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Autore: ValeEchelon    10/12/2011    2 recensioni
" Ogni giorno viveva, con la consapevolezza che da un momento all’altro poteva non esserci più, non che la cosa la preoccupasse, intendiamoci: non aspettava altro, voleva morire, evaporare, andarsene da questo schifo di posto, e sebbene non credesse né in Dio, né in nessuna delle puttanate che si predicava, lei in realtà sperava in qualcosa. Sperava di poter vivere un’esistenza decente, almeno da morta, visto che da viva la sua vita aveva fatto schifo."
Dal primo capitolo.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le colline si ricoprirono presto di un sottile strato di foglie autunnali, foglie cadute dagli alberi circostanti. Il vento che soffiava sulle case , indifferente, ed insieme al cielo plumbeo davano un’aria spettrale alla cittadina che si estendeva ai suoi piedi, lasciandosi alle spalle corpi e anime.
Sophie era lì, immobile, sul quel divano costoso con uno dei tanti libri in mano che inutilmente aveva cercato di leggere. Era frustrante rimanere segregata in casa, senza nessuna via di scampo, senza nemmeno poter uscire per fumare una sigaretta al parco o semplicemente portare il cane a spasso.
“Mamma, ti prego, ho bisogno di uscire.”, aveva detto a sua madre, biascicando quasi, contorcendosi mentre l’effetto della morfina svaniva.
Sua madre l’aveva guardata tristemente e, piegando la testa, si era tolta gli occhiali, guardandola meglio negli occhi.
“Tesoro, sai come la penso. L’ultima volta che sei uscita stavi per finire di nuovo in ospedale per un’altra lavanda gastrica, l’ennesima. Non puoi continuare così o..”
Non aveva finito la frase.
Sophie era scoppiata in un pianto isterico, proprio come una bambina di quattro anni quando le si proibisce di guardare la tv. Aveva il viso stretto tra le mani, le unghie mangiate a pelle, le dita sanguinanti.
Clara si era inginocchiata accanto a lei e le aveva abbracciato le gambe, anche lei fra le lacrime. Voleva bene a quella figlia, più di qualsiasi altra cosa, e se avesse potuto scegliere tra lei stessa e la sua bambina, non avrebbe avuto dubbi. L’unica bambina, la sua unica bambina, era destinata a morire prima di lei ed immaginare la sua vita senza era uno strazio, una delle peggiori torture.
Perché proprio a sua figlia e non a lei?
Perché Dio, a cui lei era sempre stata fedele, non aveva potuto far nulla?
Perché recidere giovani vite quando se ne possono scegliere altre?
Non c’era una risposta ben precisa e le lacrime di quella giovane madre continuavano a scendere numerose.
Non voleva dire che la figlia, se avesse continuato con quei ritmi, non avrebbe fatto altro che accelerare la sua morte. Non voleva dirlo perché era lei l’unica cosa preziosa che aveva, l’unica vera. Non era un diamante, un collier, o una pietra preziosa: era una creatura, la sua creatura, quella che aveva i suoi stessi occhi, le sue stesse labbra, gli stessi tratti e lo stesso sangue.
Voleva accontentarla nelle sue ultime volontà, voleva farla felice, almeno prima che morisse: le aveva promesso di seppellirla lontano dal cimitero, fuori dalla città, sotto quel ciliegio che tanto le piaceva da piccola, sotto quel ciliegio adorato, dove aveva dato il primo bacio e avuto la sua prima volta, quel ciliegio con ancora su il suo nome e il nome del fratello intagliati.
“Lasciami uscire- continuò- sono con un amico, puoi accompagnarmi tu se vuoi.”
A quella frase Clara si era alzata e si era asciugata gli occhi con la manica del golfino rosso di lana, per poi guardarla teneramente.
“Non mi stai mentendo, vero?- rispose preoccupata- Non te ne andrai via non appena avrò girato l’angolo, vero?”
Lei fece un cenno di diniego, poi prese le mani della madre fra le sue e le strinse forte un po’ per poi sfiorarle con le labbra.
“Perché dovrei farlo mamma? Per favore, non voglio stare qui, da sola. Voglio andare fuori, voglio vedere la gente, voglio vedere il mondo. Ti prego.”
