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Autore: shotmedown    18/12/2011    3 recensioni
No, lei non ci credeva più. Inutile negarlo, c'era qualcosa che non andava nella sua vita, e non poteva far altro che crogiolarsi nella sua ignoranza; un giorno, forse, qualcuno le avrebbe fatto capire quanto contasse, e le avrebbe donato un mondo fatto di sicurezza e passione, ma per ora, si limitava a partire, ad andare lontano. Boston le stava stretta, Montréal era la libertà.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Cinque amici e un paio di chitarre.'
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Prima di morire, però, voglio lottare per la vita. Se sono in grado
di camminare da sola, posso andare dove voglio.

~ Paulo Coelho, Undici minuti






 

Quella sera non ci fu granché da festeggiare, anche se fortunatamente, almeno Leah, aveva ottenuto il lavoro che desiderava. Ma, come promesso, comperai tre birre.
“Alla salute!” Mi bagnai leggermente le labbra con la bevanda. Non avevo per niente voglia di bere. Non quella sera. Osservavo Leah e Jack scatenarsi in pista e non potei fare a meno di provare un profondo senso di angoscia. O di mancanza, non avrei saputo definirlo. Detestavo profondamente quei periodi di depressione. Facevano parte dei motivi per cui avevo abbandonato casa per darmi alla vita ‘sfrenata’ della giornalista culturale; se a diciassette anni ti capita di leggere sul libro di biologia che la depressione è una malattia genetica, nasce il cosiddetto ‘istinto di sopravvivenza’. Avevo paura, era vero, di non potermi godere la vita a pieno.
“ Torniamo? Domani dovrei tenere un sermone su John Cabot. Sai com’è, ci si lega alle proprie origini...” le sorrisi. Non lo dava a vedere, ma adorava quel lavoro. Avevamo sempre avuto una sfrenata passione per la storia, solo che lei parlava e io, talvolta, scrivevo. E adoravo farlo; era il mio preferito mezzo di espressione. Presi la giacca all’entrata e, mentre Jack si affrettava a prendere l’auto nel parcheggio, mi divertii a disegnare sulla neve delle cose senza senso con un bastoncino.
“Hai le guance totalmente rosse!” gridacchiò Leah, afferrando velocemente la sua Polaroid. Non ebbi il tempo di controbattere, che su un fogliettino vidi un'altra me. Sorridente. “E’ stupenda.”
“ Passabile.”
“Sam!” mise il broncio. Per due secondi. Finalmente Jack arrivò.
“ Stavo per andare in ipotermia!” Leah si mostrò d’accordo con me. Mi strofinai le braccia cercando di creare calore; e Jack non accennava ad accendere il riscaldamento.
“ Sapete che la marcia indietro non è il mio forte.” Filammo dritti a casa. Controllai il cellulare, ed esattamente come la sera prima, trovai una lista di chiamate perse esasperante: Ben. Feci quanto c’era di più sensato: lo spensi. Prima o poi ne avrei comperato uno nuovo: l’importante ora era trovare un lavoro adeguato. Mi accomodai sul divano e accesi il televisore, cercando qualcosa di satirico. ‘The Family guy’ era appena terminato, sicché attesi che il nuovo programma iniziasse. Era un film, con Jude Law. Leah mi strappò il telecomando di mano e mi impose di guardarlo. Non che non volessi, ovviamente. Ma non troppo distante dall’inizio del film, sentii le palpebre diventare fin troppo pesanti. Cercai di pensare a qualsiasi cosa, ma finii con l’addormentarmi sul divano.
 
