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Autore: Mary P_Stark    17/01/2012    5 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3.

“Che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo appressa
erba né biada in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lacrima e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.”
(Dante - Inferno XXIV, 107-111)

            

 
 

 


I primi anni nella famiglia Patterson furono caratterizzati da tante prime volte.

Tra alti e bassi, Melinda e Richard riuscirono a districarsi nel migliore dei modi nonostante, per loro, il mestiere del genitore fosse nuovo quanto, ormai, insperato.

Aileen Joy si dimostrò, fin da subito, una bimba vogliosa di scoprire il mondo che la circondava.

Il più delle volte, incurante dei potenziali pericoli cui andò incontro, e sorda ai richiami accorati di Melinda.

Naturalmente, Alex e i suoi fratelli ne approfittarono per infilarsi dietro la cugina in quelle spericolate avventure in giro per casa.

Ginocchia sbucciate e sonori rimbrotti da parte di zia Melinda, o della loro madre, erano all’ordine del giorno.

Unica sopravvissuta a ogni scorribanda, ovviamente, fu sempre Aileen Joy.

In maniera del tutto inspiegabile, la bambina riuscì ogni volta a evitare di farsi male – causando però non pochi danni durante i suoi pellegrinaggi.

Seppur non comprendendo come vi riuscisse, Melinda non poté che esserne felice.

La sola idea che la sua figlioletta potesse anche solo farsi un graffio era, per la donna, praticamente inconcepibile.

Fu così che, senza mai essersi sbucciata un gomito o rotta un’unghia contro un mobile o un gradino, Aileen Joy si presentò al suo primo giorno di scuola.

Tutta sorridente e per nulla timorosa di affrontare quella che, per tanti anni a venire, sarebbe stata la sua vita da allieva, avanzò senza remore verso quella nuova avventura.

Abbigliata con un soffice abitino fiorato, e armata di cestino per il pranzo e uno zainetto, Aileen Joy percorse da sola i gradini che conducevano alla scuola.

Solo quando si trovò dinanzi all’enorme portone di vetro, si volse per salutare il padre con la mano libera.

Tutto orgoglioso e sorridente, Richard ricambiò il saluto cercando di non scoppiare in lacrime.

Diversi padri, presenti a quello straziante rito di passaggio, non furono altrettanto in gamba.

Dopo averla vista scomparire oltre la porta a vetri, si avviò infine verso l’auto per dirigersi in stazione di polizia.

La certezza che Melinda avrebbe potuto intervenire in qualsiasi momento - lavorava come insegnante nella scuola - non servì a far svanire il groppo in gola, piantato saldamente in fondo alla laringe.

Aileen, nel frattempo, si guardò intorno con espressione eccitata, un bel sorriso stampato sul visino a cuore e incorniciato da bei boccoli color rosso Tiziano.

Si accodò a un gruppo di bambini di diverse etnie, e tutti diretti verso quella che sperava fosse l’aula a lei designata.

Il vociare dei bambini intorno a lei era cacofonico e mescolava ansie e paure, gioia e curiosità, panico e speranza.

Anche dentro di lei galleggiavano tutte quelle sensazioni discordanti, ma sapeva bene come affrontarle, pur non potendone dare esempio per non suscitare scalpore o, peggio, un interesse di cui non voleva essere fatta oggetto.

Aveva scoperto fin troppo presto - grazie ai suoi ricordi - che, in quel secolo, creature come lei non potevano girare alla luce del sole.

Di certo, non come ai tempi in cui Rah governava sul cielo, e lei era la sua più fidata amica e compagna.

Non appena le vecchie reminiscenze erano tornate a vagare nella sua mente di bambina, Aileen aveva compreso il suo ruolo, il suo scopo nella vita e ciò che, per nulla al mondo, non avrebbe mai dovuto fare.

Esporsi in pieno sole sarebbe stato impossibile, anzi, pericolosissimo.

No, l’anonimato sarebbe stato la sua bandiera, il vessillo dietro cui si sarebbe nascosta.

Le spiaceva non essere del tutto onesta con coloro che aveva ben presto imparato ad amare ma, per la sicurezza di tutti, avrebbe dovuto tacere.

D’altra parte, lei non era al mondo per il proprio personale piacere, o per suo diletto, ma per il bene dell’intera umanità.

Non c’era perciò motivo di prendersela se, per l’ennesima volta, non poteva fare come voleva. Dov’era la novità?

 
***


Entrare per la prima volta – letteralmente – in un’aula scolastica così pulita, arieggiata e colorata, fu per me un evento davvero degno di nota.

