Potrebbe, in effetti» rispose la jalil, sollevando gli occhi a quelli del lupo, decisamente più in alto dei suoi; avvicinandosi, Takrin sapeva che gli sarebbe arrivata al gomito «anche se temo di non essere abbastanza in salute. Magari la prossima volta, mmh?»
«Certo. Sai cosa si dice delle promesse di un drow, vero?» sbuffò l’altro, sollevando un poco il mento.
«Se di morte o di lussuria, solitamente sono veri e propri patti»
«Non esattamente, jalil. Ma fa nulla, dubito che avrai a mantenerla» disse il lupo, sollevando le spalle e facendo un gesto distratto, d’addio.
«Potrei, se tu volessi fare in cambio qualcosa per me» Takrin colse la possibilità al volo, senza pensare troppo, com’era solita fare. Il lupo sollevò un sopracciglio, corrugando la fronte, e la femmina attese qualche istante, il tempo di capire che non avrebbe ricevuto altra risposta, indi riprese «scortarmi a casa, ad esempio»
«Neutra, vero?» disse il maschio, abbassando lo sguardo sulla scollatura della maglia, dove il marchio era ben visibile «Al Porto, dunque? E quale sarebbe il prezzo di questo favore?»
«Qualunque favore tu voglia in cambio, ovviamente» Takrin si costrinse a sorridere in quel modo ammaliante e carico di sottintesi che un tempo la divertiva infinitamente usare.
«Ma non ora. Io sono a caccia, jalil, il mio Capo mi ha dato un ordine. Sai cosa vuol dire, vero?»
«Capisco. Potrai cacciare dopo, no?»
«Dimmi il tuo nome, piccola jalil» il cambio repentino d’argomento la spiazzò al punto da farle sfuggire il sorrisetto ammaliatore per un istante; svista che la ragazza mascherò con velocità, assumendo un contegno carico di superiorità.
«Takrin» disse, dopo una piccola esitazione «Takrin Cryso»
«Non ti ho chiesta la tua vita, solo il tuo nome» riprese il maschio, beffardo, quindi «In ogni caso, ora so chi sei, come so che state per salpare l’ancora. Domani sera, con la marea, senza dubbio. Quindi, immagino che il mio premio potrò riscuoterlo solo fra quanti? Due mesi? Tre? Non lo sai. Sei nuova piccola jalil, una ragazzina appena catturata che ha cercato di riprendersi la sua vecchia vita» concluse, risollevandosi.
«Lo deduci dai vetri? O dalle ferite?» disse lei con scherno.
«Siete tutti così, voi nascituri del Giorno. Scappate per poi rendervi conto del vostro errore. A volte riuscite a tornare alla Notte, a volte finite appesi alle porte della città come monito. Tu sei stata fortunata: inoltre, la tregua che vige su ognuno degli Ordini impedisce a chiunque di ucciderti, ma potrei catturarti e fare uno scambio. Ne varrebbe la pena? Rispondi con sincerità, piccola jalil»
«Temo di no. Probabilmente saranno loro ad impiccarmi al.. ad uno di quegli alberi dai nomi impossibili, non appena mi rifarò viva» rispose Takrin con la calma di chi parti di cose futili, di poca importanza; poi scosse le spalle, inclinando la testa come a dire che si, sarebbe tornata comunque, perché dove poteva andare in fin dei conti?
«Non credo. La maggior parte delle volte venite lasciati liberi di scappare e rendervi conto della realtà. Ti faranno una lavata di capo e ti daranno una pacca sua schiena, stando ben attenti a prenderti le zone ferite, quindi ti rimetteranno al lavoro. Hanno la tua lealtà adesso, no?»
«Parli di lealtà ad una jalil?» domandò Takrin sforzandosi di suonare canzonatoria, mentre invece ribolliva di rabbia. Era stata ingannata, mandata a morire quasi di certo!
«Hai ragione, errore mio. Diciamo allora la tua alleanza?» lei stirò le labbra in sorriso, in risposta, e questo parve essere un chiaro segno per l’altro, giacché riprese «Avresti capito, altrimenti? Se non avessi sbattuto contro la realtà, avresti accettato la tua nuova vita?»
«Vuoi davvero sentirti dire che hai ragione?»
