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Autore: TuttaColpaDelCielo    25/11/2011    1 recensioni
Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso possiamo solo scavare nel passato.
Possiamo solo ricordare.

Respirano aria di morte, guardano il loro mondo coprirsi di cadaveri. Anni più tardi saranno dei reduci senza speranza e senza gloria; ora sono solo formiche che si muovono su una terra agonizzante, ignare che l'Occidente sta per vedere un'alba rossa di sangue.
I loro ultimi giorni, l'ultimo sussulto di vite già distrutte.
Il crollo delle architetture vacillanti su cui hanno modellato il loro mondo.
Seconda classificata al contest Let's fly on fantasy's wings indetto da SunnyPain.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2 – Gelo


Una di noi aveva previsto da tempo ciò che accadde. Non credo conoscesse il futuro, ma comprendeva il passato e accettava il presente; osservava, soprattutto, riconoscendo i segni di una storia che tornava – una storia la cui eredità non era solo antiche leggende e resti di una lingua morta, ma un intreccio di cause e conseguenze che ci avrebbe condotti alla fine.
Era una trama troppo vasta e troppo importante perché credessimo di esservi coinvolti. Che poteva importarci di una rivolta e di una guerra, quando saremmo stati perseguitati in ugual modo sotto qualsiasi dominatore? Non eravamo nemmeno pedine, non appartenevamo a uno schieramento; per noi l’unica novità erano le razzie, il resto era affare dei potenti, non delle formiche. Pensavamo che non saremmo mai comparsi sulle cronache di quella guerra, e almeno su quello avevamo ragione – ma imparammo che la grande storia distrugge i piccoli uomini senza nominarli.


Non pensavano.
Correvano e basta, senza affondare nella neve fresca, ma nel loro incedere leggero non c’era alcuna eleganza – era solo un lavoro di muscoli e polmoni, con l’urgenza del pericolo, con il panico della preda braccata.
Bagliori di torce si intravedevano tra gli alberi, come promesse di morte del colore del fuoco; si avvicinavano in un cerchio sempre più stretto, provocando più terrore dei latrati dei cani e del tramestio degli zoccoli.
E loro correvano, perché così gridava l’istinto – e sentire il sibilo delle frecce accanto a sé e sperare di essere abbastanza veloci e sapere già di aver perso la partita, e implorare i polmoni di reggere un altro po’ e cadere a terra stremati.
La prima a fermarsi fu una femmina rossiccia dall’incedere più pesante degli altri, esausta; un istante più tardi un altro, poco più di un cucciolo, crollò accanto a lei con un guaito. L’odore del sangue li raggiunse prima che si rendessero conto degli eventi: sgorgava copioso dalla coscia ferita, confondendosi con il pelo nero, fino a colare sulla neve in dense gocce di un rosso cupo.
Vederli inermi fu come un richiamo, un ordine cui non potevano sottrarsi. In un attimo quattro sagome ringhianti furono attorno alle due a terra, con una lealtà sconosciuta agli umani – o forse solo con stupidità, perché non avevano più speranza di sfuggire alle frecce.
Poi fu rosso: quello buio del sangue, quello crudele del fuoco. E lamenti e panico e dolore, un dardo che la colpiva alla schiena, la testa che girava, schiocchi di mascelle, vestiti riversati dalle sacche ormai squarciate. Cavalli impazziti per il terrore, cani che latravano, il cuore che sembrava scoppiare. Caos.
Non capiva più nulla, stordita, con le viscere strette dalla nausea. Proteggere il corpo esanime di Soyi: questo era l’imperativo che la animava, il resto era una massa di pensieri inutili. La vista le si offuscò per un momento; era esausta, e solo vedendo un’ampia scottatura sul fianco di Nemunas, accanto a sé, si accorse che le torce si erano fatte ancor più vicine. In uno sprazzo di lucidità sperò che Khai fosse ben protetto dalla sorella, ma non riusciva a scorgerli nel turbinio di suoni e colori che era diventato quel tratto di bosco.
Lo stomaco si contrasse ancor di più quando vide una freccia raggiungere la sagoma grigia di Hetrir. Un altro giramento di testa, un sibilo e dolore, e un arciere a pochi metri da lei che aveva appena scoccato un dardo.
Era vicino, si rese conto mentre la nausea continuava ad aumentare – troppo vicino per sbagliare un tiro del genere. E, realizzando che non stavano mirando a punti vitali, la vista le si offuscò definitivamente.