L’affetto profondo che provava per la figlia soffocava persino la paura di perderla, persino il timore della morte: quella ragazza soffriva e lei non faceva altro che aggravare la situazione tenendola segregata in casa, senza alcun contatto esterno, senza amici, senza legami.
“Va bene, ti accompagno io. Dove devi andare?”, rispose asciugandosi il naso sottile.
Sophie sorrise contenta, abbracciò la madre ancora seduta ai suoi piedi e le diede un bacio sulla guancia fresca e bagnata. Stava cercando un posto dove andare, un posto dove mettere fine alla sua solitudine, quella solitudine che le divorava cuore e anima, ma non c’era nessun posto in cui valesse la pena andare.
“Voglio andare in ospedale a trovare un amico.”, mentì.
Non voleva andare in ospedale, non aveva nessuno lì, nessuno che l’aspettasse, voleva solo uscire a fare due passi per il paese, guardare la gente, i negozi aperti, la confusione, il traffico; voleva andare al parco, sedersi all’ombra di un albero, ascoltare la natura, ascoltarla nel suo scorrere.
“Va bene.” Disse poi Clara, alzandosi e prendendo le chiavi dell’auto mentre si infilava una giacca color crema sulle spalle ossute.
Fuori faceva freddo, il tempo stava cambiando, gli alberi erano spogli e infreddoliti. Le strade erano bagnate dall’umidità e i lampioni accesi emanavano un bagliore spettrale per le vie. Il cielo era una distesa di oro colato striato di rosa e azzurro, il sole stava per scomparire dietro quelle colline e la temperatura andava abbassandosi ogni ora che passava; l’auto scivolava impercettibilmente sull’asfalto lasciando una scia invisibile.
Avrebbe tanto voluto andare al mare, Sophie, avrebbe voluto sedersi sulla spiaggia, toccare la sabbia, sentire l’odore di salsedine insinuarsi dentro di lei, abbandonarsi al rumore delle onde, al rumore della corrente, magari riscaldata da un sole primaverile. Poche cose ormai riuscivano a renderla se non felice, almeno contenta; poche cose valevano davvero, poche cose erano importanti.
L’ospedale si trovava al centro della città, in un agglomerato di case e palazzi moderni, poco distante dal parco centrale di Riehen. Una miriade di luci arancioni circondava l’ambiente freddo che, alla povera Sophie, provocava singulti e palpitazioni in più rispetto al necessario.  La gente camminava per le strade tranquilla, assorta nei loro pensieri, nelle loro preoccupazioni, nelle loro vite, e nulla di quel che lei stava passando li avrebbe mai toccati; molte volte sognava di vivere un’altra vita, di essere un’altra persona, di avere un’altra casa, un’altra famiglia, magari anche degli amici, degli amici che le volessero bene, che l’accompagnassero nel cammino della sua vita, degli amici su cui fare affidamento nei momenti bui e con i quali gioire in quelli belli, ma si rendeva conto che erano fantasie inutili, che niente, assolutamente niente, le avrebbe dato questa vita. Era consapevole del fatto che stava morendo, consapevole del fatto che non si sarebbe mai sposata, che non avrebbe passato il Natale insieme ai familiari, che non avrebbe avuto nessuna gravidanza e nessun bambino da accompagnare a scuola.
“Prendo un taxi al ritorno.”, disse interrompendo il flusso di pensieri tristi che le attraversava la mente.
Clara la guardò intensamente negli occhi, come solo lei sapeva fare, sembrava scavare a fondo e leggerle in testa, ma fortunatamente così non era.
“Va bene, come vuoi. A più tardi, tesoro.”, rispose lei, scoccandole un sonoro bacio sulla guancia.
Sophie scese dall’auto stringendosi nel cappotto, dirigendosi dapprima verso l’ospedale sotto lo sguardo indiscreto della madre, poi verso il parco quando la stessa aveva girato l’angolo. Il forte odore di terra bagnata si insinuò lentamente nelle sue narici, per poi arrivare direttamente ai polmoni mentre le chiome degli alberi ondeggiavano pigramente sotto il vento gelido. Il parco era quasi deserto, salvo quei pochi quindicenni che venivano lì ogni pomeriggio per fumare una sigaretta di nascosto dai genitori o per sbaciucchiare il fidanzato senza dare troppo nell’occhio, mentre del suo pusher, che di solito passava i suoi pomeriggi mezzo collassato sulla panchina, non c’era l’ombra.