L’ultima volta che avevo visto con occhi di bambina, e di certo non in prima persona, una scuola, era stato al tempo di Re Enrico VIII d’Inghilterra e, da allora, le cose erano davvero cambiate!

Poter visitare un luogo così denso di colori, di dolci profumi, di oggetti dalle forme armoniose e colmo di bambini dall’aspetto sano e fiorente, fu per me fonte di gioia.

Ero troppo abituata ai cinque secoli in cui avevo vissuto nella mia precedente incarnazione, per non apprezzare ciò che ora potevo ammirare entro quelle quattro mura di vermiglio dipinte.

La morte, che mi aveva raggiunta ormai vecchia e canuta, mi aveva strappata da un ruolo che con tutto il cuore volevo tornare a ricoprire.

Forte della mia nuova gioventù, avrei potuto riprendere da dove avevo dovuto interrompere per dare alle fiamme il mio vecchio corpo di Fenice.

Avevo dedicato anni ai reduci del Vietnam e ai loro malanni fisici e morali.

Per quando fossi stata nuovamente adulta, avrei potuto riprendere da dove la mia mente laboriosa aveva interrotto.

L’uomo non poteva arrestare la sua sete di potere, e le guerre sarebbero state sempre presenti, nonostante tutto, perciò io avrei comunque potuto operare in tal senso.

Ci sarebbero stati altri malati e altre anime da salvare, e io avrei pianto per ognuna di loro, prima di tentare di riportare in esse la pace.

In quel momento, però, dovevo pensare al mio primo giorno di scuola, alle figure da disegnare con i pastelli a cera e alle nuove amicizie che avrei potuto fare.

Perché, checché se ne potesse pensare, una Fenice è per antonomasia sola per tutta la vita, ma può sempre avere degli amici con cui condividere esperienze ed emozioni!

Fu perciò con un grande senso di aspettativa che mi accomodai a un banco e, con un gran sorriso, scrutai il viso della bimba al mio fianco, un po’ pallida per l’ansia, prima di dire: “Ciao, io sono Aileen Joy!”

 
***

 
Allungata una mano in direzione della bimba dai capelli color cannella e la pelle di cioccolato che le sedeva al fianco, Aileen allargò il suo sorriso per apparire il meno terrificante possibile.

Non che pensasse di esserlo, ma era meglio partire col piede giusto.

Con voce limpida come acqua di ruscello, aggiunse: “Tu come ti chiami?”

Timida in maniera adorabile, e con una sfumatura rosata sotto la pelle scura, la bambina allungò la sua mano verso Aileen e, con un risolino, disse: “Anch’io mi chiamo Aileen.”

Sgranando leggermente gli occhi di fronte a quella notizia inaspettata, Aileen Joy allora le chiese: “Non hai un secondo nome?”

“Ce l’ho, ma non lo userei mai!” esalò inorridita Aileen, arrossendo ancora di più.

“E’ così brutto?” domandò confusa Aileen Joy, inclinando il capo di boccoli ramati.

“E’ Bernadette, e non lo sopporto proprio” bofonchiò la bimba, mettendo il broncio.

“Possiamo fare così, allora” propose a quel punto Aileen Joy, volendo sistemare le cose. “Io mi farò chiamare Joy e tu Aileen, così nessuno farà confusione. Ti va?”

“Se sta bene a te, per me è okay” ridacchiò Aileen, ora più tranquilla.

Annuendo con vigore mentre la maestra pregava i bambini ancora in piedi di accomodarsi nei banchi liberi, Joy sollevò la manina bianca dicendo: “Signora maestra?”

Levando il capo di scuri riccioli trattenuti da diverse spille fiorate, la donna sorrise benevola a Joy. “Dimmi, piccola.”

“Visto che io e lei…” asserì la piccola, indicando la vicina di banco. “…ci chiamiamo Aileen, volevo sapere se io potevo usare il mio secondo nome, così non faremo confusione.”

Allargando il proprio sorriso, la donna annuì e replicò gentilmente: “Molto bene, faremo così. E quindi, come dovremmo chiamarti?”

“Joy” disse con decisione.

Dando un buffetto a entrambe le bambine, la maestra asserì: “Tanto piacere di conoscervi, Aileen e Joy. Io sono la signorina Prudence O’Gready.”

In coro, i bimbi esclamarono: “Buongiorno signorina Prudence!”

Da quel momento, Joy rimase il suo unico nome.

Quando, quello stesso pomeriggio, Joy rientrò a casa assieme alla madre, la bambina raccontò di quel particolare anche al padre.

Tra risolini divertiti e grandi cenni di assenso, entrambi i genitori si trovarono d’accordo nel chiamarla, a loro volta, soltanto Joy.

