Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: Yoko Hogawa    16/12/2011    7 recensioni
Né Sanji, né Franky e né Brook ebbero il coraggio di risponderle. Preferirono rimanere zitti, ingoiare qualsiasi cosa avessero in mente di dire, facendo cadere di nuovo un silenzio interrotto solo dai brevi singhiozzi che Nami non riusciva proprio a trattenere.
Nessuno di loro c’era stato. Avevano saputo tutto dai giornali e, nonostante fossero corsi lì appena possibile, già dall’inizio erano tutti consapevoli di essere in ritardo.
Era troppo tardi. E quella era la Spada di Damocle che pendeva sul capo di ognuno, in quella camera odorante di sigaretta.
Ne accendeva sempre, Sanji, anche se finiva per non fumarle. Le accendeva perché almeno l’odore del fumo, così intenso e così fastidioso, copriva quello di terra e sangue, ferro e polvere da sparo, medicinali e disinfettante che emanava Rufy.
L’odore della guerra.

[La (mia) Ciurma di Cappello di Paglia davanti ad un Rufy appena uscito da Marineford.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mugiwara, Portuguese D. Ace, Sabo
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ammetto che, certe volte, trovo l’ispirazione in cose impensabili. Tipo le uniche due canzoni degli Zero Assoluto che avevo imbucato da qualche parte nella cartella “Musica”, ritrovate e riascoltate per puro caso. Con delle frasi che si prestano ad Illusion, tra l’altro °_____° roba impensabile.

Beh, secondo capitolo della trilogy. Ormai ci ho preso gusto, ad usare Sanji.

Ringrazio anche qui coloro che hanno commentato il capitolo precedente, facendomi davvero piacere <3

 

E ora, non mi rimane che augurarvi buona lettura ;D

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Second Illusion

 

 

Erano movimenti talmente abituali, talmente ripetuti, da essere quasi meccanici.

Accedere il fornello, riempire il bollitore d’acqua fino al livello ideale e metterlo sul fuoco. Alzare la mano verso la credenza sopra al piano di lavoro, afferrare le tazze, metterle in fila e poi procurarsi il tè, nel ripiano superiore della stessa credenza.

Non è niente di diverso, si disse.

Non era niente di diverso da quello che faceva almeno una volta al giorno, a volte anche di notte. Eppure, nonostante i movimenti e la cucina e la nave fossero sempre quelli, qualcosa di diverso c’era eccome.

Il silenzio. L’assenza di urla e risate sguaiate, che se non avesse saputo essere provenienti da ragazzi di quasi diciott’anni, avrebbe detto appartenenti a bambini sperduti, mai realmente cresciuti, imprigionati nel corpo di adolescenti quasi uomini.

C’era il mare, ma non era il solito oceano dal volto benevolo delle tranquille mattinate di bonaccia. Era un oceano grigio, quello che vedeva dall’oblò all’altro lato della cucina, che rifletteva il colore di un cielo altrettanto cinereo. Tuttavia si sentiva il suo fragore contro la chiglia, la risacca di lievi onde che si infrangevano contro la Sunny, ormeggiata al largo dell’Arcipelago.

Un consiglio di Rayleight. La Marina stava contando i danni e le vittime della guerra che si era appena consumata, ma non era detto che non si rimettessero in piedi prima del previsto. Non era detto che, anche in quel preciso istante, non avessero sguinzagliato silenziosi cani da caccia che, attirati dal valore delle loro taglie e dei loro nomi, avevano cominciato a fiutare l’aria in cerca della loro traccia.

Gli sarebbe bastato seguire l’odore del sangue, pensò amaramente. L’odore di guerra che il loro Capitano emanava, e che ormai stava impregnando persino le assi di legno con cui era rivestita la Thousand Sunny.

Gli bastava seguire l’odore della loro disperazione ed il tanfo della loro paura, per trovarli.

La paura di vedere perso tutto quello per cui avevano lottato, tutto ciò per cui si erano alzati in piedi e avevano sollevato il mento con orgoglio. La paura di vedere scomparire un amico.

Anche se dubitava che i cani della Marina avessero nasi così fini.