* * *

Si trovò con gli occhi aperti senza capire quando si fosse svegliata: la coscienza aveva appena preso il posto dello stordimento che segue il sonno, lasciandola smarrita e dolorante. Fissò le travi di legno sopra di sé, che sostenevano un tetto di paglia; filtrava luce, perciò doveva essere giorno, ma non aveva idea di quanto mancasse al tramonto.
Udì un’esclamazione e serrò le palpebre, con le tempie pulsanti. Era dolorante e rigida per il freddo, e qualcosa di gelido le stringeva i polsi; assurdamente le sembrava che le opprimesse anche il petto, quasi impedendole di respirare. Riaprì gli occhi e provò a parlare, ma aveva la lingua impastata da bile amara.
«Ahdle!» sentì di nuovo, a voce più bassa, riconoscendo il timbro di Khai.
Si tirò faticosamente a sedere, notando che qualcuno doveva averla vestita, e lo guardò con un’ansia quasi materna: il viso scuro era graffiato in più punti e il labbro inferiore tumefatto, ma non sembrava essere ferito gravemente, realizzò con sollievo. Protese una mano verso il suo viso, vedendo solo in quel momento i bracciali di metallo che le cingevano i polsi.
«Argyrion.» mormorò il ragazzino, intercettando il suo sguardo «Nemunas ha detto così.»
Annuì, avvicinandolo al viso per osservarlo meglio. Era di lavorazione grossolana: i bordi erano quasi taglienti e la chiusura solo una striscia verticale in rilievo – poiché la magia è al sicuro dai furti, al contrario delle chiavi. Doveva essere quello a soffocarla così.
«Qualcuno ha già provato a cambiare forma?» chiese a bassa voce.
«Non ci riusciamo. Ma il problema è un altro.» scosse la testa e si alzò «Vieni.»
Lo imitò, inquieta, ma dopo qualche passo la nausea la costrinse a lasciarsi scivolare a terra. Hetrir, Tirani e Nemunas, inginocchiati accanto alla parete opposta, le davano le spalle; si voltarono per rivolgerle un sorriso stentato o un cenno, poi tornarono a fissare qualcosa nascosto dai loro corpi.
Per molto tempo non osò chiedere nulla, perché chiedere avrebbe significato ottenere risposte, e non era sicura di volerne – il mondo era già crollato abbastanza.
«Hetrir.» chiamò infine «Hetrir, che succede? Soyi... Soyi dov’è?»
L’uomo alzò il viso per un istante, mostrando una profonda ferita lungo una guancia e gli occhi vuoti, spenti. Sembrava un vecchio. E l’unica persona capace di prostrarlo così era... no.
Si avvicinò di scatto e scostò Tirani, in preda al panico, sperando di sbagliarsi; purtroppo, aveva sempre avuto un buon intuito.
Soyi, pallida, giaceva su una coperta infangata. Sangue incrostava gli abiti e i capelli ramati, gocce di sudore colavano dalla fronte e dal collo; unico segna di vita, il debole respiro che quasi non le sollevava il petto.
Gridò.


