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Autore: TuttaColpaDelCielo    09/12/2011    1 recensioni
Non abbiamo che le nostre cicatrici, e per trovarvi un senso possiamo solo scavare nel passato.
Possiamo solo ricordare.

Respirano aria di morte, guardano il loro mondo coprirsi di cadaveri. Anni più tardi saranno dei reduci senza speranza e senza gloria; ora sono solo formiche che si muovono su una terra agonizzante, ignare che l'Occidente sta per vedere un'alba rossa di sangue.
I loro ultimi giorni, l'ultimo sussulto di vite già distrutte.
Il crollo delle architetture vacillanti su cui hanno modellato il loro mondo.
Seconda classificata al contest Let's fly on fantasy's wings indetto da SunnyPain.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3 – Equilibrio


Non so se capì subito la portata della sua decisione, quando la scelse. Provai a chiederglielo spesso, negli anni, ma non rispose mai; o, se lo fece, non fui in grado di interpretare le sue parole.
Non la amò, di questo sono certa – lei non glielo avrebbe mai permesso, né d’altronde ve ne fu il tempo. Forse si odiarono, in una lotta per la supremazia a cui mancò la fine, o si compresero e tremarono insieme all’avvento della rovina.
Erano più simili di quanto volessero ammettere: cacciatori feroci e profeti folli, parlavano del passato come fosse il futuro e inseguivano pensieri circolari. Se si fossero incontrati in altre circostanze, questo gioco di richiami e affinità avrebbe potuto unirli; ma era un legame sbagliato, o forse lo era il mondo stesso, e qualsiasi cosa vi fosse tra loro non ebbe che il tempo di germogliare.


Sul soffitto c’era una macchia simile a una quercia. Le radici apparivano lunghe e definite, la chioma si allargava con precisione e compattezza.
Si chiese non fosse la penombra o la propria immaginazione a falsarne la forma – non le lacrime, perché non si era permessa di piangere, mentre la sua attenzione si aggrappava a quell’immagine.
Continuò a fissarla, rifiutando di pensare ad altro: sì, quella quercia sembrava proprio perfetta non al materasso troppo sottile, ai lividi, alle labbra sanguinanti, ma forse aveva trovato una piccola imperfezione, uno spazio vuoto dove le radici si saldavano al tronco non al rivolo rosso che le scendeva tra le cosce, al dolore che la tormentava e la chioma appariva un po’ troppo piccola, guardando bene.
Non agli occhi d’argento che ancora non l’abbandonavano, dopo averla trafitta per tutto il tempo.
Era stato disgustoso e umiliante; l’argyrion le aveva ustionato i polsi, mentre la bestia si dibatteva per liberarsi e ammazzare, e lei aveva creduto d’impazzire.
A un certo punto il viso dell’uomo aveva coperto la macchia sul soffitto, ma si era rifiutata di chiudere gli occhi – per sfida, per mostrare un coraggio che non aveva. Per non perdere anche l’ultimo brandello di dignità.
Il suo orgoglio ne era stato annientato ugualmente.
E continuava a sentire il suo sguardo su di sé, così simile a un altro – un altro che l’aveva accarezzata con desiderio e allontanata con astio, ed era stato come rivivere quei momenti, e aveva fatto male anche quello.
E continuava ad avere il suo braccio sul ventre, a tenerla ferma, e il suo fiato sul collo e il suo odore quasi animale sulla pelle – probabilmente le sarebbe rimasto addosso per sempre, come nauseante ricordo di quella notte.
«Hai freddo.» constatò lui all’improvviso.
Finse d’ignorarlo, ma si accorse di non tremare solo per il terrore.
«Presumo» fletté il capo verso i suoi vestiti stracciati e si alzò «di doverti procurare degli abiti.»
«Molto gentile.» mormorò. Non ebbe la voce ferma che avrebbe voluto, ma si ritenne soddisfatta di quella piccola sfida – poteva ancora trovare sé stessa, sotto strati di nausea e dolore.
L’uomo si voltò di nuovo, con un’aria più divertita che contrariata. La soppesò con un ghigno sulle labbra, facendo ruotare distrattamente il bracciale nero che aveva al polso.
«Preferisci rimanere nuda, ther?»
Ther. Bestia. Pronunciò l’antico insulto con lo stesso tono che avrebbe usato per un complimento.
«Tu gradiresti, immagino.» bisbigliò ancora, sperando che se ne andasse presto, o che almeno non la fissasse così.
«Che carina, vuoi farmi un piacere?»
Chiuse gli occhi, esausta.
«Trovami quegli abiti.»
Lui rise.