Chiuse gli occhi, concedendosi un sospiro profondo. Poi, sentendosi quasi mancare nuovamente, appoggiò le mani ai lati del fornello ed abbassò il capo.

Era stanco. Ma non di quella stanchezza realizzata di quando cucinava montagne di cibo, o di quando combatteva fino allo stremo e gli veniva chiesto di cucinare ancora per festeggiare la vittoria.

Era una stanchezza pesante, densa, dolorosa. Era lo sfinimento mentale provocato dai pensieri che però, essendo tali, era impossibile zittire.

Sarebbe morto? Sarebbe sopravissuto? Cosa avrebbero fatto, loro, senza il loro capitano? E anche se fosse vissuto, anche se avesse riaperto gli occhi, sarebbe stato comunque lo stesso Rufy di prima? Avrebbe urlato, pianto, si sarebbe disperato? Avrebbe abbandonato tutto oppure, sorridendo, avrebbe rassicurato tutti loro cercando di essere forte? Avrebbe potuto esserlo davvero, forte?

...E se fosse morto sul serio?

Aveva una mania, Sanji. Una mania che gli si era radicata nello stomaco da bambino e, nonostante avesse cercato di estirparla da dentro di sé per tutta la vita, era rimasta intatta e muta, depositata lì in fondo, al buio, al sicuro.

La mania di pensare sempre al peggio. Per prepararsi, forse.

Era nata su quella roccia in mezzo al mare, quando per giorni non aveva fatto altro che contrastare con tutto se stesso i morsi sempre più dolorosi della fame che banchettava con le sue viscere. Germogliata mentre osservava l’acqua con il pensiero fisso che quel panorama, quell’orizzonte piatto e sempre uguale, sarebbe stata l’unica e l’ultima cosa che avrebbe visto al momento della sua morte.

In quel momento, osservando l’acqua del bollitore ribollire tetramente, sentiva di avere alla bocca dello stomaco la stessa, terribile sensazione.

Era ancora seduto su quella roccia.
Non credeva che ce l’avrebbero fatta, a rimanere uniti. Senza Rufy, no.

Loro erano da sempre pirati che non si sentivano del tutto tali. Solo il Capitano aveva dentro di sé il vero spirito, il vero dono della pirateria romantica sinonimo di pura libertà, e lo irradiava attorno a sé continuamente.

Loro? Loro non facevano altro che aggrapparsi a quella volontà folle che sapeva di sogni realizzati e promesse dolci come l’ambrosia.

Fece schioccare le labbra, contrariato da se stesso. « Basta, Sanji. Chiudi quella fogna » si disse da solo, girando velocemente la manopola e spegnendo il fornello. Mise poi in infusione un numero proporzionato di bustine da tè, lasciandole immerse il tempo necessario per estrarre dalle foglie essiccate tutto il loro aroma.

In realtà, ogni membro della ciurma aveva la propria tazza. C’era chi se l’era portata da casa, come Nami e Usopp. E chi invece l’aveva comprata successivamente seguendo il loro esempio, come Chopper. E c’era, poi, chi l’aveva ricevuta in regalo perché troppo pigro per fare spirito di squadra, come quello zoticone di Zoro.

Solitamente, Sanji si sarebbe anche messo a zuccherare le tazze di tè a seconda di come lo preferivano ognuno dei suoi amici. Perché sapeva i gusti di tutti i suoi compagni e, dunque, anche quanti cucchiaini di zucchero mettevano nel tè, se ci volevano latte o limone, e persino quale tipo di tè ognuno di loro preferisse.

Ma non ne aveva voglia, in quel momento. Non sentiva dentro di sé nemmeno la spinta di essere preciso in cucina, che era come tradire la sua stessa natura.

Aveva semplicemente fatto del tè, punto. Aromatizzato alla pesca, condito nel minor sforzo possibile e con le cose più normali del mondo, e aveva cominciato così a riempire le tazze tutte allo stesso livello.