Non sapeva cosa sentisse Soyi. Se il dolore dell’argyrion, le loro voci o semplicemente il nulla.
Non sapeva nemmeno come darle sollievo. Poteva solo scostarle i capelli dalla fronte e detergerle il sudore, con la tenerezza che non appartiene agli amanti, ma agli innamorati – un gesto che tante volte aveva compiuto, e che forse lei percepiva anche nell’incoscienza.
Alzò lo sguardo su Ahdle, incapace di darle risposta. Non reagì nemmeno alle sue grida: lasciò che fosse Nemunas a soffocarle in una stretta, scoprendo che in realtà non gliene importava nulla. Non in quel momento.
Tornò a scrutare il viso di Soyi. Aveva gli occhi aperti, ma annegati nel torpore e nello smarrimento, e le labbra secche imploravano acqua. La vide sussultare, come se la voce di Ahdle l’avesse riscossa – quella e non la sua, che le era stato accanto per tutto il tempo, pensò con acredine.
Riuscì a sollevarle il busto appena prima che rigurgitasse bile acida; lei, ignorando i conati che ancora le risalivano in gola, strinse il ventre con le braccia e serrò gli occhi.
Uno, due, tre minuti.
Un tempo infinito in cui non osò toccarla, lasciando che s’immergesse in quel mondo intimo e femminile che gli era precluso, sperando, pregando. Perché se dentro di sé non avesse avvertito nulla, sarebbe morta; e lui insieme a loro.
Ahdle si avvicinò, la comprensione dipinta in volto, con un dolore che si pentì di aver deriso. Che Ilithia dal grembo rigonfio avesse deciso di punire la sua crudeltà?
All’improvviso la compagna gli crollò addosso.
«Non si muove.» singhiozzò «Non si muove.»
«Dev’essere l’argyrion. Lo stanca.» le sussurrò, stringendola.
Faceva male.
Faceva male vederla così, faceva male avere paura, faceva male non sapere nulla.
Faceva male fingere una sicurezza che non aveva e pregare gli dèi di avere ragione – aggrapparsi alla speranza per non affondare, anche a costo di spezzarsi le unghie.
«Come state?» chiese la donna.
Ahdle rispose al suo posto, quasi ringhiando: «Meravigliosamente. E ora, cos’è successo?»
Si sforzò di ridere.
«Lieto che la tua pazienza aumenti di giorno in giorno.»
«La tua propensione a rispondere fa lo stesso, mi pare.»
Sapevano di abitudine, quelle repliche sferzanti; certe cose non cambiano mai, e ripercorrerle tranquillizza. Anche quando della quotidianità non rimane nemmeno l’ombra.
«Hetrir.» lo chiamò Soyi, ancora abbandonata contro di lui «Cos’è successo?»
La strinse di più, prima di iniziare a parlare.


Lo ascoltava senza interromperlo, continuando ad accarezzare la guancia di Soyi, come per assicurarsi della sua presenza. L’uomo sembrava aver già ripetuto il discorso, forse a chi si era svegliato prima di loro: dava la sensazione spiacevole di una lezione imparata a memoria.
Era il tono distaccato di chi non vuole accettare. Erano gli occhi vuoti di chi spera che sia un incubo. La voce non vibrava e l’argento non riluceva.
Drogati, rinchiusi in un villaggio vicino; questo lo aveva già intuito. E poi supposizioni, ragionamenti, tutte parole assolutamente inutili.
Quando Hetrir terminò lei rimase in silenzio, ad ascoltare i propri respiri e i movimenti all’esterno – uomini di guardia, commenti stanchi e bisbigli incuriositi. Nessuna risposta, quando Khai tentò per la terza volta di avere acqua e informazioni.
Ringhiò, frustrata.
Il futuro era un punto interrogativo in mano ad altri; il presente, una dipendenza continua anche per le necessità più basilari.
Animali in gabbia.