* * *

Ripiegò tutto sul braccio e contò alcune monete. L’altra schioccò la lingua, soddisfatta.
«La tua donna apprezzerà.»
«Credimi, Melania, è tutto tranne la mia donna.»
«Un uomo?» chiese semiseria, abbastanza sfacciata e intima per concederselo.
Rise, sinceramente divertito, e si congedò con l’abituale inchino beffardo. Ogni altro saluto si perse nel pesante cigolio della porta, ma con insolita impazienza risalì le scale verso il secondo piano senza tornare indietro a ripetersi.
Trovava Melania una donna piacevole, tanto che più volte avevano goduto della reciproca compagnia, ma l’altra era certamente più interessante. Aveva una luce selvaggia nello sguardo, un orgoglio che l’aveva portata a tacere i singhiozzi e le suppliche; sarebbe stata difficile da prostrare, e questo compensava anche l’aspetto mediocre, valutò aprendo la porta.
La vide appiattirsi un angolo, avvertita dallo scatto della chiave, stringendosi nella coperta. Sembrava un animale in gabbia, con i muscoli tesi e gli occhi terrorizzati, pronto ad azzannare per paura – e per vendetta, poiché rimaneva un’umana, o quasi.
«Sono i miei vestiti?» chiese a bassa voce.
«Solo il mantello, era l’unico ancora utilizzabile. Il resto consideralo un regalo.» tese le labbra nel quasi onnipresente ghigno sarcastico «O un pagamento.»
«Oh, grazie.» ringhiò, salvo ritrarsi con un sussulto appena si mosse verso di lei.
«Dimmi» commentò «pensi di prendere questi vestiti o no?»
Rimase immobile per qualche istante, poi si sporse per strappargli di mano gli abiti. Lo fissò – senza però incontrare il suo sguardo, si accorse – come in attesa che se ne andasse; lui incrociò le braccia e attese. Umiliarla, annichilirla. Non le avrebbe lasciato respiro – avrebbe pagato ogni gesto di sfida, fino a diventare una bambola inerme. Avrebbe pregato di essere gettata via.
Si spogliò in fretta, tremando, con espressione turbata e furiosa. Aveva gli occhi lucidi di rabbia e le labbra bluastre, e l’odore acre dell’umiliazione incollato alla pelle. Le sottovesti, invece di scivolarle addosso morbidamente, s’impigliarono sul capo; con l’impaccio di chi non vi è abituato indossò anche l’abito, bloccandosi quando le dita rigide non riuscirono ad annodare i lacci.
Si avvolse nel mantello e sbottò: «Posso andare?»
Era contraddittoria, rifletté. Si stringeva nel tessuto come a volersi proteggere e si sfogava in attimi di aggressività, lo sfidava e tremava di terrore, si ritraeva da lui e sembrava al contempo volerlo aggredire. Cercava di guardarlo negli occhi quando era chiaro che non riusciva a sostenerli.
«Non così in fretta, ther» proruppe, raggiungendola in pochi passi.
Le afferrò un polso e la spinse contro il muro, forte del proprio peso. L’argyrion era gelido sotto le sue dita, quasi quanto il cerchio di metallo scuro che portava poco sotto la mancina; lo sguardo di lei, invece, ardente di rabbia e agitato dal panico. Le afferrò il mento con l’altra mano prima che tentasse di morderlo – era il primo istinto di un lupo in trappola, e lui lo sapeva bene.
Si abbassò per fissarla in volto. Aveva i denti scoperti in un ringhio e gli occhi nocciola sbarrati – e vi vide, ancor più a fondo del dolore e del disgusto, una bestia che l’avrebbe dilaniato senza esitazione. Una bestia ferita e terrorizzata, ma pur sempre tale.
Si chiese, stringendo la presa attorno al collo, quanti avrebbero potuto biasimarlo. Non poteva essere considerata una vittima, poiché i martiri hanno bisogno di una purezza almeno apparente: era solo uno dei tanti carnefici passati dalla parte opposta. Pagava per le sue colpe, come in futuro avrebbe pagato lui, in una storia beffarda che puniva senza insegnare.
«Prima o poi sarai tu a soffrire» esalò con il poco respiro che le rimaneva, quasi avesse indovinato i suoi pensieri «e pregherò Nemesis perché la vendetta degli Anastatoi non sia nulla a confronto.»