Tanto, quel tè non sarebbe stato toccato. La tazza sarebbe rimasta intoccata al fianco di ognuno di loro, perché così come lui si sentiva preda di una nausea fin troppo fastidiosa, era convinto che anche i suoi compagni avessero voglia di tutto tranne che di trangugiare qualsiasi cosa che richiamasse anche lontanamente una qualsivoglia forma di cibo.

Tè compreso.

Versò il tè in otto tazze poi, arrivato alla nona, si fermò di botto. Nonostante non avesse seguito alla lettera la sua etichetta abituale, proprio quell’abitudine lo aveva portato a fare l’errore più semplice, e allo stesso tempo così dannatamente doloroso, che poteva compiere in quell’angolo di solitudine che si era ritagliato – o in cui era fuggito.

La nona tazza, quella del suo capitano, non andava riempita. Non c’era possibilità che Rufy bevesse quel tè, non in quel frangente di tempo, e forse mai.

Strinse forte la presa sul manico del bollitore, facendolo tremare appena. Mordendosi il labbro inferiore in una sensazione mista di rabbia e desolazione lo riappoggiò sul fornello, evitando forse per una briciola residua di autocontrollo di buttarlo a terra con violenza.

Ciò che ruppe, invece, fu proprio la nona tazza. La prese con la mano destra e, in un moto di frustrazione, la lanciò gridando contro il muro.

Prevedibilmente, si infranse in mille pezzi. E lui, Sanji, ansimando come se avesse corso a perdifiato fino al minuto prima, osservò quegli stessi frammenti con una luce strana negli occhi.

Non ce la fece, semplicemente. Portandosi alla bocca la stessa mano che aveva lanciato quella tazza, strinse gli occhi in una smorfia e pianse.

Silenziosamente, come un vero uomo. Pianse trattenendo a tratti il respiro, facendo rotolare giù dalle guance lacrime sottili e salate, sedendosi a terra con la mano sinistra stretta inutilmente al ripiano.

Era arrivato al limite logico della sua sopportazione. Ora, l’unica forza a cui poteva fare appello era quella della speranza pura e semplice, quella che veramente è l’ultima a morire, poiché è l’unica che resiste anche contro l’ovvietà e la razionalità.

Quella istintiva, quella irrazionale. Doveva spegnere il cervello e sperare, basta. Non gli serviva altro.

« Sei in grado di farcela... » disse a se stesso, posandosi le dita sugli occhi e regolarizzando il respiro: « sei in grado di alzarti in piedi e tornare in quella stanza, Sanji. Sei forte abbastanza per superare tutto questo... in piedi » si disse ancora « in piedi! » insistette, facendo forza con la mano sinistra e rimettendosi diritto.

Muovendo qualche passo verso il muro, poi, si chinò e raccolse i pezzi della tazza. Li posò su ripiano di fianco al lavello, lasciandoli semplicemente lì; prese poi il vassoio con le otto tazze piene di tè fumante e, una volta assicuratosi che gli occhi lucidi non si vedessero troppo, uscì dalla cucina.

Quando rientrò nella stanza di Rufy nulla era cambiato. Tutti erano ancora fermi nelle loro posizioni, avevano le stesse espressioni e ancora non credevano in nulla.

Non avevano il coraggio di farlo, forse. O forse erano semplicemente stanchi, come lui.

Si fece forza e, senza dire niente, cominciò a distribuire le tazze agli altri occupanti della stanza. Il silenzio regnava sovrano, tanto che anche solo i suoi passi leggeri erano di disturbo e lo scricchiolio delle assi sotto i suoi piedi sembrava un terremoto.

Per quanto lo riguardava, forse per riflesso condizionato o meno, la prima cosa che aveva cercato di cogliere era il respiro del suo capitano. Non ci aveva pensato, non lo aveva nemmeno fatto apposta... ormai era semplicemente un’abitudine dolorosa di quando metteva piede in quella stanza, attecchita alla sua anima nel giro di nemmeno un giorno, ma che gli dava la sicurezza di poter continuare a muoversi.

Molto più probabilmente, perché era l’unica cosa che del suo capitano si potesse effettivamente percepire ancora.

E lo sentiva. Era ancora “con loro”.