* * *

Esitava da quasi un minuto di fronte a una porta. Sapeva di doverlo fare, ma non osava battere le nocche sul legno sottile, perché non gradiva la possibilità di disturbare – non l’avrebbe gradita l’altro, soprattutto. Era quasi tentato di tornare indietro e mandare un compagno al suo posto.
«Enar.» lo chiamò una voce dall’interno «Vieni.»
Non capì come avesse percepito la sua presenza. Forse l’aveva sentito arrivare e aveva riconosciuto il passo. O forse non doveva chiederselo e basta.
Entrò, accompagnato dal cigolio della porta e da un brivido di inquietudine. Vide l’uomo seduto sull’unico letto, a guardare il vuoto e a giocherellare con il sottile bracciale nero che portava al polso. Rimase di fronte alla porta, senza raggiungerlo.
«Hai paura di me?» gli chiese lui, con tono incolore, in una domanda ormai abituale.
Non rispose, sempre più turbato. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in Neryon: sembrava un folle – e lo era, probabilmente. Un folle lucido e sorridente. Seguiva schemi incomprensibili, risparmiando bambini e massacrando donne; poneva domande insensate, ridendo dell’incertezza altrui, senza aspettarsi davvero una risposta. Gioiva nel confondere, nell’avere gli altri in proprio potere. Era agghiacciante.
«Cosa devi dirmi?» lo riscosse.
«Sono svegli.»
«Bene. Ora andiamo.» sogghignò, alzandosi «Non vogliamo far attendere i nostri ospiti, vero?»


Era sdraiata accanto a Soyi, in un angolo, a parlare di tutto e di niente – un’intimità che era stata quasi dimenticata, e che suonava quasi fasulla.
«Si muove.» esclamò l’altra.
«Si è già mosso prima, non è una novità.»
Lei le afferrò la mano, avvicinandola al proprio grembo.
«Vuoi sentire?»
Percepì un colpo, energico, vitale – di quelli che fanno anche un po’ male, e lei se li ricordava bene.
Si alzò bruscamente. In qualche modo capiva l’entusiasmo della sorella, ma non poteva perdonare l’indelicatezza, né smettere di odiare la sua gioia. Non quando ancora passava le notti ad accarezzare il nulla, con il dolore e la rabbia serrati in gola e le lacrime da fermare.
Iniziò a percorrere il perimetro della capanna, venendo aggredita all’improvviso dai suoi odori – sudore, sangue, urina e bile. Avrebbe voluto andarsene. Cambiare forma, correre fino a star male e affondare i denti in carne pulsante di vita. Dare tutto al lupo e dimenticare ogni cosa.
Il freddo ai polsi tornò improvvisamente intenso, costringendola a sedersi per lo stordimento, quasi l’argyrion percepisse il suo stato d’animo e tentasse di calmarla. Sentì schegge di ghiaccio scavarle nella pelle, risalire il ventre e lo stomaco fino a opprimere i polmoni; la bestia non si acquietò, lottando per non farsi vincere dall’oblio, annaspando in cerca di forza e di aria. Era la parte più importante di sé, quella più vera, e un pezzo di metallo non poteva strappargliela. Non così, non come un cane alla catena.
Fu l’unica, quindi, ad avvertire il pericolo – l’unica con i sensi abbastanza vigili per poterlo fare.
Udì avvicinarsi qualcuno: una camminata incerta, esitante, una più sicura e rilassata. Nessun dubbio su quale dovesse temere. Una formula sussurrata in una lingua sconosciuta e la porta si aprì con uno scatto, ruotando verso l’interno.
Alzò gli occhi da terra. Una sagoma imponente si ergeva contro la luce, con un effetto tanto perfetto da essere forse studiato; dietro di essa, un giovane magro e nervoso non osava entrare.
«Vieni, Enar.» rise l’altro.
Aveva la voce rauca, bassa – da predatore divertito dalla caccia, le suggerì l’istinto, quasi riconoscendo un proprio simile. Vide distintamente le sue labbra tendersi in un ghigno, quando si abbassò in un inchino beffardo.
Incontrò i suoi occhi e tremò.
Argento.
   
 
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