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Autore: VeganWanderingWolf    01/12/2011    0 recensioni
Qualche maligno dice che chi invece si risveglia dall’altra parte, si sveglia nel sogno, potrebbe non ricordare più nemmeno del sé stesso di quando non sogna.
Introduzione modificata per uso di codice html pesante.
Charlie_2702, assistente admin
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I coltelli sono tutti uguali

Messi di taglio poco rimangono in equilibrio

E cadono su un lato senza aspettare dubbio o consenso

Che sia l’uno che sia l’altro, un lato diventa cieco, l’altro rimane specchio

VII – Sul giusto lato del coltello

 

 

Coltello, Rosa e Caramello si rassegnarono a continuare a camminare lungo il lato del ripido pendio, perché gli appigli che offriva in quel punto il fianco della montagna non erano sufficienti per scendere senza ritrovarsi a cadere e rotolare a slavina insieme alla neve che li ricopriva pesantemente. Per loro fortuna, tuttavia, non dovettero percorrere molta strada prima di trovare qualcosa di molto prezioso per la loro situazione. Quasi subito, infatti, si imbatterono in un punto in cui il pendio scosceso assomigliava più a una discesa affrontabile, piuttosto che a un dirupo rigido e severo. Scoprirono addirittura un sentiero che serpeggiava giù dalla montagna, zigzagando abbondantemente, al punto che la strada da percorrere ne risultava quintuplicata, e quello che in distanza in linea d’aria era di pochi metri, il sentiero lo rendeva in decine e decine di tornanti. Ma era dopotutto l’unico modo intelligente per percorrere il fianco della montagna con la prospettiva di arrivare sani e salvi da qualche parte. Benché la neve avesse abbondantemente ricoperto ogni cosa, il sentiero era stato un poco lavorato, in modo da offrire una superficie relativamente piana nel terreno obliquamente digradante, e appariva quindi anche abbastanza riconoscibile ad occhio nudo nonostante l’uniforme biancore superficiale del manto innevato.

«Bene…» disse lentamente Rosa, dopo un po’ che tutte fissavano in silenzio il percorso che avevano individuato. «Finalmente potremo scendere da qui senza romperci l’osso del collo.» aggiunse, come a certificare con le parole chiaramente udibili un sollievo che stentava a concretizzarsi persino dentro di loro.

Forse ne avevano passate troppe, e in un certo senso la loro capacità di sperare era molto fuori allenamento ormai – o questa capacità aveva paura che, se solo avesse fatto capolino troppo vistosamente, sarebbe puntualmente arrivato qualche cosa a decapitarla di netto.

Questo supponeva tra sé e sé Coltello, senza sapere come altro spiegare quella mancanza di sollievo estroverso. Tuttavia, c’era qualcosa di molto più strano…

Improvvisamente non voleva più proseguire: le sembrava assurdo il proseguire, e le sembrava assurdo trovarlo tale.

«Iniziamo a scendere?» chiese Rosa, evidentemente stanca di rimanere immobile troppo a lungo a contemplare da lontano l’ultimo tratto di strada prima di uscire definitivamente da quell’incubo.

«Non… non mi sento molto bene.» disse flebilmente Coltello, per prendere tempo.

Anche se non era esatto. Il suo corpo stava benissimo. Eccetto che per i muscoli delle gambe, che parevano convinti che qualcosa ordinava loro di recalcitrare istintivamente da quella discesa. Ed eccetto per qualcos’altro che le stava rivoltando lo stomaco per l’emotività, come se si sentisse sconvolta. Così, risolse solo di sedersi per terra per aspettare di capire come farsela passare.

Rosa e Caramello la osservarono stupite. Poi, gradualmente, Caramello assunse un’aria premurosamente preoccupata, mentre l’espressione di Rosa divenne pungente come succo di limone.

«Hai di nuovo la febbre?» chiese Rosa ruvidamente, quasi infastidita.

Ma fu Caramello che le si appressò, si tolse un guanto e le appoggiò la mano fredda sulla fronte.

«No, non mi sembra…» disse piano dopo un po’, ritirando la mano e tornando ad affondarla repentinamente nel calore dell’indumento.

«Non è il momento di lasciarsi andare.» le disse Rosa, piuttosto duramente.  «Siamo quasi arrivate.» fece presente, chiaramente determinata a non lasciare che alcun contrattempo si mettesse ancora in mezzo tra loro e la tanto desiderata salvezza, ormai a soli pochi chilometri di distanza.

«Mi riposo solo un momento. Solo un momento.» ripeté Coltello, giusto per acquietarle un po’. Aveva bisogno di tempo, anche se non sapeva ancora per che cosa.

Improvvisamente era come se gli alberi della foresta, alle sue spalle, mormorassero. Non era sicura che si rivolgessero a lei. Ma sembravano dire qualcosa di preciso, eppure di inafferrabile. Non per la prima volta, ma più intensamente che mai, sentì di poter aver ragione nel dubitare delle proprie facoltà mentali. Cosa poteva garantirle che non stava… o che già non era impazzita?

Non di certo era fraintendibile lo sguardo delle altre due ragazze, alle quali, era evidente, il suo improvviso esitare testardo sembrava la cosa più inopportuna da fare in quel momento. E se sul viso di Caramello permaneva una salda pazienza comprensiva, su quello di Rosa aleggiava un’espressione di risentimento, quasi che considerasse involontariamente quel gesto come un affronto personale, come un dispetto fastidioso.

Coltello distolse lo sguardo dalle altre due, chiuse gli occhi e scosse piano il capo, come cercando di liberarsi dei propri pensieri. Strinse fortemente il coltello che aveva in tasca, chiuso nella propria custodia; il coltello del quale portava il nome.

Non doveva pensare male di Rosa e Caramello, si intimò. Le tornarono in mente le parole di Scintilla, un’eco lontano eppure vivido, come se fossero diventate parte del mormorare degli alberi della foresta alle sue spalle: ‘tu fa’ qualcosa per loro’. Ma adesso non capiva più che senso potessero avere: non c’era niente che potesse fare per loro due, no? O forse intendeva dire che avrebbe dovuto sforzarsi di accompagnarle sane e salve fino a qualche abitazione, mettendo da parte i suoi dubbi, i suoi tentennamenti… ? Ma c’era qualcos’altro, aveva questa sensazione.

Diversi pensieri si accavallavano confusamente nella sua testa, come se, cercando un filo conduttore in tutto quello che le era successo dacché si era svegliata alcuni giorni prima in quella baita, stesse buttando all’aria involontariamente tutto ciò che sapeva. Ed era come aprire gli occhi e vedere anche meno di prima, come decidere che se ne aveva abbastanza di andare a tentoni nell’oscurità e prendere a devastare per pura rabbia tutto ciò che si ha intorno, senza ancora sapere cosa si stia davvero cercando.

Va bene, si disse, avrebbe fatto qualcosa per Rosa e Caramello; ma prima dovevano essere loro a fare qualcosa per lei, decise.

Alzò lo sguardo di colpo, e non aveva idea di come apparissero i suoi occhi in quel momento, ma vide Rosa allarmarsi e Caramello sussultare istintivamente.

«Vorrei sapere alcune cose, intanto che siamo qui. Dopo proseguiremo… ve lo assicuro.» disse, con una voce ferma che quasi non riconobbe come la propria.

Per qualche momento le altre due tacquero. Caramello pareva sorpresa del suo stesso sollievo; forse si era aspettata di sentirle pronunciare parole ben più terribili. Rosa, invece, la studiava ancora, e sembrava che il suo risentimento stesse crescendo. Infatti, quando rispose il suo tono era di viva protesta, a stento attenuata da una volontà ragionevole.

«Pensi che sia il momento migliore per fare una chiacchierata?» la rimbeccò.

«No, non lo è. Avrei dovuto insistere molto di più prima… nei giorni precedenti. Ma mi sono illusa del fatto che, quando vi sareste sentiti pronti a parlare apertamente, voi o Scintilla lo avreste fatto. Magari quando fossimo arrivati in qualche luogo sicuro… Ma adesso ho bisogno di sapere. Perché… » Coltello esitò brevemente, e quando riprese a parlare il suo tono si era molto incupito, assomigliando un po’ di più al suo sguardo ora  « … se devo avere sulla coscienza Scintilla, un lupo e tutti quei bambini… almeno voglio sapere che cosa sta succedendo. Dico davvero.» concluse, a muso duro.

Aveva fatto diversi altri errori, ed ora, all’improvviso, se ne rendeva conto. Le risalivano alla coscienza come lacrime spinose agli occhi, ed avrebbe solo voluto che se ne andassero in fretta, che scivolassero fuori da lei il più rapidamente possibile, per andare a tormentare qualcun altro. Ma era lei ad aver fatto quei passi falsi. E il suo sbaglio più cospicuo, più difficile da accettare di tutto il resto, stava per arrivare. Sentiva che avanzava dalle ombre oscure dell’incoscienza: una sagoma che si muoveva nel buio per venire alla luce lentamente, per questo ancora più terribile.

Le sue parole sembravano aver aperto una breccia nell’irritazione di Rosa. La ragazza parve un momento stupita, poi amareggiata.

«Perché dovresti averli sulla coscienza…? Tu non hai fatto niente.» le disse.

«Appunto.» rispose solo Coltello.