Posò la tazza al fianco di Brook, poi di Franky e di Usopp. Di Nami, ancora abbracciata alle proprie gambe. Sul tavolino di fianco a Chopper, vicino a Robin ancora impegnata a tamponare il sudore dalla fronte di Rufy. Poi vicino a Zoro.

In silenzio, senza nemmeno respirare troppo forte. Nessuno di loro si era voltato a quel gesto, nessuno di loro aveva accennato ad un grazie e anche se una parte di sé forse doveva rimanerci male, in realtà anche lui aveva fatto quelle azioni senza nemmeno accorgersene, senza aspettarsi né ringraziamenti né, tantomeno, che qualcuno di loro bevesse effettivamente il tè.

L’ultima tazza rimasta, la sua, la tenne in mano. Ancora inginocchiato davanti a Zoro, lo sguardo era andato al suo capitano, di nuovo.

Da quella posizione, non solo il respiro era lievemente più udibile, ma l’odore di sangue e disinfettante si faceva paradossalmente più intenso. Quasi stomachevole, tant’è che la sua leggera nausea non ne ebbe molto piacere e, mettendosi di nuovo la mano davanti alla bocca, distolse lo sguardo.

Quando lo fece, davanti si trovò gli occhi di Zoro, fissi sui suoi.

Lo stava osservando con uno sguardo sinceramente inquietante, Sanji non si stupì affatto nel pensarlo. Già di solito, a volte, non gli riusciva per niente facile capire cosa passasse per la mente dello spadaccino – oppure lo capiva ma non gli importava poi molto di quelle sue idee sempre un po’ masochistiche – ma in quel momento gli era del tutto impossibile. La mente di Zoro era un cancello chiuso, di fronte ai suoi occhi, e l’unica cosa che il biondo riuscì a pensare fu che doveva alzarsi ed andarsene, magari tornare con la schiena attaccata al muro dov’era prima, ma comunque uscire dal raggio d’azione dello spadaccino prima che si accorgesse della verità.

Prima che si accorgesse della sua crisi interiore, del fatto che stava cominciando a mollare, del fatto che stare lì e vedere Rufy in quello stato gli provocava un dolore al cuore che minacciava seriamente di occultare qualsiasi goccia di ragionamento potesse persistere in lui.

Doveva nascondere agli occhi di Zoro le lacrime ormai già cadute, così come doveva far scomparire dal proprio viso la smorfia di dolore e fastidio che aveva assunto vedendo il Capitano da un punto di vista così ravvicinato.

Ma probabilmente, proprio mentre pensava a tutti quei doveri, Zoro aveva già capito tutto. E, forse, fu proprio per quello che lo fece.

Chiuse gli occhi, sottili come i fili delle proprie katane, sospirando appena. Riaprendoli – più calmi, pacati anche se intrisi ancora di quello smarrimento e di quella rabbia incolmabile – allungò la mano destra a afferrare la tazza di tè al suo fianco, portandosela distrattamente alle labbra.

Non bevve, in realtà. A malapena si bagnò le labbra per sentirne il sapore. Ma bastò quel gesto a Sanji, che lo osservò quasi curioso, in un qualche modo rapito da quella semplice mossa che di speciale non aveva nulla e aveva tutto al contempo.

Riappoggiando la tazza a terra, lo spadaccino annuì piano. « Grazie, Sanji » disse utilizzando il suo nome, evitandosi persino di ringhiare nonostante la tensione che avevano le sue spalle indicasse perfettamente il suo essere in perenne stato di agitazione.

Si stava sforzando, di questo il biondo era sicuro. Tuttavia, quello sforzo bastò a lui e a tutti loro per calmare gli animi e per decidere che, in fondo, non era giusto vedere subito il rovescio della medaglia.

Stirando a malapena le labbra in un’ombra di sorriso, tornò a sedersi al proprio posto.

Mokey D. Rufy era la persona più testarda, irrequieta, pura ed infantile che conoscesse.

Ma era anche la più fidata e la più forte. Era colui che gli aveva fatto credere che l’All Blue fosse davvero là da qualche parte e che lui potesse tranquillamente arrivarci solo volendolo, solo desiderandolo.