«Non mi dispiacerebbe vedere una jalil che abbassa da cresta. Ma potrei domarti. Sono sicuro che sotto le mie mani diverresti molto più accondiscendente» il tono del lupo era pieno di malizia «e ti piacerebbe. Chissà, potrei provare» le labbra troppo scure dell'altro si piegarono ad un sorriso tra la condiscendenza e la lussuria, mentre gli occhi brillavano di qualcosa simile alla ferocia «Facciamo un patto, dunque. Ogni marinaio ha una paga, immagino… una parte del bottino, una decima o qualcosa di simile. Ne voglio metà, per i danni alla moto ed il carburante, e li voglio al tuo rientro assieme a te, possibilmente priva di ferite»
«Ti fidi a stringere un patto con una jalil?» disse Takrin, accentuando lo scherno con un'espressione falsamente dubbiosa. 
«Potrei costringerti a firmarlo davanti a qualche tuo pezzo grosso, ma sarebbe superfluo. Se io ti accusassi, la tua parte e la mia si troverebbero in lotta e, credimi, nessuno vuole rompere l’equilibrio, men che meno per una figlia del Giorno, per cui il tuo Capo ti darebbe a me senza problemi: non sembri valere granchè, ragazza. Ed in ogni caso so chi sei e dove trovarti; non avrei difficoltà a prendermi quello che voglio: sono molto più letale di te, piccola jalil» lui allungò la mano e Takrin la strinse: era calda, come se il maschio avesse la febbre, ed un piccolo brivido di disgusto passò sulla pelle d’ossidiana di lei, che si ritrasse dopo pochi secondi, allacciando le braccia poco sotto il seno con gesti ora più lenti.
«D’accordo. Ora riportami a casa» era tornato il tono di comando, secco e pressante come se Takrin fosse stata ancora l’Erede, a Feryxonis, o l’Arcimaga.
«Abbassa la cresta, piccola jalil» 
«Lavori per me, no? Abbiamo un patto, fa la tua parte ed in fretta. La caccia ti aspetta, o sbaglio?» sussurrò la jalil con un sorriso tanto pieno quanto falso, tutto a beneficio del maschio, che contrasse la mascella in un gesto di stizza ma non disse nulla, limitandosi a grugnire e ad indirizzarle un cenno veloce con una mano prima di salire sulla moto, che si abbassò un poco sotto il suo peso. Takrin mosse qualche passo esitante, rimanendo un poco a studiare il veicolo –un ammasso di rame, leghe di ferro nere ed argento- con aria perplessa, ignorando l’occhiata eloquente dell’altro ed il suo tamburellare un dito sul manubrio con evidente impazienza; poi, con tutta la calma che la sua naturale avversione alle macchine le imponeva, si arrampicò sulla sella, badando bene di evitare il contatto con il lupo.
«Dovrai avvicinarti, e stringermi, se non vuoi cadere –e credimi, se succederà non mi fermerò a riprenderti»
«Puzzi di cane bagnato e fango» rispose, calma, come se questa fosse la spiegazione più naturale del mondo per la sua reticenza. Lui tossì una risata simile ad un ululato, spingendosi un poco più indietro sul sedile.
«Ed il tuo sangue è velenoso. Ognuno ha i suoi difetti, piccola jalil. Sta solo attenta a non far cadere neanche una goccia dalle tue ferite sulla mia moto. È mortalmente difficile farsene fare una dai nani» rispose, allungando un’occhiata oltre le spalle verso Takrin, che suo malgrado si trovò costretta ad avvicinarsi.
«E la lasciano in mano tua?» chiese senza divertimento mentre aderiva alla schiena di lui con tutto il corpo, dal bacino al seno, curandosi di toccargli la pelle con la maggior parte delle ferite e sorridendo, dentro di se, nel vedere la pelle di lui arrossata laddove il sangue urticante era venuto a contatto. Soddisfatta, Takrin passò le braccia lungo i fianchi del lupo, andando a stingersi con forza, le ferite più grandi che gocciolavano pigre facendole ignorare la repulsione che quel corpo innaturalmente caldo le trasmetteva con il pensiero del fastidio che lui stava provando. Se devo scendere a patti con esseri del genere, si disse, tanto vale divertirsi un po’.
«Sarà un piacere riscuotere il mio pagamento, jalil, e domarti» commentò il maschio mentre, con movimenti fin troppo decisi, accendeva il mostro meccanico, che rombò feroce sotto le gambe di Takrin, accelerando troppo in fretta e riempiendole le orecchie dell’assordante rombo fastidioso e ronzante; suo malgrado si trovò a stringersi contro il lupo con un misto di terrore ed ansia, pregando Lolth che quel viaggio finisse presto: il pavimento era troppo vicino, i muri sembravano volerla sfiorare, a volte crollarle addosso e l’aria la sferzava, fredda e violenta.