“Dopotutto, tu sei stata una gioia, per noi, fin da quando sei comparsa nella nostra vita, quindi, perché non chiamarti solo così? Mi sembra giusto” annuì al termine della storia Richard, servendo alla figlia un panino con la marmellata, dopo averlo preparato con attenzione.

Dato un bel morso al pane morbido, Joy convenne con lui. “Anfe la fignovina Frudenfe è vaffordo.”

Ridacchiando, Mel consegnò un bicchiere di latte alla figlia, mormorando indulgente: “Prima ingoia e poi parla, o rischi di affogare.”

Mostrando la lingua con fare birichino, Joy ingoiò la merenda e bevve avidamente il latte, prima di sospirare di soddisfazione.

“Dicevo che anche miss Prudence è d’accordo con me e Aileen.”

“E questa Aileen è diventata tua amica?” si informò Melinda.

“Oh, sì! E’ bellissima, dovresti vederla! Ha la pelle color caffelatte e dei bellissimi capelli scuri. La sua mamma le ha fatto tantissime treccine!” esclamò eccitata Joy, muovendo le mani come a formare immaginarie trecce lunghissime.

“Forse la conosco. Come si chiama, di cognome?” si informò Melinda, interessata.

“Mahoney, se non sbaglio” ci pensò su Aileen, arricciando il nasino a punta e costellato di piccole efelidi nocciola.

“Oh, la secondogenita di Sandra e Benjamin. La loro figlia più grande è in classe con me” si illuminò Melinda, comprendendo di chi stesse parlando la bambina. “E’ una ragazzina davvero dotata.”

“Tu li conosci, papà?” chiese allora Joy, scrutando il viso del padre, su cui crescevano, ormai da un anno, dei corti baffi scuri, e che la bimba trovava adorabili.

“Conosco Benjamin” annuì Richard distrattamente, tutto impegnato a spalmarsi un po’ di burro di arachidi su una fetta di pane bianco. “Andiamo spesso a pesca assieme.”

“Posso invitarla qui, qualche volta?”domandò infine Joy, scrutandoli con aria speranzosa.

“Ma certo che puoi farlo” annuì sorridente Melinda.

“Bene” sospirò tutta contenta Joy, prima di sentire il suono del campanello farsi largo nella casa.

Annusando leggermente l’aria senza farsi notare dai due genitori che, curiosi, si erano voltati in direzione dell’entrata, Joy scese con un balzo dallo sgabello della cucina.

Sgambettando felice verso la porta, la aprì con un sorriso estasiato già stampato sul volto ed esclamò: “Ciao, Alex!”

Undicenne allampanato e già alto per la sua età, Alexander Barrett era il genietto di casa e autentico flagello per i fratelli minori.

Sotto le sue ben poco amorevoli cure, erano costretti a studiare fino a tarda sera, pena orribili punizioni – quali pizzicotti e sparizioni di giochi – qualora fossero tornati a casa con dei brutti voti.

La madre, Beth, più che mai divertita da quel suo lato da despota.

Le risparmiava ore di estenuanti urla per rimettere in riga Stephen e Brian che, contrariamente al fratello maggiore, di studiare non ne avevano proprio voglia.

D’accordo anche col padre, lo lasciava fare senza dire nulla, intervenendo solo quando le cose rischiavano di andare a catafascio.

Tossicchiando per darsi un tono di fronte alla cugina, nonostante l’istinto gli dicesse di abbracciarla come aveva sempre fatto, Alex entrò dietro invito di Joy.

Cercando di apparire serio, le chiese: “Allora, com’è andato il primo giorno di scuola?”

Ridacchiando dell’espressione a compassata del cugino, Joy lo condusse in cucina, dove si trovavano ancora i suoi genitori, e ciangottò: “Sembri imbalsamato, sai?”

Accigliandosi leggermente, Alex arrossì suo malgrado e replicò piccato: “E’ il modo di parlare?”

“Oh, non fare il rompiscatole” brontolò lei, tirandolo a forza verso uno degli sgabelli mentre Melinda, nascondendo un risolino dietro un colpo di tosse, afferrava il sacchetto del pane per fare un panino al burro di arachidi per il nuovo venuto.

“Tutto bene, a scuola, ragazzo?” chiese Richard, alzandosi dal suo scranno per dirigersi in salotto.     

Presto sarebbero cominciate le partite di basket, e lui non voleva perdersele.

“Bene, zio. Grazie” disse compito Alex, prima di tornare a fissare la cugina, che lo stava scrutando divertita da dietro le ciglia lunghe e bionde. “Non mi dici nulla del tuo primo giorno di scuola?”