L’All Blue era ancora là fuori e ci sarebbero andati insieme, tutti loro.

Quindi, per questo motivo, Rufy non poteva morire.

 

 

« Ho voglia di tè ».

Ace, sospirando pesantemente da sotto la tesa del cappello di paglia, roteò gli occhi sotto le palpebre. « E con questo i minuti in cui sei rimasto senza parlare sono stati bensì due. Un nuovo record » disse ironicamente.

Rufy arricciò le labbra. « Non è colpa mia se mi annoio e ho voglia di tè » ribatté.

« Beh, qui non c’è del tè » rispose a sua volta il fratello maggiore.

« Lo so che non c’è del tè » calcò Rufy: « ho solo detto che ne ho voglia. È nell’aria ».

Potoguese D. Ace sospirò, rinunciando al sonnellino d’attesa. Era pienamente consapevole che trattare con Rufy non era come avere un animale domestico: un cane se lo ignori prima o poi si stanca, Rufy no.

« Quando arriviamo a casa chiedi a Dadan di fartene un po’ » si limitò a rispondergli, stiracchiandosi per tutta risposta con l’intento di recuperare sonnecchiando i due minuti che aveva sprecato parlando con il fratello minore.

Rufy, dal canto suo, lasciò incredibilmente perdere il discorso.

Non era per il tè che era così agitato. Certo, continuava ad averne comunque voglia, ma non era quello il problema principale che faceva dei suoi nervi tutto un fascio.

C’era qualcos’altro. Qualcosa che non riusciva a capire e che lo disturbava. Qualcosa... legato a quel cappello di paglia.

« ...ripetimi perché ti ho dato quel cappello » disse all’improvviso, mandando all’aria i sogni narcolettici di Ace.

Il quale si mangiò un’imprecazione fra i denti, arrendendosi all’evidenza di essere in svantaggio come livello massimo di pazienza.

Monkey D. Rufy era un tipo incredibilmente coriaceo.

« Te l’ho già detto... » si risolse quindi a dirgli: « ...era appeso ad un chiodo in camera tua, ti ho chiesto se potevo averlo e tu hai detto di sì. Per il resto non so cosa ti frulla in testa, dunque arrangiati » rispose piccato, attendendosi forse qualche rispostaccia arrabbiata a causa del tono – effettivamente non proprio simpatico – che aveva appena usato.

Cosa che, in realtà, non avvenne.

Rufy aveva semplicemente posato lo sguardo sul cappello di paglia e lo guardava con attenzione. Assottigliò gli occhi per vederne ogni piccolo particolare, persino l’intreccio della paglia e le lievissime scuciture nel bordo di stoffa rossa che lo decorava, pensando.

Pensando che quel cappello sembrava fin troppo usato, per essere rimasto appeso ad un chiodo per dieci anni.

...dieci anni?

Come faceva a sapere quanti anni erano?

« Che c’è? » venne distratto da Ace, che nel frattempo si era tolto il cappello lasciandolo cadere sulla schiena, un laccetto sottile a tenerlo legato intorno al collo.

Rufy, osservando gli occhi neri del ragazzo, face spallucce. « Non mi ricordo come l’ho avuto » disse distrattamente, spostando lo sguardo sui propri piedi e prendendo a sbattere l’infradito contro il marciapiede.

« È così importante saperlo? » gli diede corda Ace: « è solo un cappello » aggiunse.

Da qualche parte, in un qualche posto dentro di sé troppo profondo per saper dire esattamente dove fosse, qualcosa si ruppe.

Crepò silenziosamente come il cristallo ad un tono di voce troppo alto, facendo cadere a terra frammenti minuscoli rilucenti d’arcobaleno.

Si sentì all’improvviso come... arrabbiato. In collera con Ace per le parole che aveva appena pronunciato ma di cui, in realtà, non avrebbe dovuto interessarsi.

Aveva detto la verità. Era solo un cappello.

Solo un cappello di paglia.

E lui nell’aria continuava a sentire odore di tè.