Davanti a lei, oltre il fastidio che la pelle arrossata gli arrecava, il lupo rideva.

Era stata una lunga notte.
Quando finalmente i piedi di Takrin avevano toccato il suolo, la jalil si era consentita un lento, profondo respiro; aveva inspirato salmastro e odore d’alghe e pesce placando la nausea e tentando di sciogliere la morsa dì’ansia che le aveva avvinte le viscere. C’erano andati vicini, mortalmente vicini, e lei lo sapeva, ne era certa: quell’albero li aveva evitati solo in grazia di Lolth, e meno male, giacché non era un giunco quello contro cui il maledetto lupo voleva farla schiantare; e che fastidio la sua risata quando lei gli aveva urlato contro!
A terra, l’aveva ringraziato con una bestemmia ai suoi dei ed un grazie appena soffiato quando l’altro le si era fatto vicino, troneggiando su di lei, fin troppo più alto e grosso. La piccola jalil aveva dovuto ingoiare astio e risposte, limitandosi a lanciare un richiamo all’uomo di guardia sul ponte di coperta, un kappa che aveva sghignazzato e s’era dileguato, dicendo loro di aspettare e lasciando Takrin a chiedersi se anche i suoi nuovi alleati l’avrebbero fatta arrostire un po’ al sole, così tanto per vedere se una jalil poteva davvero morirne. Forse, a forza di prender sole la mia pelle si abituerà, aveva pensato con sarcasmo, stringendo le labbra in un sorriso pieno di rabbia.
L’alba era prossima all’orizzonte quando Siryo apparve sul ponte, avvolto in un mantello blù notte ed accerchiato da quattro marinai vestiti alla stessa maniera: nessuno diede ordini, ma in silenzio lavorarono per calare l’asse. Quando il tonfo di legno su legno si spense, non fu l’erede del Capitano ma Lokks a parlare, assumendo un cipiglio da ufficiale che ben gli si addiceva. Ordinò senza mezze parole a Takrin di presentarsi dal Capitano, quindi si voltò ad incrociare uno sguardo carico di significato col Lupo, che annuì e batté due volte l’indice poco sotto l’occhio, quindi sorrise –non a Lokks, ma al gruppo intero, che non diede segno alcuno di aver compreso.
Poi Takrin fu sul ponte, e la passerella venne ritirata mentre Lokks ordinava al signor Spees di portare il mozzo da Capitano. Siryo si fece avanti, i passi per metà inghiottiti dal rombo del motore che si allontanava prima e dall’eco della risacca poi; gabbiani lanciavano grida in cielo, salutando la nuova alba, e il ponte cominciava a tingersi di scarlatto, quando il ragazzo umano chiuse la porta della cabina alle sue spalle.
Rigel sedeva al tavolo da scrittura, una piuma in mano ed un volumetto rilegato in cuoio sbiadito aperto e già pieno di scritte per metà, che chiuse di scatto quando la jalil entrò.
Takrin sostenne lo sguardo del Capitano per quello che le parve un tempo infinitamente lungo prima che questi parlasse, un’inflessione indefinibile nella voce roca, stanca.
«Abbiamo la vostra alleanza?» domandò senza tanti giri di parole, lasciando Takrin sconcertata per un breve istante: irragionevolmente s’era aspettata delle grida, come quelle di sua madre: echeggianti per una lunga sala di pietra, attraverso il buio ed il tempo stesso.
«Si» rispose semplicemente lei, chinando il capo ed annuendo una volta, come per rafforzare le parole.
«Bene. Me ne compiaccio. Ora, capirete di certo che una violazione del nostro coprifuoco vale da se una punizione, perciò non dubito che vi farà piacere essere scortata sottocoperta, dove vi saranno inferte dodici frustate come futuro monito…»
«Quindi non basta che sia stata punita dal Giorno?» disse Takrin, piena di sconcerto e rimprovero, gli occhi ridotti a due fessure scarlatte.
«Signore. O Capitano. O entrambi, se volete, prego» la interruppe Rigel, con una calma invidiabile.
«Non vi basta, signore?» riprese lei, sibilando le parole attraverso le labbra contratte.