E ora, anche l’ultimo errore era venuto a galla, come se ciò che aveva detto, una sola banale parola, lo avesse invitato a scoprirsi del tutto. Cosa aveva fatto, lei? Perché non aveva cercato di strappare il fucile dalle mani di Scintilla? Perché non aveva cercato di fermarlo con la forza quando lo aveva visto andarsene da solo, completamente inerme e nudo nella foresta? Perché non aveva fatto nulla per i bambini?

Perché se avesse cercato di strappargli il fucile di mano avrebbe rischiato allo stesso tempo di essere colpita da un colpo partito per sbaglio. Perché se avesse cercato di fermarlo, Scintilla avrebbe trovato il modo di scrollarsela di dosso e non si sarebbe mai lasciato persuadere a rimanere. Perché non c’era niente che potesse fare per i bambini, che si trovavano chiusi in una baita a chilometri di distanza, sorvegliati e tenuti prigionieri da uomini e donne armati, che avevano su di loro più diritti di parentela di chiunque altro. E lei non era che una ragazza sperduta sulle montagne, intenta a stringere tra le mani un coltello che considerava una specie di talismano.

Le domande l’avrebbero perseguitata per sempre. E le risposte non sarebbero mai valse a nulla.

Lei, lei che si era data tanta pena di rimproverare a Scintilla di sembrare insensibile a tutto quello che gli accadeva intorno; lei che aveva rimproverato a Rosa di non aver fatto o detto niente per i bambini; lei che aveva giudicato Caramello troppo debole per riuscire a provvedere a se stessa e reagire di fronte alle difficoltà; lei che aveva guardato con rabbia alla gelida e calcolatrice Occhi-di-Ghiaccio; lei che aveva guardato con superiorità alla supposta pazzia degli uomini rinchiusi nella baita e al militarismo spietato delle Tute.

Lei che adesso, ancora, non aveva fatto nel complesso nient’altro che giudicare tutti e tutto quanto, tranne se stessa. Lei che non aveva fatto niente quando avrebbe dovuto e potuto, e si era lasciata semplicemente travolgere dagli eventi.

Quando ritrovò il senso di ciò che stava avvenendo fuori dalla sua testa, piena di una ridda confusa di rimorsi e pensieri brucianti, vide che Rosa la stava ancora guardando, ora con maggiore pazienza.

«Non c’era niente che potessi fare. Non c’era nessuno che potesse fare niente.»

«E proprio questo ci ha condotte qui…» mormorò Coltello di rimando.

Rosa non riuscì a capire cosa intendesse, perciò disse ancora «Qui? Qui non siamo in nessun posto! Se solo tu ti alzassi e ti trascinassi in qualche modo per quel poco che ci rimane saremmo al sicuro! Si può sapere cosa ti prende?» si spazientì.

Nonostante tutto, Coltello si sentì grata nei suoi confronti. Se solo avesse potuto ascoltarla, assecondare il suo tentativo di riscuoterla per riportarla a una dimensione più concreta, semplice e immediata, dove tutto ciò che doveva fare era semplicemente camminare finché non fossero arrivate al sicuro. Il suo corpo intero, dalla punta dei capelli a quella degli alluci, non desiderava altro che un letto dove riposare, cibo e bevande caldi, acqua calda e sapone con cui lavarsi via tutto, proprio tutto. E dimenticare… dimenticare solo quell’avventura infelice, quella sorta di incubo; risvegliarsi in un luogo, con delle persone che conosceva da più tempo, in una realtà che le fosse familiare, che fosse il suo passato, quello che non riusciva più a ricordare.

Ed improvvisamente ciò la confuse e le chiarificò qualcosa, nel medesimo tempo. Qualcosa che aveva a che fare, in qualche oscuro modo, con quelle espressioni di Scintilla, sempre sofferte e trincerate dietro a sarcasmo e indifferenza solo in parte sinceri. Se lei avesse dimenticato quei giorni su quelle montagne avrebbe dimenticato anche Scintilla? O lo avrebbe ricordato com’era, come lo aveva conosciuto prima di perdere la memoria e risvegliarsi nella baita? E soprattutto… se fosse in realtà che aveva perduto la memoria perché il suo passato era farcito di ricordi spiacevoli e dolorosi? In tal modo, aveva perso anche la memoria di chi conosceva, di chi era, di… tutto ciò che aveva vissuto. Cosa poteva averla spinta a dimenticare, se davvero era così? Ma ecco, ora si trovava a desiderare nuovamente di dimenticare anche quel poco che già aveva!

Provò un travolgente moto di orrore e paura, come se temesse di perdere davvero la memoria da un momento all’altro, e si aggrappò più saldamente al coltello, stringendolo tra le nocche sbiancate dalla spasmodica forza della sua stretta.

«Oh, che cos’hai? Ti fa male da qualche parte?» chiese angosciosamente la voce di Caramello, vicino a lei.

Coltello rifocalizzò lo sguardo su di loro, con urgenza.

«Vi prego, dovete dirmi quello che sapete! Non capite? Io ho dimenticato tutto, tutto! Tutto quello che è successo prima che mi risvegliassi alla baita, qualche giorno fa! Voi non sapete chi sono? Come mi chiamo… e chi era Scintilla, e come ci siamo ritrovati là? Chi sono le Tute? Cosa diavolo sta succedendo là?!» si ritrovò quasi a gridare, preda di una profonda esasperazione.

Non voleva più dimenticare. Voleva ricordare tutto quanto, non importava quanto potesse farle male… ne aveva bisogno, o sentiva che avrebbe potuto svanire da un momento all’altro dentro di sé, affondare in qualche sorta di incoscienza e perdere ogni contatto col mondo esterno.

Nel sentirla parlare con tanta disperata foga, Caramello si ritrasse un po’, spaventata. Rosa la fissava sempre più intensamente, e sembrava inviperita ora.

«Tu… che stronza.» le sibilò.

Coltello si sentì come colpita da uno schiaffo. Ora che finalmente stava facendo tutte le domande, senza riserve, che si stava veramente sforzando di capire cosa stava succedendo, cosa era successo, per affrontare tutta la realtà…

«Sai benissimo che nemmeno noi ricordiamo niente!» urlò Rosa, rabbiosamente.

Per un lungo momento Coltello rimase semplicemente senza parole, lo stesso corso dei suoi pensieri paralizzato dal nonsenso di quell’affermazione.

«Cosa… ?» riuscì infine a dire, banalmente, in un mormorio esitante. Non era più così sicura di voler sapere. Di voler sapere che non c’era niente da sapere.

«Ah! Ma cosa credevi, di essere l’unica ad aver dimenticato tutto? Eravamo tutti nella stessa situazione là alla baita, o quasi. Abbiamo iniziato a perdere i ricordi col passare dei giorni. Nessuno sa più il suo nome là, praticamente… e molte altre cose. Per questo non… ah, avanti! Non guardarmi così!» si interruppe Rosa, seriamente indispettita.

«Ma se tu sai questo, che là non ricorda niente nessuno… perché io non lo so?» ribatté Coltello, aggrappandosi all’ultimo barlume di logicità che le era rimasto in mano, come un giocatore che ha puntato tutto sul cavallo dato per vincente e, avendolo visto cadere, chiude gli occhi, e solo dopo un certo tempo lentamente prova a riaprirli, per vedere che ne è stato delle sue ultime speranze.

«Oh, insomma…» si lamentò Rosa, incrociando le braccia sul petto. Sospirò e chiuse brevemente gli occhi, come alla ricerca di pazienza e nuova calma, e, quando tornò a guardarla, sembrava averne trovate abbastanza da parlare con maggior autocontrollo.

«Ognuno di noi perdeva la memoria, i ricordi, in maniera diversa… Non sappiamo come succedesse… Certe volte le persone si svegliavano con delle facce spaventose… di chi non ha… chi non ha nulla… E tutti hanno iniziato a far finta di niente perché… non c’era niente che potessimo fare, che riuscissimo a fare… cercavamo solo di aspettare che trovassero un modo, una strada sicura per andarcene di lì… Ma quelle Tute… non sappiamo cosa ci facevano lì… sono venute fuori all’improvviso, hanno accerchiato la baita e hanno cercato di entrare sfondando le porta-finestre. Abbiamo dovuto rifugiarci di sopra… Che altro potevamo fare?»

«E c’ero anch’io quando succedeva tutto questo… ?» domandò Coltello, con precauzione.

Rosa tacque alcuni secondi, guardandola bene, come se cercasse qualcosa sul suo viso, o non osasse parlare.

«Come posso ricordarlo… ?» mormorò infine, dolente e spaventata dalle sue stesse parole.

«Ma certo… certo che dovevi esserci anche tu.»

Rosa e Coltello si voltarono stupite a guardare Caramello, che aveva parlato.

«Deve essere così… se tu eri nella baita con noi, devi esserci arrivata insieme a noi.» disse ancora la ragazza, con volenteroso desiderio di tranquillizzarla.

Per un momento Coltello provò l’impulso di abbracciare Caramello, ma si limitò a sorriderle con grata dolcezza. Poi notò che la ragazza aveva tirato fuori dallo zaino un libro, e lo teneva abbracciato al petto, aggrappandovisi similmente a come lei faceva col coltello.

Tornò a guardare Caramello in viso e chiese, precipitosamente «I libri! Voi avete detto che avete un esame al vostro ritorno a scuola… quindi qualcosa lo ricordate!»

«Sì…» ammise lentamente Rosa «Ricordiamo che frequentiamo l’università… ricordiamo qualche cosa… la madre di Caramello, quella signora che hai visto parlare con noi alla baita… loro si ricordano l’una dell’altra…»

«Poi…» confessò piano Caramello, arrossendo «Abbiamo trovato i libri negli zaini che avevamo con noi…»

Coltello ripensò, con una nuova fitta di dolorosa mancanza, al suo zaino, quello che era stata a un passo dall’avere tra le mani.