La lasciò all’improvviso.
Sembrava colpito da quella maledizione ringhiata con odio e paura; si era aspettata uno scoppio d’ira, invece era tornata a respirare.
Si massaggiò il collo, dove aveva sentito le sue dita stringere sempre di più, e qualcosa di gelido premerle contro la pelle. Aveva seriamente temuto che l’avrebbe uccisa, nonostante sapesse di essere una preda di valore: i suoi occhi d’argento – così simili, così dannatamente uguali – si erano persi in riflessioni incomprensibili, ma la sua presa aveva continuato a soffocarla.
«Così» disse lui, fissandola con espressione interessata «tu ti rivolgi alla dea degli Anastatoi e credi nel loro ritorno?»
Voleva parlare? Dopo averla umiliata, terrorizzata, ferita nel modo più crudele e profondo, voleva parlare? Continuò a rimanere schiacciata contro il muro, senza fidarsi – il suo corpo le ricordava bene di non doverlo fare, conservando ancora i segni della notte appena passata.
«Non sono in molti a pensare che vinceranno.» continuò, allontanandosi per sedersi sul letto, in un gesto distensivo o casuale.
«E tu ci credi?» costrinse la propria voce arrochita a mormorare – distrarlo, lasciar scorrere il tempo, ritardare il momento del dolore.
«Io ne sono certo. Risorgeranno, sta già accadendo.» rispose «Anastasis. Conosci questa parola?»
«Il ritorno degli Anastatoi.» fu la risposta, a metà tra un’affermazione e una domanda.
«Distruzione e rinascita.» la corresse «Per gli antichi la storia era circolare. Lo cogliamo nella loro lingua, e nelle loro profezie.»
«E l’occidente vedrà l’alba.» sussurrò.
Occidente. Dysis. La loro nazione, la loro capitale – confini tracciati con il sangue, edifici innalzati sulle macerie di un popolo. E il terrore, come tutti i vincitori, che i vinti risorgessero per vendicarsi.
«Precisamente. Ma ora vai.» la riscosse, dimentico di ogni intenzione precedente al dialogo.
Chiamò un ragazzino, tremante quasi quanto lei, e gli ordinò di portarla via.
«Sarai così brava da non tentare di scappare, vero?» le ringhiò all’orecchio, per poi rivolgere all’altro qualche parola in un dialetto sconosciuto.
Era tornata l’oggetto, la merce, la puttana. Si rifugiò nella consapevolezza vendicativa che nessuno rimane impunito – Nemesis le aveva porto il calice della sconfitta, ma presto anche lui avrebbe assaggiato il fiele.

* * *

Poteva dire, finalmente, di aver trovato un equilibrio. L’orrore si era trasformato in abitudine, e dall’abitudine in normalità; vi si era assuefatta per non impazzire, con lo spirito d’adattamento di chi rimane aggrappato alla vita al di là dei limiti imposti dall’orgoglio – perché, si era accorta venendo umiliata una notte dopo l’altra, poteva fingersi fiera, ma in realtà era una codarda. Non aveva rinunciato a resistergli, ma non andava più oltre il buon senso: arrivata al limite della sua pazienza, chiudeva gli occhi e sperava non le facesse troppo male.
Mostrarsi più mite, oltre a rendere tutto più breve e meno doloroso, lo compiaceva; durante le loro conversazioni poteva anche azzardare qualche domanda, a volte – ricevere notizie, avere un ultimo contatto con il mondo.
Quando gli incubi le toglievano il sonno tornava a pregare la dea degli Anastatoi, e quando era troppo stanca per odiare godeva di quei piccoli privilegi. Era il suo compromesso per sopravvivere.
«Da quanto tempo siamo qui?» gli chiese a bassa voce.
Neryon inspirò in modo quasi animalesco l’odore dei suoi capelli sparsi sul cuscino, forse divertito dal brivido che non riuscì a reprimere. Gli occhi d’argento erano tornati improvvisamente lucidi, con l’aria attenta che poteva precedere tanto una risata quanto una risposta pungente.
«Perché t’interessa?»
Non si aspettava la verità, lo sapevano entrambi – poneva domande per soppesare l’altro, più che per ottenere risposta. Voleva qualcosa di credibile o di acuto, che valesse la pena ascoltare, e semplice curiosità non era una replica accettabile.
«Non ci siamo mai spostati. Se stiamo aspettando qualcuno, è un po’ in ritardo, non ti sembra?»
«E secondo te stiamo aspettando qualcuno?»