« Da qualche parte c’è qualcuno che fa del tè » disse infatti cambiando totalmente discorso, imbronciandosi per tanti motivi e per nessuno in particolare.

Ad Ace, probabilmente, sembrò solo il broncio capriccioso di un bambino troppo cresciuto. Di fatti non rispose nemmeno, lasciandolo crogiolare nella sua agitazione a suo parere immotivata.

Passarono in silenzio meno di un minuto, poi la campana del passaggio a livello vicino alla stazione cominciò a suonare e le sbarre leggermente logorate dal tempo si abbassarono sulla stradina sterrata – al momento vuota – che attraversava i binari. Li osservarono dalla loro postazione ed entrambi, allungando gli occhi all’orizzonte, notarono la sagoma di un treno in avvicinamento.

« Almeno è puntuale » commentò Ace alzandosi dalla panchina, seguito a ruota da un Rufy che decise, per il bene del suo cervello, di mettere da parte quel groviglio di pensieri ed aspettare semplicemente di arrivare a casa.

Il treno frenò con un fischio fastidioso davanti a loro, aprendo le porte dei vari vagoni con un sibilo lieve. Dal secondo vagone di testa scese solamente una persona e, successivamente, il treno riprese il cammino.

Sabo vestiva in modo più elegante rispetto a loro: i pantaloni neri della divisa erano ben tenuti, indossava i mocassini previsti dall’istituto e sopra la camicia bianca a mezze maniche portava il gilet beije con lo stemma della scuola. Ace e Rufy gli avevano riservato il suo degno ammontare di prese in giro, a suo tempo, ma ormai scherzare sul suo abbigliamento da signorino era diventato persino noioso.

Si avvicinò a loro, slacciandosi subito il colletto della camicia e sbuffando appena – probabilmente di caldo. Subito sorrise ai due fratelli, come saluto silenzioso dopo che avevano passato la maggior parte della giornata in due scuole diverse.

« Com’è andata la mattinata alla scuola per cervelloni? » lo canzonò comunque Ace, aggiungendo l’ilarità ad una domanda sincera.

« Come sempre » rispose Sabo, passandosi la mano destra fra i ricci e corti capelli biondi: « noiosa e piena di figli di papà ».

« Ace dice che anche tu sei un figlio di papà » ridacchiò Rufy, cominciando ad incamminarsi al fianco degli altri due verso l’uscita della stazione.

« Io ero un figlio di papà » precisò piccato il biondo: « invece Ace rimane comunque il figlio di un criminale » rispose poi a tono, facendo una linguaccia ad Ace che venne prontamente restituita.

Fra loro era normale, giocare in quel modo. Erano ormai consapevoli l’uno del passato degli altri due e fra loro non c’erano segreti di nessun tipo. L’unica cosa che cercavano sempre di nascondere l’uno all’altro erano le debolezze – Ace cercava sempre di farlo, almeno – ma gli altri due erano fin troppo bravi a stanarlo.

Oltre a considerarsi fratelli di sangue anche se non lo erano realmente, non faticavano a capire di essere un trio di ragazzini non esattamente voluti dalle rispettive famiglie. Ma non lo vedevano come un deficit, e se lo avevano fatto avevano poi cambiato idea; ad un certo punto, si erano sentiti come 3 bambini sperduti lasciati a sopravvivere in una foresta dove c’erano le fate e le bestie feroci, e se ti concentravi bene potevi vedere i pellerossa nascosti nella vegetazione e, in lontananza, anche i cappelli piumati dei pirati.

E loro le vedevano ancora, le fate. Non erano mai scomparse perché, nel loro piccolo, non avevano mai smesso di crederci. Mai le parole “non credo nelle fate” avevano sfiorato le loro labbra e dunque quella luce – forse la luce dei sogni di ogni bambino – non si era mai spenta.1

Arrivarono ridacchiando all’uscita, che altro non era se non una rampa di cinque scalini che dava sul piccolo parcheggio riservato alle biciclette. Ve ne erano poche – appartenenti a coloro che da Foosha si spostavano a Goa per lavoro – e loro, in particolare, ne avevano due.