«Eppure, anche se non ricordo il contenuto del mio zaino…» ragionò ad alta voce «ricordo benissimo come mai non ho potuto raggiungerlo… Anche voi ricordate come mi siete venute a sottrarre, insieme a Scintilla, alle Tute, no?»

Rosa annuì sbrigativamente; apparentemente non lo trovava un elemento significativo.

«Certo, ma io credo che il dimenticare centrasse solo con la baita…» spiegò.

«Sì.» convenne subito Coltello «Hai ragione. Da quando siamo usciti da lì ricordiamo tutto… ma non quello che è successo prima che ci arrivassimo… E se l’avessimo dimenticato per sem…» si interruppe, davanti allo sguardo spaventato e minaccioso ad un tempo di Rosa, e quello costernato e terrorizzato di Caramello.

«E adesso… vogliamo andare?» ribadì Rosa, con insistenza.

Coltello la guardò come se per un momento non avesse idea di che cosa stesse parlando.

«Dobbiamo arrivare da qualche parte prima che faccia buio!» le ricordò Rosa, in tono duro e pratico «Ci manca poco, ma non possiamo farci sorprendere dalla notte a metà discesa!»

Coltello, però, si rese conto che non poteva ancora proseguire.

«Aspetta…» disse, quasi implorando «Tu prima hai detto… che Caramello e sua madre si ricordano ancora l’una dell’altra…» ripeté lentamente.

«Sì. E allora?» sbuffò Rosa, affatto lieta di tornare sull’argomento della perdita di memoria.

Coltello non disse apertamente quello che fu il suo primo pensiero, e cioè che, se Caramello poteva ancora ricordarsi di sua madre perché si trovava fuori dalla baita, la donna, che era rimasta là, poteva già aver perso memoria della figlia, tanto più che non poteva più vederla ora… Ma un altro pensiero ben più allarmante le si stava gonfiando in petto.

«Allora… loro potrebbero dimenticarsi dei bambini… quelli rinchiusi nella stanza! Se nessuno li ricorda, come potranno dare loro da mangiare, preoccuparsi di loro, e se le Tute dovessero attaccare?» esclamò, quasi in preda al panico.

«No, a questo è stato pensato!» replicò Rosa con decisione «Sono stati affissi alcuni fogli, sulle cartine che tutti guardano sempre, e alcuni si tengono addosso, tipo annodato attorno al polso, dei fazzoletti con tutto scritto: che ci sono dei bambini, i loro figli, in una stanza, e che devono accudirli ma lasciarli lì dentro perché sono al sicuro. E in ogni caso, per fortuna, ci sono alcuni che stanno perdendo la memoria molto più lentamente… Come ad esempio …»

«Mangiafuoco.» la interruppe Coltello all’improvviso.

«Sì…» confermò Rosa, un po’ sorpresa «Allora vedi, che qualcosa lo ricordi anche tu?» la rimproverò.

«Non è che lo ricordavo… me lo immaginavo.» disse Coltello, corrugando la fronte.

Era certa di doversi ricordare qualcosa di importante a proposito di quell’uomo, ma al momento non riusciva proprio a determinare cosa. Era una sensazione, così come aveva provato la sensazione di conoscere Scintilla, la prima volta che lo aveva visto.

«Tutto questo… non ha alcun senso…» mormorò ancora.

«Bene, nessuno qui ha detto il contrario.» ribatté Rosa, con aria sollevata, come se stessero finalmente ricominciando a parlare in un modo che la soddisfaceva.

«E i nomi?» domandò ancora Coltello.

«Cosa? Che nomi?» si indispettì nuovamente Rosa.

«Io ho… cioè, certe volte i nostri nomi cambiano… il mio… quello di Scintilla… e anche Mangiafuoco, ad esempio. Io l’ho chiamato così, ma non ho mai detto ad altri che gli avevo dato questo soprannome, eppure gli altri già lo sapevano!»

«Mah, non esageriamo adesso!» protestò Rosa, infastidita «Ci sarà pure una spiegazione. Probabilmente in realtà tu non hai inventato i loro nomi, ma li hai ricordati, per questo gli altri, che evidentemente non li avevano già dimenticati, li sapevano.»

«Se questo è vero…» insisté Coltello «Com’è possibile che una persona si chiami davvero ‘Mangiafuoco’? O ‘Caramello’? Questa cosa dei nomi l’ha tirata fuori Scintilla, e in ogni caso perché non abbiamo fatto altro che cambiarli, tranne per voi due, anche dopo essere usciti dalla baita? Non può essere…»

«Oh, diamine! Scintilla si divertiva a cercare di confondere ancora di più le idee a tutti, e a quanto pare con te c’è riuscito. Là dentro non lo sopportava nessuno, e non a torto! È normale che si finisca per essere molto confusi quando si inizia a perdere pezzi di memoria. Non so se lei…» e indicò l’altra ragazza «si è sempre chiamata Caramello, o se Mangiafuoco è sempre stato Mangiafuoco. Può essere che, mano a mano che dimenticavamo i nostri nomi, ce ne siamo scelti degli altri. E forse ci siamo abituati a tal punto a questo che abbiamo continuato a farlo senza praticamente accorgercene anche fuori dalla baita, ecco qua!»

«Ma certe volte qualcuno sapeva il nuovo nome di qualcun altro senza che nessuno gliel’avesse dett…»

«Ah, ma adesso basta!» strillò Rosa «Come faccio a sapere tutto?»

Coltello la guardò per un po’, in silenzio. «Hai ragione… scusami…» disse alla fine.

Rosa annuì, con l’aria di trovare le sue scuse più che dovute.

«Adesso possiamo andare?» chiese per l’ennesima volta.

Coltello annuì, quasi distrattamente, lo sguardo rivolto al suolo e perso in altre riflessioni, atteggiamento che Rosa scambiò per pentimento imbarazzato per quel suo esasperante interrogatorio.

«Finalmente!» esclamò Rosa «Caramello, avanti… rimetti il libro nello zaino o si rovinerà… Adesso scendiamo, e troviamo qualche posto dove ci diano una mano…» disse stancamente, rivolta all’amica.

Caramello annuì concorde, eseguì rapidamente e si issò di nuovo lo zaino sulle spalle, pronta a riprendere la marcia.

Solo quando Caramello e Rosa mossero qualche passo sull’orlo del pendio, saggiando prudentemente con i piedi la consistenza e la tenuta della neve sul suolo, apparve loro manifesto che Coltello non si era ancora mossa né sembrava aver alcuna intenzione di farlo presto. Per qualche istante Rosa fu travolta da pura, accecante rabbia, ma si riprese abbastanza in fretta da parlare.

«Hey! Che stai facendo? Stiamo andando!» pensò bene di informarla.

Si era alzato un vento freddo, piuttosto insistente, che proveniva dalla valle e risaliva i piedi delle montagne, con la forza e la rapidità di una mandria gettata a rompicollo giù per una discesa. Le due ragazze videro perciò Coltello muovere appena le labbra, sempre con lo sguardo basso, ma non ne intesero le parole, pronunciate in tono troppo flebile e subito rapite dal vento che le riportò indietro, sulla strada che avevano già percorso, a disperdersi tra gli alberi della foresta che si erano lasciate alle spalle.

Ad un passo dal completo disfacimento dei suoi nervi, Rosa ritornò indietro, riavvicinandosi un po’ a Coltello, ma non troppo. C’era qualcosa di strano nella figura della ragazza, dallo sguardo abbassato, immobile contro il vento, come se non la sfiorasse nemmeno…

«Cosa hai detto?» si informò Rosa, con tono più circospetto che aggressivo adesso.

Dopo un po’, Coltello si mosse. Estrasse qualcosa dalla tasca e lo strinse forte nella mano, e Rosa e Caramello sussultarono all’unisono per la sorpresa e lo spavento.

«Hey!» gridò Rosa «Che hai intenzione di fare?» domandò, ricordando bene cosa aveva fatto la ragazza l’ultima volta che l’aveva vista impugnare quel coltello.

«Colt…» iniziò a chiamarla Caramello, ma non osò pronunciare per intero il nome, che coincideva sinistramente con ciò che l’altra stringeva nella mano.

Coltello alzò su di loro lo sguardo, e le ragazze si ritrovarono a fissare due occhi cristallini nelle intenzioni, ma densi di sentimenti troppo complessi per essere definiti. La ragazza sorrise, tristemente e debolmente, con la chiara intenzione di essere più gentile con loro, e non perché provasse al momento alcuna gioia. Eppure un disarmante senso di sicurezza e pace terribile le aleggiava intorno, come se fosse posseduta da un qualche spirito molto più antico di tutte loro.

«Scusatemi…» disse, in tono calmo eppure potente.

Rosa rabbrividì, trovandola una singolare variazione rispetto alle parole ‘Mi dispiace’, che già aveva pronunciato Scintilla… sembrava essere stato molto tempo prima, a ripensarci, nonostante il ricordo fosse vivido e netto.

«Non avrei voluto che ci separassimo così.» disse ancora Coltello, con la stessa intonazione «Ma io non verrò con voi, da qui in avanti.» sentenziò senza appello.

Le altre due ragazze la guardarono in completo silenzio per un poco. Ma ben presto Rosa eruppe in esclamazioni pungenti.

