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Autore: Alice Morgan    05/01/2012    5 recensioni
La diciassettenne Ariel Green non ha mai creduto di essere una ragazza normale. Perché Ariel, dopo la perdita del padre, è venuta in possesso di un potere terribile ed oscuro: percepire la morte imminente di chi le sta a fianco. Per le vie sporche e strette che si srotolano dal centro cittadino, negli ospedali e persino sui mezzi pubblici … ogni volta che qualcuno sta per morire, lei lo sente. E non può fare nulla per fermarlo. Fino a quando, un giorno, un terribile presentimento fa tremare ogni singola cellula del suo corpo e la lascia senza fiato. Per la prima volta la Morte non sembra cercare nessuno. Perché, questa volta, la Morte vuole lei.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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© 2012 Alice Morgan. Tutti i diritti riservati.

Capitolo 1 – seconda parte
Come sabbia tra le dita

 
 

La morte con tutta probabilità è la più grande invenzione della vita.
Steve Jobs
 

 

 
Il parere che Ariel aveva di Carl mutò drasticamente nei cinque minuti successivi. Se prima la ragazza lo trovava solo insulso e spregevole, adesso credeva proprio di odiarlo: nonostante il suo avvertimento e sebbene gli avesse fatto chiaramente capire di aver fretta, l’autista sembrava procedere in mezzo al traffico più lento che mai. Avrebbe voluto urlargli contro, dirgli di accelerare, di prendere una scorciatoia o qualcosa del genere, ma sapeva chiaramente di doversi concentrare su altro: la casa di Zac distava dieci minuti a piedi dalla fermata dell’autobus e Ariel avrebbe dovuto fare un bel pezzo di strada sotto la pioggia, una volta scesa. Con l’angoscia che a mala pena le permetteva di respirare, era conscia del fatto che sarebbe stata troppo terrorizzata anche solo per fare una ventina di passi.

Quando finalmente Carl si fermò e aprì le porte, rivelando il panorama scabro e verdastro dei boschi, la ragazza quasi si lanciò verso l’uscita. Non si sforzò neanche di rispondere all’autista, quando questo la salutò con un debole ciao.
In prossimità degli alberi il tempo sembrava, per quanto possibile, ancora più brutto e deprimente. Una debole scia di nebbia si era depositata alla base dei tronchi e un vento umido e freddo scompigliava i capelli già spettinati di Ariel.
Ancora attanagliata nella morsa della paura e del panico, la ragazza si costrinse a proseguire verso il piccolo cancello di ferro battuto, oltre il quale si dipanava lo stretto sentiero ghiaioso che portava a casa di Zac. Mentre allungava una mano per aprire il battente, sentì gli ultimi brandelli di coraggio che le rimanevano scivolarle di dosso, come sabbia fra le dita. Se da una parte desiderava con tutta se stessa fare dietrofront e darsela a gambe levate, il senso di dovere e l’agghiacciante preoccupazione che provava per l’amico, le davano la forza per andare avanti. Più avanzava, però, e più la nausea e il dolore si impadronivano di lei. Era la prima volta che si sentiva così disgregata e disfatta, quasi come se fosse sul punto di spaccarsi in due.
Pensò per un momento che la cosa più giusta da fare fosse chiamare qualcuno e chiedere aiuto.
Ma per cosa, poi? Come avrebbe spiegato un fatto così strano e particolare?
Ehi, gente, sento che il mio migliore amico sta per morire. Mi aiutate?
No.
Non le avrebbero creduto, né tanto meno dato retta. Nessuno lo avrebbe fatto. Persino sua madre l’aveva guardata come se fosse pazza quando aveva provato ad accennarle del suo dono particolare. Era una situazione che doveva sbrigare da sola.
La ghiaia sotto i suoi piedi scricchiolava man mano che procedeva lungo il sentiero e il respiro le si faceva sempre più pesante e irregolare. Maledisse se stessa per non essere nata più coraggiosa, quando una terribile scossa di panico la fece tremare forte, costringendola a piegarsi in due dal dolore.
La casa di Zac era a una quindicina di metri di distanza, le finestre chiuse e l’intonaco giallo pallido vecchio di anni che veniva via, quasi la pioggia fosse acido e avesse il potere di scioglierlo.
Ariel, ferma e ansante, non riusciva a trovare la forza per proseguire. Si sentiva male come non lo era mai stata e più si avvicinava alla meta, più la nausea e il dolore aumentavano. Era così frastornata che quasi le sfuggiva il motivo per cui si trovasse lì. Impose a se stessa di far luce nel buio che le annebbiava la mente e cercò di concentrarsi sull’immagine dell’amico: la zazzera di capelli chiari quasi sempre in disordine, il sorriso cordiale e sarcastico, gli occhi verdi acqua luminosi …
Doveva salvarlo e doveva farlo in fretta: gli voleva bene e non poteva lasciarlo solo mentre affrontava la Morte.
Con un colpo di reni si costrinse a procedere lungo la strada e a riprendere il controllo di se. Sapeva che era necessario sbrigarsi perché, per quanto sapesse di dover aiutare Zac, una vocina sempre più potente e inarrestabile la pressava e le ordinava di scappare, riducendo la sua forza di volontà in briciole.
 