“ Sam... ” Sole. Luna. Insieme, senza eclissi. “ Sam... ” La terra tremava. Sollevai leggermente le palpebre e vidi, sebbene sfocata, l’immagine di Leah.
“ Sei tu quella che di solito viene a svegliarmi, ma... ” Portai uno dei cuscini sul volto e mi voltai dal lato opposto. Una mano spinse leggermente la mia schiena, e la voce della mia amica sembrava rintronare.
“ Mmmh... ” Mormorai.
“ C’è qualcuno per te. ” Mi misi a sedere lentamente, strofinandomi gli occhi per vederci meglio. Quello non era Jack.
“ Cristo Santo! ” Esclamai, facendo cadere il plaid.
“ Ciao, Sam. ” Ammisi di essermi totalmente dimenticata che ci saremmo dovuti vedere. Stava di fronte al divano con le mani infilate nelle tasche del cappotto marrone, e mi fissava con aria apprensiva. Evidentemente si aspettava che fossi bella e pronta.
“ Ti dirò una cosa: è molto più carina appena sveglia che dopo quattro ore di prepara-zione. ”
Avvampai così violentemente che fui costretta a correre in bagno per sciacquarmi il volto con acqua congelata.
“ Io vado, Sam, ci vediamo oggi! Piacere di averti conosciuto, Pierre. ”
La porta si chiuse lentamente e sentii dei passi diretti verso il bagno.
“ Sei pronta? ” chiese, appoggiandosi allo stipite della porta.
“ Tu che dici? ” dissi, sbattendogli la porta in faccia. Mi gettai sotto la doccia, cercando di fare il più in fretta possibile. Uscii solo dopo dieci minuti, sperando che non fosse entrato in camera mia, direttamente collegata al bagno. Cercai di non andare a sbattere contro gli spigoli dei mobili, e, spalancate le tende e le veneziane, fui libera di vestirmi tranquillamente.
“ Mi sono servito da solo. Vuoi una Red Bull? ” gli lanciai un cuscino in faccia.
“ Ti hanno mai detto di bussare prima di entrare in camera di una ragazza?! ” Mi infilai velocemente la t-shirt e abbottonai la felpa, cercando di non prenderlo a schiaffi proprio dopo avergli quasi rotto il naso la mattina precedente.
“ Si, ma non lo faccio mai. ” Disse, serenamente, mettendo il cuscino a posto. Mi porse la mia lattina. Attesi che terminasse la sua per uscire di casa. Non sapevo neanche perché mi scomodassi tanto per un tipo che nemmeno conoscevo. Salimmo nella sua auto e la prima cosa che notai fu un volantino sul cruscotto. Annunciava un concerto degli Ash.
“ Ti piacciono? ” lo rimisi subito a posto, tornando a guardare la strada.
“ Uno dei miei gruppi preferiti. ” Furono le ultime parole che si udirono durante tutto il viaggio. Per circa quindici minuti cercai di non far trapelare la mia noia, ma poi final-mente arrivammo. Una piazzetta, stile quella del telefilm Ghost Whisperer. Me ne ero totalmente innamorata nel film, e vederne una simile dal vivo era...una bella sensazione.
“ Lì c’è un fotografo, anziano. So che ti piacciono le foto.”
“ Ma...”
“ Leggevo il giornale per cui lavoravi. Non mi trovo d’accordo con una critica rivolta a 1984, di Gorge Orwell. E’ uno dei miei libri preferiti. ”
“ Ma come facevi a sapere che fossi io? Non ho mai messo una mia foto.”
“Internet.” Detestavo quella risposta. Era...banale e scontata. E poi perché aveva cercato il mio nome su internet? Non poteva semplicemente chiedere? Restava il fatto che non avrei concesso a quel ragazzo la possibilità di sapere qualcosa di me. Neanche un piccolo, minuscolo, insignificante aneddoto.
“ Perché hai smesso? ” chiese, lasciandomi totalmente spiazzata.
“ Mi annoiava. ” Mentii. E se ne accorse.
“ Non è vero. Ci mettevi passione e lo si leggeva tra le righe. ”
“ Acuto, sul serio. ” Entrai nel negozio e, improvvisamente ogni pensiero scomparve. Forse per il fatto che quelle pellicole avevano costituito per quattro anni parte del mio lavoro, o forse perché racchiudevano mondi e vite. Pierre si diresse verso una porta, sulla quale vi era scritto, a caratteri cubitali, ‘Mark Powell’. Attendendo che uscisse, iniziai a girare per la galleria, notando, oltretutto, alcune foto fuori posto.
“ Signorina Gordon? ” mi voltai di scatto, facendo quasi cadere una cornice. Mi ritrovai davanti una uomo maturo, sulla settantina, con una camicia blu e una corona di capelli bianchi intorno al capo. “ Sono Mark Powell, il proprietario della galleria. Il signor Bouvier mi ha detto che è alla ricerca di un lavoro. ”
“ Io... ”
“ E’ assunta. ” Tagliò corto lui. “ Inizia domattina alle nove. Ovviamente, voglio assicurarmi che le mie piccole saranno al sicuro con lei...”, disse, accompagnandosi con un gesto della mano. Riuscii solo ad annuire. Si allontanò in fretta, lasciando me e Pierre finalmente liberi di andare. Non sapevo se ringraziarlo, saltargli addosso e lodarlo, oppure... “ Ma che ti salta in mente?! ”
“ Ti serviva un impiego e te l’ho trovato... ”
“ Non te l’ho chiesto. ”
“ Si chiama magnanimità; sai, uno dei tanti valori cavallereschi. ” Stavo iniziando ad irritarmi. Camminai verso la macchina e aprii la portiera, sbattendola violentemente subito dopo essermi messa a sedere. Così come all’andata, nessuno disse una parola.
Mi concentrai sulle goccioline di pioggia sul finestrino, che scorrevano lentamente sulla superficie a causa del vento dovuto al movimento dell’automobile. Forse la mia reazione era stata esagerata. Infondo, mi aveva dato qualcosa di cui avevo davvero bisogno. Senza che me ne rendessi pienamente conto eravamo arrivati sotto casa. Ed erano appena le dodici e venti.
“Pierre...” sussurrai. Mi pentii di averlo fatto.
“Mmh?”

Aprii la portiera e misi una gamba fuori, pronta ad andarmene subito dopo aver detto la parola che più detestavo. “Scusami...” Mi rivolse un sorriso, sparendo, poi, dietro l’angolo di rue McGill. 
  
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