«Ah! Ma bene! Che diavolo c’è adesso? Sei ammattita anche tu? Io non me la bevo! Non è il momento di fare la vittima, qui siamo tutte nella stessa situazione, e non mi sembra che né io né Caramello la stiamo mettendo giù così tragica! Guarda che io non ho alcuna intenzione di mettermi qui ad assecondare il tuo bello e cattivo tempo, cara mia, mi hai già stancata a sufficienza! Prima tutte quelle storie, adesso qui, proprio quando siamo ormai arrivate, dici che ci pianti in asso! Cosa credi, che abbiamo tutti bisogno del tuo sacrosanto aiuto? Avanti, è l’ultimo dei momenti per piantare grane!»

Tutto ciò che tale filippica suscitò in Coltello fu un irrigidirsi delle sue labbra, che rese la sua espressione ancora più determinata.

«Proprio perché siamo qui… proprio perché siamo quasi arrivate… non c’è più nient’altro che io possa fare per voi, ammesso che lo abbia fatto fino ad ora… E voi non avrete in ogni caso più bisogno di me… Sono certa che manca molto poco, ed arriverete sane e salve a qualche abitazione. Questa, però, non è la mia strada.»

«E questo cosa vorrebbe significare?» sbraitò Rosa, puntellandosi le mani sui fianchi «Quale sarebbe la “tua strada” allora?»

Ogni tentativo di gentilezza scomparve dal viso di Coltello, e la sua espressione tradì un lampo di paura. Ma, dopo quel fugace sguardo, il suo viso tornò a indurirsi di una dolente fermezza, che sembrava quasi inconsapevole.

«Io tornerò alla baita.»

Scese un silenzio tetro e sospeso. Poi, quasi con difficoltà, Caramello emise un flebile gemito, subito dopo il quale trovò le parole di nuovo, precedendo Rosa, che continuava a fissarla attonita e dubbiosa, apparentemente incapace di crederle.

«Non puoi dire sul serio…» disse Caramello, tristemente «Perché dovresti torna…

«Ti spareranno a vista.» interruppe con tono tagliente Rosa, continuando a guardarla intensamente, cercando di penetrare oltre la cortina dei suoi occhi, senza riuscirvi molto bene.

«Lo so.» disse Coltello, semplicemente, resistendo ancora ai fantasmi di paura che le perturbavano lo sguardo.

«Ci tornerò…» iniziò poi a spiegare, rivolta a Caramello «perché devo tirare fuori quei bambini da lì… e perché l’unico modo sicuro che ho per sapere qualcosa del mio passato è ritrovare il mio zaino.»

«Ma smettila di dire ‘devo qui e devo là’, tu non devi proprio niente!» sputò fuori Rosa, quasi con astio.

«Allora, è quello che voglio fare.» si corresse Coltello, dando l’impressione di ritenere importante quella precisazione.

«Faresti molto meglio a pensare piuttosto a salvarti la pelle!» disse ancora Rosa, ma la sua voce aveva un leggero segno di cedimento.

«Forse sì…» concesse Coltello «Ma se ora non torno indietro, non me lo perdonerò mai più.»

Si interruppe, riflettendo brevemente, e disse ancora «Non so se sono meglio poche ore facendo quello che si vuole, o molti anni evitando quello che si teme e affrontando i rimorsi, ma io… al momento ho più paura della seconda… In fondo, forse è ancora la paura a guidarmi. Solo che si è spostata verso qualcos’altro.»

Rosa corrugò la fronte, come se quelle spiegazioni la infastidissero più che altro. Caramello la stava guardando come se riponesse in lei tutte le sue speranze di persuadere Coltello a non fare pazzie, e ciò le stava inducendo ulteriore fastidio.

«Fa quello che ti pare…» disse infine Rosa, e, nonostante le sue parole, il suo tono si era fatto un po’ più comprensivo «Per quel che penso, ti pentirai piuttosto dell’essere tornata indietro. E quando vorrai raggiungerci dovrai correre, perché io non ho alcuna intenzione di stare qui ad aspettare di vedere se ritorni a ragionare…»

Coltello comprese, nonostante quei modi ancora risentiti, che Rosa aveva cambiato opinione prima ancora di rendersene conto lei stessa, e che c’erano desideri nascosti ora nelle sue parole, come quello che lei cambiasse idea… ed insomma, ciò che le stava riferendo, era ciò che si augurava. Probabilmente sia per poter poi vantare di aver avuto ragione, sia perché ci teneva a vederla arrivare sana e salva come loro in qualche rifugio. E forse voleva cercare, in un ultimo debole tentativo per niente fiducioso, di indurla ad andare con loro per salvaguardare il suo orgoglio e non dover poi ammettere di aver sbagliato, se non per altro. Per questo sorrise appena, senza poterne fare a meno, a Rosa.

Quest’ultima si riscosse dopo un breve momento, si tolse il fucile da tracolla e glielo porse. Coltello rimase a lungo a fissarlo, senza osare toccarlo né dire nulla. Il fucile che aveva ucciso il lupo e aveva fatto andare via Scintilla; il fucile di cui aveva portato il nome e che, tuttavia, aveva agito in modo molto diverso da come avrebbe mai fatto lei.

«Prendilo.» le disse in tono fermo Rosa «Non puoi davvero farne a meno. Sii ragionevole.»

Coltello però non sentiva di poter riuscire a toccarlo.

«Fallo per noi…» disse debolmente Caramello.

Qualcosa scattò in Coltello, e, prima che potesse rendersene veramente conto, aveva allungato le dita sul gelido metallo e il duro legno dell’arma; solo quando Rosa la lasciò andare nelle sue mani, sentendone il peso, le parve che le pesasse più nella testa, sulla coscienza, che sulle braccia. Ma allo stesso tempo il gesto le procurò un sordo dolore alla ferita fasciata sul braccio. La smorfia di sofferenza che le sorse spontanea al volto dovette ricordare anche a Rosa della sua ferita, perché disse:

«E ricordati bene di cambiare la fasciatura ogni tanto, a seconda di quanto si sporca… E a pulirla se rimane ancora aperto quel taglio, invece non inumidirlo se vedi che si sta cicatrizzando o saranno guai. A proposito…»

Rosa appoggiò a terra il suo zaino, vi frugò dentro fino a trovare un tubetto di crema che le porse. Coltello vi riconobbe quella specie di gel cicatrizzante/disinfettante che la ragazza aveva insistito per applicarle ad ogni cambio di fasciatura.

«Potrebbe servire a voi…» articolò, lentamente.

«Beh, spero vivamente che non ci feriremo nel scendere!» esclamò Rosa.

«Intendevo il… fucile…»

«Non credo che riuscirei mai a usarlo.» disse sinceramente Rosa.

«Nemmeno io.» mormorò Coltello, con un leggero brivido.

«Sì…» comprese Rosa, a disagio «Ma insomma, può esserti utile per appoggiarti mentre cammini, o qualcosa del genere… Ahhh…» si lamentò infastidita «Che vuoi che ci faccia io? Se proprio vuoi abbandonarlo da qualche parte fallo, ecco!» concluse sbrigativamente.

«Potresti portarlo a quelli della baita» suggerì quasi timidamente Caramello «Potrebbe essere loro utile.»

Per qualche motivo, quelle parole non tranquillizzarono affatto Coltello. Le ricordò la promessa che le era stata fatta prima che lasciasse la baita… che le avrebbero sparato se fosse ritornata.

«Sì, ecco, riportalo a loro. Ti saranno grati.» suggerì intenzionalmente Rosa, anche se non aveva affatto l’aria di crederci veramente.

«Il mio lega capelli… puoi tenerlo…» disse ancora Rosa.

«Ah… sì… grazie.» rispose Coltello, ricordandosene solo in quel momento, e portandosi una mano alla nuca per toccare il suddetto oggetto, ormai ingarbugliato con le sue ciocche in un grumo di capelli bagnatisi e riasciugatisi diverse volte, umidi e freddi.

Quando riabbassò il braccio lungo il fianco, in un gesto stanco, tutte e tre si stavano ancora guardando, e anche se era evidente l’ansia di andarsene di Rosa e Caramello, ora era controbilanciata dall’indugio di restare con lei un altro po’. Rosa si sforzava di mantenere un’espressione pratica e decisa, fingendo persino con se stessa che l’unico motivo per cui non aveva ancora voltato le spalle all’ennesima persona che le abbandonava al loro destino, era perché anche lei aveva una coscienza, e non voleva scoprire troppo tardi di aver tralasciato qualcos’altro.

«Trasferiamo dell’altro cibo dai nostri al tuo zaino. Non ha senso che ce lo portiamo dietro noi, ci appesantirebbe, e ora abbiamo bisogno di essere veloci per arrivare entro sera a qualche casa. A te, invece, servirà, e parecchio! Ma poi, dovresti essere tu a pensare a queste cose!» eruppe infine.

Caramello sembrò lieta di avere un’altra scusa per rimandare la loro separazione, perché, prima ancora che Rosa avesse terminato di parlare, si era già sfilata lo zaino e ci stava frugando dentro alla ricerca delle sue ultime razioni.

Coltello si sentiva stordita, e stavolta sapeva che non si trattava della ferita, ma forse era l’enormità della scelta che aveva appena preso a darle le vertigini, a farla sentire come se non fosse lei che stava facendo ciò che stava facendo, ma qualcuno che, anche se poteva assomigliarle molto, aveva ben più determinazione e folle coraggio di lei. Si limitò a guardare, con un certo senso di irrealtà, il modo in cui Rosa stipava nello zaino di Scintilla praticamente tutto ciò che era rimasto di commestibile, con mosse rapide e nervose, ma precise.