Una era una bicicletta normale da donna, un po’ vecchiotta ed arrugginita sui cerchioni, che a turno usavano Sabo ed Ace; tutto dipendeva da chi, usando quella più bassa, doveva pedalare con Rufy in piedi sul portapacchi.

Una scampagnata di un’ora – due, considerando andata e ritorno – ma che non sembrava pesare poi così tanto. Semplicemente, si divertivano.

« Questa volta tocca a te portare Rufy » disse Ace una volta arrivato alle biciclette, mettendo subito le mani sul manubrio di quella alta.

« Ehi, io l’ho scarrozzato anche questa mattina! » si lamentò subito l’altro, lanciando la cartella nel cestino di vimini della stessa bicicletta a cui si era appoggiato Ace.

Rufy, dal canto suo, sbuffò. « Guardate che posso anche pedalare io per una volta! » si sentì in diritto di lamentarsi, ma gli altri due si girarono in contemporanea verso di lui dicendo all’unisono un “non mi faccio portare in giro da mio fratello minore”, decidendo poi di risolvere la diatriba utilizzando la morra cinese.

Vinse Sabo. Dunque Ace gli lasciò la bicicletta grande e si mise alla guida di quella piccola, sulla quale Rufy salì non appena il fratello fu pronto a partire.

Uscirono tranquillamente della stazione e Rufy, aggrappato con le mani alle spalle del fratello, poté presto vedere il panorama che più apprezzava dell’intera isola: la strada sterrata che passava per il lungomare – dove per “lungomare” si intendeva una scogliera a strapiombo sull’acqua – si apriva in una vista mozzafiato sull’oceano, in cui l’orizzonte sembrava tuffarsi.

Sorrise appena, osservando in lontananza.

Aveva sognato molte volte di essere là. Di salpare dal porto del villaggio diretto verso tantissime avventure e fare il giro del mondo, arrivando fino ai suoi confini. Farsi tanti amici, magari disposti a viaggiare insieme a lui, e conoscere tante terre e tanti posti nuovi, sempre diversi l’uno dall’altro. Magari anche assaggiare tutti cibi del mondo! A pensarci gli veniva già l’acquolina in bocca.

Ma aveva già 17 anni, e quello era rimasto solamente il sogno di un bambino.

Perché loro ancora le vedevano, le fate, ma ormai non potevano più afferrarle.

Senza rendersene conto, erano cresciuti tutti e tre un po’ troppo.

Chiudendo gli occhi davanti al sole che si rifletteva sulle acque calme del male, ispirò l’aria salmastra.

Si bloccò. Inspirò meglio.

Poi, indeciso, lo fece di nuovo, con più energia.

« Che c’è? » gli chiese Ace quando il rumore di lui che tirava su con il naso cominciò a disturbarlo.

Rufy gonfiò le guance, appoggiandosi con il mento sulla testa del fratello maggiore (ignorando le lamentele dello stesso in proposito). « Sento ancora odore di tè » proferì, assumendo un’espressione a metà fra il seccato e lo stranito.

« Tè? » domandò Sabo alla loro sinistra, alzando un sopracciglio.

« Seh... » borbottò allora Ace: « è da prima che questo scemo sente odore di tè. Un odore fantasma a quanto pare, dato che io sento solo salsedine ed erba » borbottò come spiegazione.

Sabo, dal canto suo, sembrò pensarci un attimo, gli occhi fissi sulla capezzagna sconnessa. « Forse è un ricordo » disse poi, osservando i due.

« Ah?! » esclamò accigliato Ace, mentre Rufy si espresse in un curioso “in che senso?”.

« Beh... » cominciò a spiegare il terzo fratello « ...alcuni studi dicono che l’olfatto è il senso più adatto a scatenare un ricordo nella mente di una persona, e gli odori sono ciò che di un ambiente si imprime meglio nella memoria. Dunque, è possibile che lui abbia sentito lo stesso odore da qualche parte e che adesso stia avendo una sorta di allucinazione olfattiva perché non riesce a richiamare alla mente le immagini di quello stesso ricordo » completò il ragazzo, ridacchiando: « ma vi sono incollato al culo da sette anni, dunque dovrei almeno ricordarlo anche io, no? Eppure non mi viene in mente nulla collegato al tè... ».

