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Autore: Safyre    28/01/2012    1 recensioni
Era come…non so come spiegare. Vi siete mai sentiti sbagliati? Ecco, io mi sentivo sbagliata.
Scelte sbagliate, vita sbagliata.
Non fraintendete, ho sempre ringraziato il cielo per essere nata in un paese libero, in una famiglia benestante, in un contesto evoluto. Ma mi sentivo sbagliata.
E alla fine, in ogni discorso, ogni pensiero, ogni sogno, finivo per giungere a questa conclusione: ma che cosa ci faccio qui?
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fuori stava piovendo, e io non potevo fare a meno di ascoltare la pioggia cadere imperterrita su questo mondo. Aveva un suono così terribilmente affascinante.

Adoravo la pioggia.

Ovvio, poteva risultare scomoda se ti prendeva alla sprovvista, mentre eri in città, ma se non si era ancora usciti o se non si aveva in progetto di uscire, era una cosa bellissima starsene seduta davanti alla finestra mezza aperta, ascoltando il suo rumore e seguendo con la punta del dito la scia delle gocce sul vetro freddo.

Era tutto così rilassante.

Il gatto era appollaiato sulle mie ginocchia, mi faceva le fusa mentre la mia mano scivolava lenta dal muso all’inizio della coda. Aveva il pelo così morbido e chiaro, e due occhi scuri che sembravano saper guardarti fino dentro all’anima.

– A te non posso nascondere nulla, vero Ax? – gli sussurrai.

Girò la testa verso la mia faccia, i nostri occhi si incrociarono. Li socchiuse appena, quasi in segno di consenso. Poi tornò a leccarsi la zampa.

Sorrisi.

Mia madre trovava strano quel rapporto morboso che avevo con quel gatto, ma lei non capiva quanto io avessi bisogno di lui.

Lo avevo trovato una sera, tornando a casa, vicino a un cassonetto della spazzatura. Il suo miagolio era così stridulo e fioco che penso non tutti avrebbero potuto sentirlo.

Ma io sì.

Era tutto bagnato, gli occhi semi chiusi, le zampine tremanti che a mala pena riuscivano a sorreggere quel corpicino così esile. Sembrava così fragile e indifeso.

Lo presi in mano, e lo accarezzai, gli sussurrai che andava tutto bene, e lo portai in casa.

Lo nascosi ai miei per i primi giorni, non volevo rovinassero l’atmosfera che avevamo creato, io e lui. Era nata subito un’intesa, dal primo istante in cui l’ho appoggiato delicatamente sul pavimento della mia camera. Ha smesso di miagolare, ha girato la testa, e i nostri occhi si sono incrociati. Non erano più gli occhietti di qualche minuto prima, pieni di muco e pioggia, semi chiusi e opachi. Erano occhi nuovi, occhi svegli, scuri, grandi. Occhi consapevoli.

E fu lì che capii, che quel gatto mi aveva letto l’anima.

Forse non era stato puro caso il fatto che lo trovai proprio sotto casa mia. Forse no.

Ma una cosa è certa, destino o no, io e Ax ormai siamo una cosa sola.

Non siamo sempre insieme, per carità, lui ha le sue esigenze da gatto e io le mie esigenze da…le mie esigenze, ecco.

Però, come dire, noi ci sentiamo. Sì, riusciamo a sentirci, anche a chilometri di distanza. Un legame speciale, come tra gemelli omozigoti.

Questo mia madre non se l’è mai riuscito a spiegare.

– Mamma, Ax sta male – le dissi una volta

– Ma cosa dici? – mi rispose lei, distogliendo la sua attenzione dalla cipolla che aveva in mano, e posando gli occhi su di me – non vedi come dorme tranquillo? – aggiunse poi, indicando con la punta del coltello da cucina l’enorme gatto tranquillamente appallottolato sul cuscino del divano.

Quello che non vedeva lei, o meglio che non sentiva lei, era il respiro affannoso dell’animale, stoppato ogni tanto da qualche rantolo sottomesso.

Qualche giorno dopo lo portai dal veterinario, aveva preso una specie di influenza.

Quello che pensavo, fino all’età di diciotto anni, era che io e il mio gatto fossimo speciali. Che fossimo legati da qualcosa di misterioso.

Dopo il compimento dei diciotto anni qualcosa in me cambiò. Iniziai a pensare che forse non era solo quello. Che forse c’era qualcosa di diverso. Che forse non era Ax che riusciva a trasmettermi quello che sentiva, che aveva, che provava. Che forse ero io che avevo i sensi troppo sviluppati rispetto al normale.

Qualche giorno dopo il mio diciottesimo, iniziai a stare male. Il mio corpo non riusciva più a digerire i pasti che mi preparava mia madre, ero sempre in bagno a vomitare. Eppure non mi sentivo debole.

Una persona normale dopo giorni di vomito insistente si sarebbe sentita male, debilitata, eppure io no, mi sentivo leggermente frastornata.

Per questo continuavo a andare a scuola, nonostante tutto.

Ma una sera, dopo le lezioni pomeridiane, stavo tornando a casa come di consueto, e sentii un odore strano. Buono.

Annusai a mezz’aria, e seguii l’odore fino in un vicolo. Non c’era anima viva, ad eccezione di una massa informe per terra.

Mi avvicinai, timorosa ma quasi incurante del pericolo che potevo trovarvi, e vidi un barbone, disteso su dei vecchi cartoni luridi. Russava, e l’alito gli puzzava di alcool.

“Wiskey scadente”, mi ricordo che pensai.

Ma poi, oltre alla tremenda puzza proveniente dai suoi abiti, all’odore pesante dell’alito, sentii un altro odore. Che sovrastava quello di tutti gli altri. Un odore forte ma allo stesso tempo dolce, un odore di buono.

Mi avvicinai allo sconosciuto, quasi di fretta, quasi avventandomi su di lui, presa da uno spasmo incondizionato. Annusai ancora un po’, e poi non ce la feci più: mi buttai letteralmente sul senza tetto, bloccandogli le braccia all’altezza dell’addome, con una forza che non avevo mai avuto.

Era come se non fossi stata io, in quel momento.

Lui sbarrò gli occhi vecchi e stanchi, impaurito, e provò a gridare.

“Sta’ zitto”, pensai. E scattai in avanti col collo.

Ricordo la sensazione dei denti che affondavano nella carne, ricordo il gusto buono del sangue sulla lingua, ricordo tutto di quell’istante. La sensazione di fiacchezza che se ne andava, la voglia di succhiare quel nettare ancora e ancora.

Le iniziali grida dell’uomo si affievolirono sempre di più, fino a sparire.

Fu dura staccarsi dalla preda, ma ci riuscii.

Mi alzai, e per un istante rimasi pietrificata di fronte a quella visione: avevo ucciso un uomo.

Ma poi capii che non era solo la questione di avere ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo e gli avevo bevuto il sangue.

Nonostante questo, il momento di incertezza passò. Capii molte cose.

Pensai a Ax.

“Ecco perché, piccolo micio” pensai. Ecco perché io e il mio gatto eravamo così affiatati.

Perché qualcosa di animalesco c’era anche in me, c’era sempre stato. Nascosto da qualche parte.

Istintivamente portai le mani alla bocca, e tastai i canini. Non erano esageratamente lunghi, ma decisamente erano più affilati del normale.

Sorrisi, quasi senza volerlo.

“Un vampiro…chi l’avrebbe mai detto.” 

  
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