Solo quando Caramello, che aveva iniziato a lacrimare in un commosso silenzio, la strinse in un abbraccio comprese il reale motivo del perché si sentiva così assente. Se fosse stata più presente, in quel momento, la paura e l’inesorabilità della sua scelta l’avrebbero demolita brano a brano. Aveva bisogno, almeno per un po’ di tempo, di non pensare realmente alle conseguenze materiali di quello che stava facendo; aveva bisogno di affrontare solo un istante alla volta, senza preoccuparsi troppo di quello che sarebbe accaduto dopo. Perciò, ricambiò con un certo imbarazzato distacco l’abbraccio di Caramello, e quando la ragazza la lasciò andare, si ritrovò a fissare di nuovo il volto contrariato di Rosa.

«Non ti aspettare un abbraccio da me.» le intimò «Non si sa mai, che tutta questa follia sia contagiosa.»

Di nuovo comprese dal suo tono che, pur se travestito da offesa, il suo era qualcosa di simile a un complimento: che non era convinta di starsi meritando.

Non era come quando si era frapposta tra il fucile e il lupo. Allora aveva sentito fin nelle viscere che stava facendo qualcosa che aveva una propria, intrinseca e indubbia giustizia. Ora non aveva sinceramente idea di che cosa stesse facendo, che cosa avrebbe fatto, a che cosa sarebbe mai potuta servire lei, una ragazza che vagava da sola per una foresta con un fucile che non voleva usare, un coltello che era più un amuleto che un’arma, e lo zaino di un fantasma scomparso tra gli alberi senza girarsi al suo disperato richiamo. Un pulviscolo in un mare di polvere posatasi su cose che hanno già preso da tempo il loro percorso, senza curarsi di lei: questo era.

Guardò le ragazze, che sembravano aspettare che dicesse qualcosa.

«Voi… ricordate la vostra casa, la vostra famiglia, le vostre persone care… qualcosa di importante della vostra vita?»

«Beh, sì, qualcosa sì.» ammise Rosa «Dopotutto noi tre, fortunatamente, non dovremmo essere rimaste molto a lungo nella baita. Certo, su diverse cose faccio molta fatica… Ma insomma, non credo sia davvero possibile dimenticare così…» e schioccò le dita «le cose veramente importanti, a meno di non ricordare proprio niente di niente! Devono essere proprio le ultime che dimentichi.»

Rosa la guardò, aspettandosi che il suo ragionevole discorso avesse qualche riconoscimento, ma Coltello sembrava essersi immersa in altri pensieri. Allora sospirò, pesantemente, con rassegnazione.

«Ora… sarà meglio che noi andiamo…» disse, con un certo tatto.

«Sì…» rispose lentamente Coltello.

Le guardò con intenzione, più per dire addio alla loro presenza che con l’intento di memorizzare il loro aspetto, le loro espressioni, il loro atteggiamento. Poi, di colpo, si ritrovò a dire, guidata da un’intuizione che non provò ad ostacolare.

«Addio, Salva.» e guardò la ragazza che aveva portato il nome ‘Caramello’.

«Addio, Vittoria.» disse ancora, spostando lo sguardo sull’altra, che aveva portato il nome di ‘Rosa’.

Il viso di Salva apparve sorpreso, poi si illuminò in un sorriso radioso e triste ad un tempo, sembrò cercare di dire qualcosa, ma tacque e annuì. Parve raccogliersi su di sé, per abbracciare il proprio nome con trasporto e sollievo. Vittoria invece, dopo l’iniziale stupore, le rispose, in tono altrettanto serio.

«Semmai ‘arrivederci’, Coraggiosa.»

Coraggiosa non riuscì a percepire il tempo per un momento, trattenendo il fiato mentre il nuovo nome, dall’aria così importante, le si appoggiava indosso come un invisibile mantello, per la verità forse piuttosto misero, perché cucito solo dei suoi stessi sfrontati propositi. Quando ritornò del tutto in sé, vide le due ragazze, le spalle voltate a lei, sparire lentamente oltre il ciglio del pendio, scendendo a cauti passi lungo il sentiero coperto di neve. Lei non si mosse, finché non riuscì più a sentire il rumore del loro affondare nella neve bianca, scricchiolante sotto i loro passi appesantiti dagli zaini e dagli abiti imbottiti.

Allora, lentamente, Coraggiosa dovette rendersi conto che il nome che aveva ora era più grande di lei, e se non fosse riuscita a crescere abbastanza in fretta da riempirlo e sostenerlo, probabilmente avrebbe finito per schiacciarla. E dovette accettare il dato di fatto che, ora, non aveva idea di che cosa fare.

Eppure, avrebbe dovuto essere semplice e scontato, o no?

Alla fine riuscì a voltarsi, e tornò a guardare le montagne innevate e coperte di boschi alle sue spalle, e le tracce dei loro passi ancora visibili nella neve. Si rese conto di alcune cose: che, seguendo a ritroso le loro tracce, avrebbe continuamente dovuto fare i conti con la differenza che c’è tra sei e due piedi; poi, più avanti, anche con quella che c’è tra otto e due piedi; e che gli alberi, che prima l’avevano tormentata coi loro mormorii, ora tacevano. Di primo acchito li considerò dei traditori insidiosi, di quel tipo che prima si finge amico e consigliere fidato, ma che poi, dopo averti persuaso a seguire uno sciagurato suggerimento, resta a guardare in silenzio mentre ne subisci le conseguenze, senza muovere più un dito in tuo soccorso. Ma in fondo, non erano altro che alberi. E lei non era altro che un corpo provato dalla fatica e dal freddo, piuttosto mingherlino e solitario, che doveva ripetere da capo il percorso di chilometri di neve, alberi, lupi e ricordi dolorosi, per arrivare infine davanti a una spianata di armati, divisi in due squadre diverse ma non troppo dissimili, e stare a vedere chi avrebbe sparato per primo la pallottola che l’avrebbe fatta cadere definitivamente.

Ma c’erano altre cose importanti, quelle che l’avevano spinta a fare la scelta; lei, però, riusciva a vederne bene solo una. Salva e Vittoria avevano detto di aver qualcosa che ricordavano, qualcosa a cui ritornare, mentre lei non aveva niente. E in fondo non aveva detto loro tutta la verità, perché non era la paura dei rimorsi la più terribile ora. Era la paura del niente, il timore di tornare a qualche civiltà, e scoprire che quando l’aveva lasciata non aveva niente da perdere; perciò, anche tornando, non avrebbe trovato niente ad aspettarla. Nessun luogo che potesse chiamare casa, nessuna persona nell’incontro della quale ritrovare il proprio affetto e amore per un altro essere umano.

E, in qualche modo, quell’ignoto faceva molta più paura di ciò che sapeva riguardo a baite presidiate da pazzi armati, Tute, fucili, lupi, e quant’altro.

Si ritrovò a stringere di nuovo il coltello. Si accorse di aver iniziato già a camminare, sulle spalle il suo zaino e quello di Scintilla, il fucile a tracolla, e il coltello nel pugno. La sua direzione decisa dalle tracce che aveva già lasciato una volta, almeno fino al fiume innevato, che di nuovo avrebbe dovuto essere la sua guida e, stavolta, anche il suo unico compagno di percorso.

Riuscì a procedere solo poche ore, e non si preoccupò di calcolare seriamente il tempo che passava, ancora illudendosi di essere fuori da esso fintanto che riusciva ad evitare di affrontare qualsiasi altro frammento di spazio-tempo che non fosse quello dove si trovava in quel preciso istante: un frammento alla volta, lasciando cadere dietro di sé quelli già passati e raccogliendo distrattamente quelli che aveva di fronte, scegliendone uno tra i tanti senza fretta, come se non facesse realmente differenza.

Quando si sentì senza forze, si sedette sopra agli zaini, allungando le gambe davanti a sé e appoggiando la schiena a un tronco d’albero, il braccio ferito appoggiato con delicatezza in grembo. Guardò il cielo grigiastro, pieno di nuvole fumose, ed ebbe la netta sensazione che i suoi occhi fossero vuoti e nebulosi come le appariva quella distesa di grigio sporco.

«Non posso chiamarmi Coraggiosa.» disse piano nel calmo silenzio che la circondava «Non ora.»

Lasciò ricadere il silenzio, senza chiedersi con chi stesse parlando. Chi altro, se non se stessa? Ma in effetti si stava rivolgendo a qualcuno. Qualcuno che probabilmente, a quell’ora, doveva giacere assiderato da qualche parte nella foresta.

«Mi chiamerò Fortuna. Tu cosa ne dici… ?» disse ancora, più piano, mentre gli occhi scivolavano nel chiudersi, stanchi di tutto quel vuoto.

Il suo corpo esausto si afflosciò, abbandonandosi al sonno che la stava avvolgendo senza chiedere il permesso, ma un’improvvisa fitta al braccio ferito la riscosse e le strappò un piccolo lamento. Si raddrizzò nuovamente, stringendo con l’altra mano il braccio, a denti stretti. E la smorfia si tramutò in uno stentato e brevissimo sorrisetto.

Una volta di più ebbe l’impressione che il coltello, e il taglio che con esso si era procurata, le avrebbero salvato la vita, più di qualsiasi altra cosa.