La osservò con un ghigno mentre si dibatteva nell’incertezza. Non erano interrogativi a caso, i suoi – erano un gioco mirato a farla contraddire, a logorarla, a intimorirla. Una risposta sbagliata l’avrebbe infastidito, ma non esistevano risposte giuste, e ne era consapevole anche lei.
«Non credo, dopo tutto questo tempo.» disse infine, con voce più ferma di quanto si aspettasse.
«E allora cosa pensi?»
Si voltò a guardarlo negli occhi. Poteva essere stanca, ma in profondità rimaneva ancora sé stessa – una bestia che si nutriva di sfida e orgoglio. Lo capiva e tacitamente lo apprezzava: non sarebbe stata tanto interessante, altrimenti. Non sarebbe stata lei.
«Non lo so, Neryon. Dimmelo tu.» osò.
«Perché dovrei?»
I suoi sensi acuti colsero il movimento in tempo per impedirlo, ma la lasciò fare. Sentì mani fredde scorrergli lungo il petto e le braccia, evitando istintivamente il bracciale al polso sinistro, fino a stringergli piano le dita; il suo respiro accarezzargli il collo, le labbra sfiorargli la pelle.
«Per questo.» sussurrò.
Fu una risata sprezzante e quasi feroce, la sua. Il corpo tremante e l’acre traccia della paura ispiravano il suo istinto di cacciatore, invece della sua condiscendenza, e trovava ridicolo quello scarso tentativo.
«Non offrirmi ciò che posso prendere da solo» commentò «e che le donne al primo piano sanno fare molto meglio di te.»
Lei si allontanò di scatto, con l’umiliazione che le colorava il viso e le animava lo sguardo.
«In ogni caso» si alzò dal letto, divertito e compiaciuto, per frugare tra gli oggetti ammucchiati in un angolo «siamo ancora qui perché le strade non sono più sicure. Il fronte si avvicina.»
«Ma era ancora al Dara.» sussultò.
«Quasi una luna fa. Nemesis assiste gli Anastatoi, Ahdle, ti aspettavi che perdessero?»
«No, ma è...» scosse la testa «Pensavo che avrebbero impiegato di più.»
«Abbiamo i giorni contati.» disse – ed era una sentenza dal gusto quasi rassicurante, perché presto sarebbe finito il piacere, ma soprattutto il dolore.
Celò qualcosa nel pugno e tornò da lei. Poteva ordinarle di chiudere gli occhi, ma il profumo fresco della curiosità era troppo piacevole per sporcarlo con l’inquietudine; le si sedette accanto in silenzio e le prese il polso sinistro.
Il gelo dell’argyrion sotto le dita, una formula, il tintinnio del bracciale sul pavimento. Aprì l’altra mano e il respiro della donna si bloccò per un istante. I lineamenti severi di Nemesis emergevano dal metallo, rivolti verso il mondo con impassibile determinazione; ai lati due calici, simbolo della dea – il fiele degli sconfitti e il miele dei vincitori. Chiuse il cerchio argentato sul suo polso.
«Perché?» sussurrò lei.
«La nomini così tanto, almeno avrai qualcosa a cui rivolgerti.» ghignò.
Perché così, forse, ti risparmieranno come sua fedele.
Non lo disse.


Questo capitolo mi è particolarmente caro. Non accade nulla, in apparenza, ma si gettano le basi per il prossimo e, più in generale, per il seguito di questa storia.
Sto soppesando in questi giorni se scriverlo o meno: l'ispirazione mi ha abbandonata e, in fondo, Anastasis può esaurirsi anche solo con Ricordi. Si vedrà.
Ringrazio Falling_Thalia e Remnant per i Preferiti.
Mi piacerebbe avere qualche parere, per sapere cosa piace e cosa invece dovrei limare del mio stile ^^

A venerdì 23, con l'ultimo capitolo!
   
 
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