Con esagerata esasperazione, Joy esalò: “E’ andato tutto bene, ho conosciuto tanti bambini e c’è una mia compagna di classe che si chiama Aileen come me.”

“Davvero?” chiese incuriosito Alex, sorridendole.

“Sì, così abbiamo deciso che io sarò Joy e lei Aileen, così non faremo casino” gli spiegò Joy.

“Confusione” la corresse distrattamente Alex, ricevendo per diretta conseguenza una linguaccia dalla cugina.

Posando un piatto con il panino al burro d’arachidi di fronte al nipote, Melinda sorrise benevola ad Alex. “Se avete bisogno di qualcosa, sono di sopra a stirare, oppure chiamate Rich, va bene?”

“Grazie, zia. Faremo così” promise Alex, prima di guardarla uscire dalla cucina, come in precedenza aveva fatto Richard.

Rimasti soli, Alex tornò a voltarsi verso Joy e disse: “Comunque, per me tu sarai sempre Leen.”

“Come vuoi. Tanto, non sei in classe con me” motteggiò Joy, vedendolo accigliarsi subito dopo.

“Ti chiamerei così anche se fossi in classe con te, scema” bofonchiò Alex, prima di tapparsi la bocca e aggiungere: “L’ultima parola, dimenticala.”

Fissandolo con aperto scetticismo, Joy celiò: “Pensi che non l’abbia mai sentita? Ho sei anni, non due, e le orecchie funzionano benissimo.”

Più di quanto tu pensi, aggiunse poi tra sé Joy.

“Beh, non dovevo dirla di fronte a te, quindi fammi il piacere di scordartela” brontolò Alex, prima di farsi serio e aggiungere: “Me lo dirai, vero, se qualche bambino ti tratterà male?”

Perdendo tutta la voglia di scherzare, Joy disse con altrettanta serietà: “Sei il mio migliore amico, Alex. Ti dirò sempre tutto.”

Quello che potrò, per lo meno, chiarì poi in silenzio con se stessa, come per volersi scusare almeno mentalmente con lui per i segreti che già gli stava nascondendo.

“Bene” annuì fiero Alex prima di strizzarle l’occhio. “Partitina a Monopoli?”

“Okay” accettò ben volentieri Joy, smontando con un balzo dallo sgabello per seguire il cugino in salotto, dove tenevano tutte le scatole dei giochi.

Richard sorrise distrattamente loro nel vederli passare quasi di corsa.

Mentre Alex sistemava il cartone ripiegato sul tavolo di legno del salone, Joy gli sorrise benevola e preoccupata al tempo stesso.

Come avrebbe potuto essere imparziale, con loro, una volta divenuta grande, se già li amava tutti così tanto?

 
***


Una Fenice non vive per se stessa, ma per gli altri e, fin qui, mi poteva anche stare bene.

Ma come potevo non essere tentata di fare qualche differenza, amando già così tanto la mia famiglia?

Era difficile ricordare a me stessa che non potevo sfruttare i miei poteri per rendere migliore solo la loro vita, dimenticandomi di quella degli altri.

Non mi era mai capitato di avere così tanti problemi a distaccarmi da coloro che mi vivevano attorno, per portare avanti il mio personale compito.

Forse, però, la spiegazione stava tutta nel secolo in cui ero rinata.

Nelle mie precedenti incarnazioni, il mondo aveva avuto dei ritmi diversi e, per i bambini, la cosa aveva assunto i contorni di un’autentica battaglia per la vita.

Da orfana quale ero sempre stata fin dalla mia prima nascita, su un’isola del Pacifico, l’esistenza era sempre stata difficoltosa.

Gli orfani venivano sempre lasciati ai margini della società, mal accuditi o, a volte, persino esposti per essere messi a morte, ritenuti a torto un peso e di nessuna utilità.

In quel mondo moderno, pur se con tragiche eccezioni, i bambini soli non erano più abbandonati a loro stessi.

Ritrovarmi in una famiglia che, non solo non mi aveva presa con sé come sguattera, ma mi amava più di quanto avrei mai immaginato, era un bel cambiamento.

Forse, dopotutto, era questo a disorientarmi un poco.

Da adulta, non avevo mai avuto problemi a vivere isolata dagli altri, impegnata solo a portare avanti i miei vari progetti per aiutare il prossimo.

Come bambina, era la prima volta che assaporavo il vero amore, l’affetto puro e semplice, senza dover affrontare alcuna privazione o la mera solitudine.

Sì, doveva essere senz’altro quello.

Altrimenti, non avrei saputo in che altro modo spiegare perché il mio cuore, dopo tante vite, batteva a un ritmo diverso, infondendomi un calore diverso nell’animo.

Un calore più… inebriante.

 
  
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