Trovò in qualche modo la forza di estrarre dallo zaino il sacco a pelo, stenderlo per terra e infilarcisi dentro, imbacuccandosi il meglio possibile. Ora che era sola, e che aveva bisogno di dormire, non c’era nessuno che avrebbe potuto mantenere acceso un fuoco la notte e fare la guardia. Perciò si sarebbe limitata ad affidarsi al sacco a pelo e a tutti i vestiti che aveva per il freddo, e al suo nuovo nome per tutto il resto.

 

***

 

Un ragazzo dall’aria solitaria passeggiava sulla spiaggia ghiaiosa di un lago. Era un tramonto piuttosto silenzioso, e il sole si era nascosto dietro le nuvole ammassate tutte sull’orizzonte: nuvole di temporale.

Nella scarsa luce del tramonto estivo ombreggiato dal preludio temporalesco, egli procedeva guardando per terra, cercando. Di tanto in tanto si chinava, raccoglieva qualcosa, lo rigirava tra le dita agili, osservandolo e saggiandolo al tatto con minuziosa cura. A volte se lo metteva in tasca, altre volte lo lasciava ricadere per terra. In entrambi i casi, la sua espressione rimaneva di svagata e ironica noncuranza, senza segno di soddisfazione o di scontento, nonostante sembrasse particolarmente assorto in quella selezione.

Alla fine si fermò. C’era una barca di legno capovolta, tirata in secco sulla spiaggia, ormeggiata con una lunga corda fronzuta dal consumo, che la teneva stretta ad un pesante blocco di cemento. Il ragazzo le rivolse solo una breve occhiata, poi si chinò di fianco ad essa, guardando il legno incrostato qui e là di muschi marini. Tirò fuori la mano dalla tasca, piena dei sassetti raccolti, e ne scelse uno da essi. Con quello provò a scrivere sul legno della barca qualcosa, ma si accorse ben presto che il suo era un tentativo fallito in partenza. Scosse piano la testa, piuttosto divertito, e si rimise i sassetti in tasca. Stavolta frugò nella tasca del giubbotto che indossava, e ne trasse un coltellino svizzero. Aprì la lama più appuntita, e con essa ricominciò a incidere sul legno.

Quando ritenne di aver finito e rifinito per bene ogni lettera, in modo che fosse impressa a sufficiente profondità e avesse una larghezza e precisione che ne rendeva immediata la lettura, si rialzò in piedi e rimise via il coltellino. Si soffermò per un po’ a guardare il lavoro nel complesso, inclinando appena la testa di lato, improvvisamente serio e riflessivo. Qualsiasi cosa ne pensasse, non trasparì dal suo viso.

Si voltò e tornò vicino all’acqua del lago, le cui pallide ondine si arrotolavano sui sassolini della spiaggia. Si mise di fronte all’acqua in una posizione abbastanza concentrata, trasse un sassolino dalla tasca e studiò con occhio critico la traiettoria ed il movimento più adatto del polso, prima di scagliarlo. Il sassoso proiettile percorse una linea abbastanza diritta da riuscire a saltare un paio di volte sulla superficie dell’acqua, prima di affondarvi dentro con un sommesso piccolo tonfo.

Il ragazzo continuò a lanciare sassolino dopo sassolino, cercando di migliorare il numero massimo di saltelli che riusciva a fargli fare. Il suo migliore lancio, dopo una decina di minuti, ne contava ben sei, quando qualcosa lo distrasse.

Un rumore di passi sui sassi, dietro di lui, si avvicinava. Non sapeva bene com’era possibile, e non se lo sarebbe mai chiesto sul serio, ma riconobbe quel peculiare tipo di passo senza doversi girare. Perciò finse di non accorgersi o di non essere interessato, mentre quei passi si avvicinavano fino a giungergli dietro le spalle, e fermarsi. Per tutto il tempo pretese di rimanere concentrato nel prendere la mira per tirare il sassolino che aveva in mano, ma non lo lanciò finché non ebbe sentito la voce rivolgerglisi.

«Aria di tempesta.»

Il sassolino partì verso l’acqua, teso nella traiettoria impartitagli, e riuscì a fare solo due o tre saltelli goffi prima di affondare.

«Quello era piuttosto scarso.» disse ancora la voce, con una certa divertita malizia.

Lui alzò le spalle, e riuscì a trattenere abbastanza bene il sorriso che gli spuntava sulle labbra. Aveva già un altro sassetto in mano, e fece per prendere la mira. Sentì muovere dietro di sé, una mano si appoggiò sulla sua, e dita sottili si intrufolarono tra le sue per sottrargli il sassolino. Senza nemmeno rifletterci, si trovò a non opporre alcuna resistenza. Si lasciò prendere il sasso, con la stessa calma affettuosa con cui la spiaggia lasciava che le piccole onde le portassero via i suoi sassi, facendoli rotolare in un chiacchiericcio che sembrava sciocco e leggero. Ma non resistette alla tentazione di spiare la ladra gentile.

Incontrò un breve sguardo color acquamarina, incorniciato da capelli scuri come cioccolato fondente, e spettinati come se loro la tempesta l’avessero già vista, e non gli fosse sembrata niente di così straordinario, in confidenza. E, di nuovo, sentì la curiosa sensazione che doveva provare la spiaggia, di starsi disgregando poco a poco, pur se aveva la certezza di lasciare i suoi pezzi alla fidata acqua, che li scombussolava un po’ ma, in fondo, non li portava lontano, e gliene restituiva la maggior parte con qualche onda di ritorno, probabilmente.

La ragazza stava già prendendo la mira a sua volta. Scagliò, in un modo molto meno scattante eppure più spedito del suo, e il sasso sfrecciò sull’acqua come se ci giocasse. Cinque salti, anche se l’ultimo era già un mezzo tuffo. Lei si voltò a sorridergli, contenta, ma anche con un accenno di impudente vittoria.

«La fortuna della principiante.» disse lui, senza trovare di meglio come commento.

Lei rise, allora, cogliendolo curiosamente alla sprovvista, per il suono cristallino del suo divertimento.

«Ah…, te l’ho insegnato io come si lanciano.» gli ricordò la ragazza.

«E io ho un record più alto del tuo.» ribatté lui tranquillamente, cercando di non sbilanciarsi mostrando la sua voglia di vincere, almeno a parole «Giusto prima che tu arrivassi ne ho fatti sei… sei  e mezzo di fila.»

«Questo è il tuo record?» chiese lei, pregustando che l’avrebbe spuntata.

«Certo che no.» spiegò lui, impegnandosi sempre nel mantenere l’espressione di superiore distacco scherzoso «Una volta ne ho fatti nove.»

Finalmente sul viso di lei si disegnò lo stupore. Ma poi incrociò le braccia sul petto e ritornò la sfida nei suoi occhi. «Non me la bevo.» gli comunicò.

«Dici così perché tu non ci riesci a fargli fare nove salti.» la punzecchiò, certo di colpire nel segno.

La conosceva abbastanza bene da cogliere ogni minimo segno di fastidio, e seppe di averci azzeccato quando vide un brevissimo tremolio in uno dei suoi sopraccigli. Lui, invece, fece più fatica a trattenersi dal lasciar trasparire qualche segno di come si stava gustando il dolce siero della vittoria.

«E’ solo che ho imparato a farli saltare ancora prima di imparare a contare.» trovò tuttavia da ribattere sagacemente lei «E quando te ancora non sapevi dirla la parola ‘sasso’.»

Lui ghignò, divertito. Avrebbe potuto batterla col gioco dei sassi, forse, anche se non era mai arrivato sul serio a nove salti, ma lei avrebbe trovato lo stesso il modo di spuntarla, a costo di lanciare tutta la spiaggia nel lago per esercitarsi, sasso dopo sasso. Aveva voglia di sfidarla a chi riusciva a fare prima a scambiare di posto il lago con la spiaggia. E forse, se si fosse sentito particolarmente bendisposto, avrebbe usato un cucchiaino bucato, lui, per l’acqua, in modo che lei vincesse, e poi non glielo avrebbe mai confessato. Ma lei lo avrebbe capito lo stesso, e avrebbe preteso di ricominciare la sfida da capo. Così, alla fine, il lago e la spiaggia sarebbero tornati al loro posto originale.

«Cosa ci fai qui?» le chiese, per cambiare argomento.

«Io? Io abito a un tiro di schioppo da qui. Tu, piuttosto?»

«Sono mesi che vengo qui a fare un giro ogni tanto.» le ricordò.

«Sì… ma non mi aspettavo di vederti prima di un temporale.» rispose lei, lanciando uno sguardo alle nuvole temporalesche che borbottavano in lontananza. Non sembrava per niente preoccupata, e lui le invidiò qualcosa che non riuscì a capire.

«Non mi dispiacciono, i temporali.» disse solo, staccando a malincuore lo sguardo da lei per rivolgerlo alle nuvole.

«Beh… su questo ti capisco.» disse lei, con un lieve sospiro.

La ragazza alzò le braccia sulla testa, allungando le mani verso l’alto, e si alzò sulla punta dei piedi, stiracchiandosi con piacere rilassato ed energico. Stavolta lui si concentrò appositamente per non voltarsi a guardarla troppo direttamente.

«Sembri stanca.» osservò solo.

«Hm… no, non particolarmente. È stata una giornata di lavoro come altre.» tacque, e la sua espressione divenne seria e pensierosa. Allora l’altro non disse niente, intuendo in qualche modo che avrebbe presto ripreso a parlare: stava solo cercando le parole.