«No. Loro hanno agito secondo la loro legge, io agisco secondo la nostra. Siamo due fazioni diverse, ed avrete due punizioni diverse. Eravate stata avvertita, idiota d’una jalil» non aveva urlato, né si era scomposto, ma Takrin ebbe l’impulso di arretrare; solo anni di autocontrollo ferreo le fecero mantenere la calma, consentendole di avere appena un tremito della fronte come reazione.
«Voi mi avete lasciata andare, signore. Era vostra quanto mia, la colpa, e ritengo…?»
«Nostra? Vi rendete conto di quello che dite, ragazzina? E ritenete… non dovreste avere neppure diritto di parola, qui»
«…chiedo che riconsideriate il vostro giudizio. Prendete questo come la mia punizione, ed accontentatevi» disse Takrin, piegando la testa di lato ed allungando il braccio sinistro così da offrire al Capitano una visione di tagli ed ustioni.
«Chiedi? Pensi che scendere a più miti termini possa giustificare la tua assoluta mancanza di rispetto? Venti frustate, jalil, così che vi rimanga addosso anche questa, di lezione. Non sono vostro padre, o un maschio della vostra génia: sono il vostro Capitano, e la mia parola e legge; mentre voi siete l’ultima, la sguattera. Non dimenticatelo, Takrin: siete meno dell’ultimo topo che striscia nelle sentine di questa nave. Lo capite? Non temete, se non vi è chiaro lo sarà a breve. Avevo deciso di essere clemente con voi, quando di norma avrei usato dare trenta frustate per una violazione, ma voi m i calcate la mano, Takrin, voi lo volete, per gli Dei!» concluse Rigel con un respiro profondo che gli dilatò le narici, piegando il busto in avanti, ocme per farsi più vicino alla femmina.
«Io non…»
«Taci! Chiudi quella bocca ed ingoia le parole, o ti giuro che per ogni sillaba che uscirà dalla tua bocca ti ordinerò una frustata aggiuntiva. Siryo, scortala di sotto, chiama Ferth e torna a riferire. Edhel» e qui sbatté un piede con forza sul pavimento, producendo un tonfo sordo e cupo, unico segno di rabbia che avesse mostrato finora «smetti di divertirti e scendi. Devo parlarti»

Serrò le labbra, ascoltando il sibilo familiare della frusta sussurrarle all’orecchio e marchiarle la carne della schiena in maniera impietosa. Poi si trascinò, sanguinante e piena di rabbia, nella cabina femminile, sbattendosi la botola alle spalle e buttandosi fra le coperte pesantemente.
Dormì solo mezza giornata, il tempo necessario affinché la maggior parte delle ferite si rimarginasse o smettesse di sanguinare ed il suo corpo recuperasse le forze, quindi si presentò nuovamente al Capitano, chinando la testa ed esibendo i suoi modi migliori, un foglietto di carta mezzo stropicciato in mano.
Chiese che gli fosse ridata l’ossidiana e perché, quindi parlò del Giorno, dell’Accademia Grigia e delle due sorelle, delle difese della città e della magia. Parlò dei cibi e delle usanze, dei desideri e degli i insegnamenti, descrisse i volti dei maestri, dei saggi e dei cittadini comuni. Raccontò tutto quello che sapeva, senza che le fosse richiesto ma sicura che fosse ciò di cui avevano bisogno, memore del rispetto e del dolore alla schiena. Disse ogni cosa, e chiese di sapere in cambio tutto della sua nuova vita.
Quando la campana della cena suonò, un soddisfatto Capitano l’aveva affidata alle mani di Edhel.

Poi la marea salì loro incontro, e l’ancora venne levata.




Picolo spazio-me: E con questo siamo definitivamente fuori dalla parte iniziale! È un sollievo, perché segna l’approssimarsi della parte più “viva”, quella in cui veramente succederà tutto. Forse, già dal prossimo capitolo, se tutto va come spero :)
Mi scuso se dovesse risultare un po’ “veloce”... l'ho scritto praticamente tutto in treno, fra un viaggio e l'altro, per cui ho avuto pochissimo tempo per revisionarlo. Se trovate imprecisioni, fatemelo sapere e correggerò ;)  e mi scuso anche per il ritardo, ma non potevo aggiornare la storia perché, fino ad oggi, non ero a casa… chiedo venia!
Come al solito, non mi offendo a sapere cosa ne pensate ;)
Spero vi sia piaciuto! Alla prossima!
  
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