“Ci rivediamo di nuovo.”
Una voce conosciuta la fece girare e spaventare al contempo. I suoi occhi rilucevano al buio, il suo sorriso cortese gli dava un’aria di tenerezza incomparabile e aveva delle cuffiette alle orecchie.
“Tu mi segui.”, disse Sophie sbuffando e cercando di cambiare strada.
Lui scoppiò in una risata sincera, poi negò con la testa.
“Non ti seguo, frequentiamo solo gli stessi ambienti.”
A quella risposta lei fece una smorfia di disgusto, accompagnata da un sonoro “Per favore”.
“Io non frequento gli ospedali.- rispose secca- E’ una perdita di tempo, salvare l’insalvabile. E’ tutto una perdita di tempo. I malati sono condannati, il quando è l’unico interrogativo. Ma poi, credi davvero che a loro faccia piacere la vostra compagnia? Credi davvero che gli importi di avere qualcuno accanto?”
Il suo sguardo cambiò velocemente, come se un pugnale gli avesse trapassato il petto.
“Io non la penso così. Penso che non ci sia cosa più brutta che lasciare da sole le persone, lasciarle affogare nella loro disperazione, essere complici della loro distruzione. Prima ancora che salvargli la vita, è molto più bello dargli un conforto. E’ necessario, per un uomo, sentirsi amato, almeno una volta nella vita.”
Un sorrisino ironico affiorò sulle labbra della ragazza.
“Cazzate. Non sai quello che dici, non sai come ci si sente.”
“Perché tu sì?”
Sophie deglutì, girandosi verso le luci dell’ospedale e chiudendo studiatamente gli occhi. Non c’era alcun motivo per il quale avesse dovuto dirgli che stava per morire, non voleva la sua compagnia e neppure la sua consolazione, la sua compassione. Non aveva bisogno di nessuno, stava bene con se stessa.
“No, non lo so neanche io.. Io non vorrei che mi stessero accanto, sto bene da sola.”
“Sei una persona solitaria?”
“Se stare bene solo con se stessi significa questo, allora sì. Non mi servono amici a cui fare affidamento, non mi serve nessuno su cui contare. Io da sola mi vado bene.”
Sasha annuì. Si avvicinò e le sorrise.
“Secondo me hai bisogno di qualcuno ma sei troppo orgogliosa per dirlo.”
Si allontanò e si accovacciò in una panchina seminascosta sotto un salice, fin dove Sophie lo seguì.
“Io non sono orgogliosa.-decretò lei- Molti vedono la solitudine come una malattia, un morbo da debellare, da combattere e uccidere. La vedono come un disturbo psichico, uno dei tanti che soggioga l’uomo e lo trascina alla distruzione, ma pochi riescono a vederne il lato positivo. In pochi sanno che la solitudine ti dà una consapevolezza diversa della persona che sei, di quello che vuoi. In pochi sanno che questa ti aiuta a crescere senza aver bisogno di qualcuno, senza la necessità di dipendere. E’ un benessere, una continua ricerca.”
Si sedette accanto a lui e lo guardò, aspettando una risposta. Il vento soffiava ancora sulla città e i fantasmi di un inverno quasi arrivato si aggiravano, silenziosi, per i viottoli dei giardini.
“Forse hai ragione, forse no. Chi lo sa.”
Si girò verso di lei e sorrise, di nuovo.
“Ti va di vederci di nuovo?”, disse poi, interrompendo quell’imbarazzante silenzio che si era creato attorno a loro.
La mente di Sophie fu rapita da immagini di bambini, rose, altari, fedi e ringraziamenti, cosa che la preoccupò parecchio e le fece tenere gli occhi persi per un po’. Un leggero capogiro si impadronì della sua testa e per un qualche minuto stette con il respiro mozzato e il cuore che batteva come mai aveva fatto. In un attimo i giardini che la circondavano si trasformarono in un milione di lingue di fuoco che attanagliavano il suo cuore e la trascinavano nell’inferno, un inferno buio fatto di siringhe e medicine che si conficcavano sulla sua pelle con una violenza inaudita e una brutalità mai vista; poi, il nulla.
   
 
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