«Per la verità è che…» incominciò lei, poi esitò un momento, e rivolse un lieve sorriso malinconico e incerto all’orizzonte già lampeggiante di fulmini e ribollente di nuvole livide «Per la verità, quello che non riesco a sopportare è l’idea di dover passare una vita così, quando avrò finito la scuola. Una vita a lavorare.»

Lui si stupì, e non ne comprese il perché. Era la cosa più naturale che avesse mai sentito, eppure faticava ad associarla all’immagine di lei, per qualche motivo.

«Ci saranno altre cose, nella tua vita…» disse, pacatamente. Se ne sentiva convinto. Non avrebbe potuto sopportarlo se non fosse stato così.

Lei lo fissò, quasi scettica, ma alla fine sorrise, e poi rise calorosamente.

«Sì, probabilmente hai ragione.» ammise  «Era ora che mi insegnassi qualcosa di tuo, visto che col gioco dei sassi proprio non ci sei.» lo provocò.

«Questo lo dici tu…» obbiettò lui sogghignando «Però …» qualcosa di ciò che stava pensando lo fece schernire fugacemente «Non ho niente da insegnare a questo proposito.»

Lei diventò molto seria, e tacque, non osando dire ad alta voce nient’altro.

Mentre guardavano in silenzio la tempesta avvicinarsi, lui iniziò  ad udire un suono diverso da quello dei tuoni lontani: un canticchiare sommesso. Ascoltò.

«Vorrei due ali d’aliante… per volare sempre più distante… e una baracca sul fiume… per pulirmi in pace le mie piume…

Lei si interruppe quando si rese conto che la stava guardando, e sorrise con una smorfia timida di chi non si sente davvero così in imbarazzo.

«Non la conosco…» disse allora lui, mancandogli il sentirla cantare piano, piuttosto stonata, ma con quel tono così dolce «Continua…» la invitò, con esitazione.

«Non ricordo le altre parole…» confessò lei, un po’ stupita dalla richiesta «L’ho sentita prima alla radio…»

«Non importa…» disse lui «Cioè… non importano le parole… quelle erano belle.»

Lei rise di nuovo.

Poco dopo un roboante preludio di tuono risuonò molto vicino, e le nuvole stavano accelerando, sospinte da un vento d’alta quota che lì, sulla spiaggia e sul lago, quasi non si avvertiva.

«Hai intenzione di prendere l’acqua?» chiese lei.

«Sì, al volo naturalmente.» scherzò lui per un attimo, con un lieve sorriso rivolto al lago. Poi disse, più seriamente, e fingendosi più distratto di quanto non potesse essere quando c’era lei «No. Non ho voglia di un raffreddore.»

«Mhm.» mugugnò solo lei, giusto per dare segno di averlo sentito.

Diversi minuti dopo, però, erano ancora lì immobili. Lui giocherellava coi sassolini che gli erano rimasti in tasca, mentre lei canticchiava a bocca chiusa ancora il motivetto della canzone che aveva accennato prima; forse si erano semplicemente dimenticati di muoversi. Quando le prime gocce iniziarono a cadere erano ancora dove si trovavano.

La ragazza iniziò a sbattere le palpebre ogni volta che una goccia le cadeva sulle ciglia, infastidendola, e alla fine disse «A questo punto la prenderai comunque l’acqua.»

«Beh…» esitò lui, guardandosi intorno «Non è detto…»

Seguì il suo sguardo, e si ritrovò a fissare anche lei una barca di legno, tirata in secco e capovolta sulla spiaggia. Sorrise, divertita, e ci si avviò con curiosità quasi infantile, affiancata dall’altro.

Quando vi giunse di fronte, però, si fermò, stupita. Qualcuno aveva rozzamente inciso una parola sullo scafo, sgrattuggiando la flora marina che vi si era incrostata, e scheggiando il legno. La lesse, si fece assorta, e di getto mormorò «Che bel nome… »

Il ragazzo se ne sorprese «Davvero?»

«Sì, è…» iniziò lei, ma si interruppe colta da un’intuizione, e si voltò a guardarlo con divertito sospetto «Ma sei stato tu?»

Alzò le spalle, sentendosi vagamente accusato «Può essere.»

Lei sorrise vivacemente «Sì, è un bel nome.» confermò. «Di chi è?» chiese ancora, curiosa.

«Come di chi è? Della barca, no?»

«Voglio dire… insomma, è di qualcun altro?»

«Che ne so. Di nessun’altro che io conosca.»

Lei ne sembrò contenta, poi afferrò la barca per il bordo, infilando le dita tra il legno e i sassetti della spiaggia.

«Che fai?» le chiese, ma già si sentì stupido per la domanda, mentre ancora lei gli stava rispondendo.

«Se deve servirci da riparo, dovremo pure metterci sotto, non ti pare? O pensavi di scavare un tunnel?» scherzò.

«Era una domanda retorica… anche perché non credo che riuscirai a sollevarla…»

Lei smise immediatamente di provarci, e si volse a rivolgergli un’occhiata sarcastica. «Allora, fallo tu.» disse, tranquillamente.

Si fece avanti, afferrò a sua volta il bordo della barca e provò a far leva, e si rese conto che era più pesante di quello che aveva pensato. Si chiese se fosse solo la sua impressione che la ragazza si stesse divertendo ora nel guardare i suoi sforzi, e se avesse previsto che non ci sarebbe riuscito. Ma lei non disse niente, si limitò ad affiancarglisi e a dargli una mano, e in questo modo riuscirono ad alzarla abbastanza da potercisi infilare sotto, uno dopo l’altra.

Sotto la barca c’era un’atmosfera satura di odore di legno bagnato, con un vago accenno di marcio, ed era praticamente buio. La prima cosa che fece lui fu accendere l’accendino che aveva con sé, per fare luce, e si sorprese nello scoprire che lei aveva un indice in bocca.

«Ti sei fatta male?»

«Eh?» fece lei, distraendosi dalla contemplazione dello spazio che avevano a disposizione «Ah, no. È solo una scheggia. Me la sto togliendo.» spiegò, con tranquilla naturalezza.

«Ah…» fu tutto quello che trovò da replicare, e poi, con sua stessa sorpresa, gli venne da ridere. Scoprì che non sapeva più bene come farlo, perché il suo sembrò uno strano verso, che poteva ricordare quando a qualcuno andava di traverso qualcosa.

«Cosa?» chiese lei, curiosa.

«Sei veramente…» iniziò lui.

Lei aspettò, pazientemente, ma attenta.

«… selvatica… » azzardò lui, non troppo sicuro.

La ragazza sembrò non capire cosa intendesse, non ritenerla né un’offesa né un complimento, un puro nonsenso. Per lui aveva senso, invece, ma solo paragonandola alle persone di città che conosceva. Quel tipo di persone che per una scheggia avrebbero pensato di rivolgersi a un medico.

«E tu non ne hai prese di schegge?» si informò lei.

«Sì…» per un attimo gli venne in mente che avrebbe potuto succhiare anche le sue dita per togliergli le schegge, e si imbarazzò abbastanza da dire in fretta, in tono scherzoso «Vuoi togliermele tu?»

Lei lo guardò con aria di sfida «Sì, dammi il coltellino.»

Decise di stare al gioco, grato che non si fosse accorta o avesse fatto finta di non accorgersi del suo imbarazzo travestito alla bell’e meglio da sicurezza di sé. «Allora no, grazie.» celiò.

Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di importante che stava sfuggendo loro, qualcosa che aveva a che fare con la barca, anche se al momento non riusciva a farselo venire in mente, e, per la verità, al momento gli risultava proprio difficile il pensare, anche se non era sicuro di volerne scoprire il motivo. Dopotutto quell’ambiente non sembrava così male, nonostante l’umido dell’aria che trasudava dal legno.

Sentì che lei rideva di nuovo, e vide che lo stava guardando.

«Cosa c’è?» chiese, cercando di non prendersela troppo prima di aver appurato il motivo del suo divertimento.

«Sembri… hai i capelli bagnati, e si sono… arruffati, sì. Sembri un uccello con le penne bagnate.» spiegò lei, ancora divertita.

«Hmm.» mugugnò lui, incerto se ritenerla una provocazione «Che genere di uccello?»

Lei lo guardò per un po’, prendendosi il tempo di studiarlo con calma.

«Un corvo.» disse alla fine, con sicurezza.

«Un corvo…» ripeté lui lentamente, assai poco convinto. L’accendino che aveva in mano si spense.

«Credo che sia finito il gas.» le comunicò. Sentì un leggero fruscio di vestiti, e gli parve di intravedere che lei aveva alzato le spalle.

«Niente di grave.» commentò.

La pioggia stava iniziando ad abbattersi con una certa violenza sui sassi della spiaggia, fuori, e a rumoreggiare sullo scafo del loro rifugio improvvisato.

«Se quando smette di piovere siamo asciutti, significa che questa barca può ancora navigare.» disse lei.

Silenzio.

«Perché vorrà dire che non ci sono falle.» esplicitò.

«L’avevo capito.» si difese lui.

«Dici davvero, corvo?» disse allusiva, lanciandogli uno sguardo provocatoriamente divertito.

«Hey… non mi sembra che siamo abbastanza in confidenza da darci dei soprannomi…» osservò allora lui, scherzosamente.

«Sinceramente il tuo nome di battesimo non mi dice niente di che.»  gli disse lei.

«E invece ‘corvo’ cosa ti dice?» indagò, ironico.

«Mah… mi ricorderà di quando abbiamo avuto la bella idea di ripararci dalla pioggia sotto una barca rovesciata…» ribatté, sardonica.