***


Quasi senza accorgersene, qualche minuto dopo, impugnava tremante il pomello della porta della casa. Il suono dello scrosciare piovano era forte e sembrava sovrastare qualsiasi altro rumore. Gli alberi dai tronchi nodosi conferivano al paesaggio un’aura quasi claustrofobica, le fronde alte e verdi che andavano a formare una cappa opprimente sopra la testa di Ariel.
La ragazza suonò il campanello senza troppa convinzione. Non si aspettava di vedere l’amico correre ad aprirle la porta, ma quando ciò non accadde, venne comunque investita da una nuova e terribile ondata di panico.
La mano che teneva sul pomello si irrigidì. Devo entrare, si disse, in un vano tentativo di farsi coraggio. Devo farlo per Zac.
Chiuse gli occhi, inspirò profondamente e con uno strattone abbassò la maniglia. Lo schiocco con cui la porta si aprì la fece sobbalzare.
Troppo terrorizzata per spalancare l’anta, passò in rassegna tutti i pensieri che aveva in testa con l’unico scopo di trovarne uno che le desse il coraggio necessario per impedirle di tornare indietro. Non voleva pensare al peggio; in realtà, non voleva immaginare neanche lontanamente quello che l’aspettava dopo la porta.
Non seppe mai dove trovò la forza per entrare in casa, ma quando lo fece se ne pentì quasi immediatamente. La paura che aveva provato mentre percorreva il vialetto non era niente in confronto al panico che le gelava il sangue in quel momento. Le orecchie le ronzavano più forte che mai e sentiva le gambe molli, quasi fossero di gomma.
Dentro tutte le luci erano spente e un buio intenso intasava l’atrio. Se il tempo fuori fosse stato migliore, probabilmente Ariel sarebbe riuscita a vedere più distintamente i contorni delle cose che la circondavano.
Strizzò gli occhi: una piccola cassapanca di compensato stava immobile alla sua destra, sovrastata da una moltitudine di minuscoli oggetti. Diversi tappeti affollavano il corridoio davanti a lei. Uno di questi era stato spostato di recente. Un brivido le percorse l’intera schiena, facendola sussultare.
«Zac?», chiamò. «Sono arrivata!».
Silenzio. «Zac?».
Cercando di fare meno rumore possibile, avanzò nel piccolo corridoio puntellandosi con una mano sul muro. Sulla destra si apriva un salotto spoglio: a riempirlo, solo un vecchio divano in pelle, qualche poltrona e un piccolo tavolino sul quale era appoggiato un telefono. Probabilmente Zac aveva risposto alla sua chiamata da lì.
Ariel sentiva alcune gocce di sudore scivolarle sulla nuca e imperlarle la fronte, mentre piccoli brividi di terrore le percuotevano il corpo.
«Zac?», provò di nuovo a chiamare. Niente.
L’eco di un fruscio ruppe il silenzio tombale che aleggiava nella stanza. Ariel si voltò in direzione del rumore, il cuore che sembrava sul punto di scoppiarle. Una figura nascosta nell’ombra si sollevò imponente da dietro il divano. Era un uomo, senza ombra di dubbio – lo dimostrava la stazza delle spalle – e indossava una lunga veste che gli cadeva liscia e fluente sino alle punte dei piedi. Aveva il cappuccio tirato e scorgerne il volto era impossibile.
Fu come diventare un pezzo di ghiaccio. Ariel non sentiva più niente, né il battito cardiaco che pareva essere diventato un tamburo, né il respiro che le si era fatto irregolare e affannoso.
Gli occhi spalancati dall’orrore, cercò con lo sguardo la sagoma dell’amico, senza trovarla. Possibile che sia riuscito a scappare?
Mentre la nausea rimontava, più forte che mai, una nuova e terribile consapevolezza la risucchiava nel baratro della disperazione: si era sbagliata.
Non è Zac che vuole. Sono io.
L’istinto di conservazione fu più forte di qualsiasi altro timore.
Le gambe sembravano non rispondere ai suoi comandi quando si lanciò come un fulmine verso la porta da cui era entrata.
 
 
Note dell’autore:
Questa seconda parte è stata particolarmente difficile da scrivere. Ho dovuto riguardarla diverse volte per ritenermi lontanamente soddisfatta. Spero che a voi non dispiaccia :)
Ma bando alle ciance! Facciamo il punto della situazione: Ariel si è sbagliata; non è Zac ad essere in pericolo, ma lei. Riuscirà a cavarsela? A chi potrà chiedere aiuto? E che fine ha fatto Zac?
Scopritelo nel prossimo capitolo!

  
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