Sabo interruppe il suo ragionare furioso al vedere le espressioni dei due fratelli completamente stranite e perse. « Che c’è? » domandò allora, le sopracciglia alzate.

« Ti ho perso alla terza parola! » affermò sincero Rufy, annuendo vigorosamente.

« Che secchione... » borbottò invece Ace, sospirando a scuotendo la testa come se fosse una vergogna.

« Lo sapreste anche voi se non vi dormiste tutte le lezioni! » sbottò allora Sabo, arrossendo un po’ per vera rabbia, un po’ per imbarazzo.

« Sì, sì... ».

« Non darmi il contentino, Ace! ».

Rufy ridacchiò al piccolo dibattito sorto fra i due fratelli maggiori, decidendo di non prendervi parte e di tornare a guardare il mare e le sue sfumature di luce. Ad immaginare di volarci sopra, o di navigarci con una nave, magari, andando oltre l’immaginabile e il conosciuto, oltre tutto ciò che si poteva trovare disegnato su di una mappa.

Sotto le dita, improvvisamente, si ritrovò la ruvidezza della paglia intrecciata. Capì che, senza volerlo, probabilmente aveva sfiorato il cappello che ancora Ace portava legato al collo, a poca distanza dalla sua camicia, essendo lui in piedi esattamente dietro al fratello maggiore.

Chiuse gli occhi per un secondo, ispirando di nuovo. Ma non fu odore di tè ciò che sentì, questa volta.

Sangue.

Sangue e polvere da sparo.

Sangue e polvere da sparo e terra e ferro e zolfo e ruggine e sudore.

Persino l’udito cominciò a fargli brutti scherzi, dopo l’olfatto.

Sentì un rombo in lontananza. Urla. Nomi mescolati ad imprecazioni e richieste d’aiuto.

« Rufy! »

Qualcuno gridava il suo nome. Sembrava preoccupato, o disperato.

O entrambe le cose.

« Rufy fatti forza! »

« Quel ragazzo rappresenta la volontà vivente di Ace...! »2

Aprì gli occhi di scatto, guardandosi intorno con fare preoccupato, il cuore che batteva violento in petto per un motivo che non riusciva del tutto a mettere a fuoco. Era sempre lì, sempre con i suoi fratelli ma era come se, al contempo, si sentisse in tutt’altro posto.

Come se quello fosse un sogno.

Si sentì galleggiare nel nulla.

Per un secondo, la realtà che gli stava davanti agli occhi assunse un aspetto intangibile, per poi concretizzarsi di nuovo in tutti i suoi colori.

Tornò, con uno scatto del capo, a guardare il mare. Per un istante, quello stesso mare aveva cambiato aspetto: la luce si era come uniformata creando un oceano di terra bianca, polverosa, in cui ombre a malapena visibili sembravano danzare.

O combattere.

Stinse gli occhi, sfregandoseli poi con la mano destra. Quando li riaprì, e guardò quella stessa mano, trattenne a malapena un grido, ma di sicuro il fiato.

Le sue mani gocciolavano, grondavano sangue. Stille rosse scendevano lente fino al polso in un lento percorso che aveva il sapore amaro di un’immeritata agonia.

D’istinto, scattò all’indietro con un colpo di reni. Grazie a quella mossa perse l’equilibrio e, al seguito, Ace perse il controllo della bicicletta.

Rovinarono a terra in un frastuono di metallo e ghiaia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1: questa non è proprio una citazione, ma un passaggio preso da Peter Pan. Ad un certo punto Peter dice a Wendy che le fate muoiono quando un bambino smette di credere in loro e dice le parole “io non credo nelle fate”. In realtà la frase è stata costruita per dire che tutti e tre non hanno perso la loro parte bambina – fondamentale per credere fortemente nei propri sogni, secondo me, però il riferimento alle fate ci stava bene.

 

2: sono due frasi prese dal volume 59; la prima è di Jimbe, la seconda di Marco.

   
 
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