«Ma tu potresti anche andare a casa, veramente, abiti da queste parti, no?» ripiegò.

«Avrei dovuto farlo prima. Ormai piove troppo.» disse solo lei.

Lui, in qualche strana maniera, si sentì particolarmente felice che non avesse colto il suo suggerimento. La vera domanda era perché glielo avesse detto… Forse stava solo cercando di auto sabotarsi, e anche se non ne sapeva il perché, qualche valido motivo doveva pur esserci, no… ?

«Era un tentativo di cacciarmi?» chiese lei, infatti.

«No…» rispose, troppo impulsivamente per i suoi gusti. Si schiarì la gola, per recuperare un tono distaccato «Anche se qui sotto non c’è tanto spazio.»

«Potresti sempre andare fuori a prendere l’acqua.» gli rimbeccò lei.

Si ritrovò a chiedersi se si era offesa davvero, anche se il loro era ancora un tono di scherzo.

«Dovrò dare un soprannome anche a te, mi sa.» disse infine, cercando di recuperare.

«Ti tocca.» concordò lei.

«Allora…» tacque, riflettendo, ma non gli veniva in mente assolutamente niente: non trovava il modo di riassumerla efficacemente. Forse, se solo lei non fosse stata proprio lì, ci sarebbe riuscito meglio. Aveva bisogno di prendere le distanze per poterla riassumere, così era un tentativo perso in partenza.

«Non so…» ammise infine, scoraggiato.

«A me piacerebbe…» e disse il nome che lui aveva inciso sulla barca, venendogli in aiuto.

«Non è possibile… c’è già la barca che si chiama così.» la informò lui. Stavolta sì, lo sentì chiaramente: l’aveva scontentata.

Il ragazzo si rialzò sulle ginocchia, e cercò di sollevare di nuovo la barca per uscire.

«Sta ancora piovendo.» gli disse lei, chiedendogli implicitamente che diavolo volesse fare.

«Devo andare a fare una cosa. Torno subito.» Si interruppe un momento e le lanciò uno sguardo «Hem… potresti aiutarmi a sollevarla?»

Lei lo aiutò, e lui riuscì a strisciare fuori di nuovo.

Sotto la barca, la ragazza rimase in ascolto, cercando di distinguere qualcosa oltre il tamburellare selvaggio della pioggia sullo scafo. Però non riuscì a sentire i passi che si allontanavano. Poi un rumore, prima sommesso poi sempre più forte e ripetitivo, la fece sussultare. Sembrava che qualcosa stesse grattando da fuori contro la barca. Si chiese con sincera curiosità che cosa stesse combinando, ma si risolse ad aspettare ancora.

Dopo diversi minuti sentì un bussare sul legno. Di nuovo fece leva per sollevare il bordo, sentendo la forza dell’altro che si univa alla sua dall’altra parte. Poi il ragazzo, praticamente fradicio, strisciò dentro. Aveva in mano il coltellino svizzero, chiuso, e quando fu di nuovo seduto sotto la barca se lo rimise in tasca.

«Beh?» chiese lei, aspettando una spiegazione.

«Adesso la barca ha un altro nome.» le disse.

Con suo stesso disappunto, lei rimase senza parole. Infine domandò «E come si chiama adesso?»

«Fortuna.»

«Un bel nome per una barca… molto adatto.» approvò, con sincera ammirazione. Esitò, poi chiese «Quindi io posso avere il nome che aveva prima?»

«Sì, adesso sì.» confermò lui.

«Così sembra una cosa molto superficiale…» osservò allora la ragazza, ancora scontenta.

«Vuoi che te lo incida col coltello anche a te?» scherzò lui.

«Ah, dai!» protestò lei, ridendo, ma con ancora un’ombra di delusione.

«Va bene… forse c’è un altro modo…» disse lentamente lui.

«E sarebbe?»

«Beh… dovresti chiudere gli occhi.»

«Siamo al buio praticamente.» notò lei, decisa a dargli filo da torcere.

«Ma sì… non è per quello… è una questione di rituale.» si schernì appena lui, trattenendo un sorriso teso.

«Hm… va bene…» si arrese, pur senza sembrare affatto fiduciosa. E li chiuse davvero. Comunque, non era certo abbastanza per farla sentire senza difese, lo sapevano entrambi.

Ad occhi chiusi, lo sentì muoversi, e aveva già intuito da un po’ le sue intenzioni quando percepì il suo respiro solleticarle le labbra. Quello che non aveva previsto,e che non si sarebbe immaginata, era di sentirlo esitare a tal punto. E, soprattutto, che si sarebbe sentita in quel modo.

Le sussurrò pianissimo il nome che lei voleva sulle labbra, rimanendo a una frazione di centimetro di distanza, e poi lei sentì che si stava ritraendo di nuovo. Allungò le mani alla cieca, impulsivamente, e riuscì ad afferrarlo confusamente per i vestiti. Il ragazzo si fermò, e gli sentì addosso la sorpresa, e un lieve timore che la sua fosse rabbia. Ma non lo era, qualsiasi cosa fosse. Ad occhi socchiusi cercò di trovare quelli neri di lui nella penombra, e si ritrovò a fissare uno sguardo incerto, nudo, scoperto nell’insicurezza quasi timorosa verso qualcosa che lo spaventava e lo attirava ad un tempo.

Lei lo tirò piano per i vestiti, invitandolo a riavvicinarsi di nuovo.

Si baciarono piano, cercando di acquisire confidenza reciproca l’uno con la bocca dell’altra, e viceversa, con una pazienza che sembrava in grado di smagliare il tempo abbastanza da renderlo amico, piuttosto che arbitro severo. Dopo pochi istanti, però, il ragazzo si ritrasse un po’ di nuovo, staccandosi. Si guardarono negli occhi per un momento, ma lei non riusciva a trovare nei suoi alcun segno di pentimento, per quanto gli stesse chiedendo col suo sguardo di dirle qualcosa, senza parlare.

«Mi è venuto in mente... che…» mormorò lui, quasi timidamente «Una barca di legno… potremmo essere colpiti dai fulmini.»

Per qualche motivo lei ebbe un ammanco di razionalità tale da farle credere che lui stesse facendo della poesia. Ma si riprese abbastanza in fretta da capire che stava parlando seriamente, e molto materialmente. Sul viso della ragazza si disegnò una buffa espressione divertita, e poi scoppiò a ridere, neanche si stesse facendo beffe della costernazione preoccupata che aveva invece l’espressione dell’altro.

«No… scusa…» chiese poi perdono, per chiarire che non stava ridendo di lui «E’ che… non ci avevo pensato…»

Quanto a lui, al momento riusciva solo a pensare che avrebbe voluto baciarla ancora, fulmini o no.

 

***

 

Fortuna sussultò e si svegliò, le due cose in una, e un curioso pensiero in testa: ‘non sono una barca’.

Poi, più lentamente, si sforzò con la logica di uscire dai residui del sonno pesante dal quale andava riemergendo, per realizzare meglio dove si trovava. C’era un silenzio profondo, tutto intorno a lei, e lo trovò quasi allarmante. Per qualche motivo, si aspettava di sentire scoppi di tuoni rimbombanti, ed elettricità che sfrigolava nell’aria satura di umidità. Invece, c’era solo un tenue suono pacato in sottofondo, continuo e irregolare.

Dalla sua posizione sdraiata, imbacuccata all’interno del sacco a pelo, lasciò vagare lo sguardo sugli alberi della foresta, immobili e silenziosi come sempre, i contorni delle loro sagome confusi dalla pesante penombra dei tramonti di quel luogo, che cadevano precipitosamente, e senza traccia di sole, ma solo densi di grigio e di notte che avanza sulle montagne. Si era abituata a quel genere di tramonto. Ma aveva la sensazione, ora per la prima volta, di aver conosciuto un modo diverso del sole di calare sull’orizzonte, di aver conosciuto altro genere di orizzonti.

Il suo sguardo strisciò intorno, sulla neve, e subito trovò la fonte del rumore. Minuti e radi fiocchi bianchi si muovevano nell’aria, cadendo dall’alto verso il basso senza grandi deviazioni. Il vento si era placato, iniziava a nevicare lentamente. Almeno c’era qualcosa che si muoveva lì, visto che lei era ancora immobile.

Considerò con una certa apprensione il tetto di fronde sopra la sua testa, chiedendosi se si fosse dovuta preoccupare di rimanere sepolta dalla nevicata mentre dormiva. Ma i fiocchi non superavano per niente la cortina di aghi verdi sopra di lei. Bene, perché non aveva nessuna voglia, al momento, di fare alcun movimento. Si sentiva ancora molto stanca. Ma sentiva anche una grande tristezza, una malinconia che faticava a individuare. Forse aveva a che fare con ciò che aveva sognato. Ma aveva sognato? Non ricordava di aver sognato nulla.

Eppure una strana nostalgia la avvolgeva, rendendo in qualche modo affettuoso persino il caldo abbraccio del sacco a pelo. Chiuse gli occhi che si andavano inumidendo, cambiò un po’ posizione nel sacco a pelo, e si lasciò di nuovo scivolare verso il sonno. Sogni o non sogni, voleva solo dormire ancora, cercare di curare quella stanchezza profonda, le radici della quale aveva rinunciato ad inseguire.

Si addormentò, stringendosi al petto il coltello nella sua custodia.

 

 

 

* da ‘Non voglio mica la luna’, di Marina Fiordaliso

 

  
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