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Autore: _unaStella    31/01/2012    3 recensioni
Assassino. Assassino. Una vocina nella sua testa tentava di ricordarle che erano quegli occhi ad aver ucciso/ferito/torturato non solo gli amici più cari, ma una quantità indefinibile di persone e distrutto altrettanti pianeti. Allora perché non aveva paura?
Una storia forse un po' diversa che dà ampio spazio ai pensieri, su come un rapporto sia difficile quando entrambi gli elementi coinvolti hanno da fare i conti prima di tutto con sé stessi.

Avviso: per quanto riguarda l'IC dei personaggi, Vegeta in particolare, mi baserò molto anche sui giudizi ricevuti nelle recensioni, dato che è la prima volta che lo uso in una fic.
Detto questo, hope you'll enjoy!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II

 

 

Ci eravamo violentati l’anima, a furia di amore.

 

 

 

 

La schiena è la parte che non puoi vederti, quella che lasci agli altri.

Sulla schiena pesano i pensieri,

 le spalle che hai voltato

 quando hai deciso di andare. 

 

 

Eravamo noi quelli che oltrepassavano staccionate

per sbottonarsi i jeans,

 senza essere circondati da occhi,

 affamati di carezze?

 

 

 

Ancora urla, ancora grida, ancora cose che si rompono. Non cose materiali, oggetti come specchi, piatti, bicchieri. Quelli si possono ricomprare, sostituire, aggiustare. Ma come e dove si può ricomprare, sostituire, aggiustare l’anima? Le parole che volano nell’aria sono più pesanti del piombo e si infrangono addosso con tutta la loro carica di dolore. Sembra una gara, una gara in cui a vincere sarà chi è riuscito a far più male, a lasciare meno parti illese. A uccidere di più.

Fissa il ragazzo davanti a sé, non lo riconosce. Non è lui, non può essere lui l’Amore, quello con la A maiuscola che ti fa gridare per la gioia in ogni singola azione, in ogni momento e in ogni passo della tua giornata. Quell’amore che ti sconvolge e che allo stesso tempo ti tiene al sicuro, lontano dalla sofferenza e dai tormenti della solitudine. Il Primo, Vero, Grande Amore. Quello che, sino a poco tempo addietro, ha ritenuto essere l’Unico.

Eppure, è Lui. Il viso è invecchiato certo, ma è comunque Lui. Chi le sta urlando contro a pochi centimetri di distanza è Lui. E chi altri sennò?

In quel momento però non c’è più nulla di tutta la magia che, può giurarlo, avevano creato. La si poteva persino toccare tanto era reale, la loro magia. Invece ora c’è solo il dolore. E le lacrime. Tantissime lacrime.

Poi, a spezzare quella spirale, arrivano quelle parole. Se le sono già dette, ma quelle volte non erano come adesso. Erano parole buttate al vento solo per far male e piuttosto voler forse rinforzare quel legame spaventando l’altro con l’idea –allora insopportabile- della perdita e finendo così per esorcizzarla, quasi fosse una qualche sciagura da relegare in un futuro il più lontano possibile. Se possibile magari eliminarla del tutto come prospettiva.

Ma qui e adesso non è più così. Quasi si stupisce Bulma nel sentire che è proprio la sua voce a pronunciarle. Le sembra quasi arrivare da lontano, come una sentenza emessa da qualche giudice che si trova a parecchi metri da lei. È una voce strascicata quella che sente, inumana. Non sua.

Eppure, sono le sue labbra a muoversi. Lei ha pronunciato quelle due parole. Sa benissimo che una volta dette, una volta che tutte le lettere saranno uscite, non si potrà più tornare indietro. Ma è anche l’unica soluzione, l’unico modo per porre fine a tutto.

È diventato soffocante, quel loro “tutto” e non ci sono più angoli dove nascondersi, pur di non dover affrontare la verità. È agghiacciante. È come avere una lampada bianca puntata addosso, in pieno viso: tutto è estremamente nitido, ma non c’è nulla di bello in quello che vede. Quasi come trovarsi sul luogo di una strage e non avere nemmeno più le mani per coprirsi gli occhi ed impedirsi di guardare.

-È finita.

Un taglio netto e tutti i dieci anni precedenti crollano. Yamcha la fissa, improvvisamente ha smesso di urlare. Ora c’è il silenzio. E tutte le parole che vi appartengono. Gli occhi del ragazzo si sono riempiti di lacrime, e pian piano le vede farsi strada su quel volto sfregiato dalle ampie cicatrici. Una volta aveva amato anche quelle. Ora? Ora non c’è più nulla.

-Lo so.

Riesce a dire solo questo. Anche perché non ci sono altre parole. Opporsi non avrebbe senso, lo sa anche lui. Rimane solo da accettarlo e cercare di soffrirne il meno possibile.

Bulma lo guarda, forse una parte di lei spera ancora che ci riprovi, che tenti di riprenderla per l’ultima volta. Forse le cose cambieranno. Forse. Ma di forse hanno nutrito i propri occhi e i propri sentimenti per troppo tempo. Sfortunatamente, la vita è venuta a chiedere il conto per quell’amore ormai spento.

Scoppia a piangere. Yamcha se ne va. Sente i suoi passi allontanarsi nel lungo corridoio che porta alle scale della Capsule Corporation, sino alla porta di ingresso per poi sparire fuori di essa. Se n’è andato, e con lui tutto il resto. Non riesce ad infuriarsi, non in quel momento: non si tratta di vigliaccheria o di poco amore, soltanto di aver finalmente accettato la realtà dei fatti. Sa che è devastante per entrambi, solo che alla fine il suo istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio e ha posto fine a quella tortura. Un giorno, tra molti mesi –anni probabilmente, anche se le fa paura anche il solo pensarlo-, potranno ridere e scherzare e volersi bene.

Ora, in quel momento, in quella stanza, c’è solo lo spazio vuoto dell’addio. E il franare della vita come la si è conosciuta sino a quel momento che inevitabilmente esso comporta.

 

Scosse la testa violentemente. Perché quel pensiero aveva trovato spazio nella sua mente? Eppure era convinta di averlo rinchiuso in un angolo abbastanza remoto da rimanerci quel tanto che le bastava per metabolizzare.

Evidentemente non era così.

Improvvisamente le braccia si strinsero attorno al suo torace, come in un tentativo istintivo di limitare la dispersione di se stessa che inevitabilmente quel pensiero innescava. Le mani erano come tenaglie sugli avambracci, quasi sentiva dolore, ma non riusciva a mollare o allentare la presa. Era una sorta di istinto di sopravvivenza che le vietava di lasciar fuoriuscire altre emozioni, sensazioni, sentimenti. Una diga per arginare il fiume, lo stesso che mesi prima in quella camera aveva spazzato via le sue certezze .Il respiro divenne pesante, strascicato. Doveva sedersi, almeno un momento. La testa aveva iniziato a girarle terribilmente e ogni boccata d’aria era una serie infinita di fitte all’addome.

Si poteva essere più stupidi? Soffrire per qualcosa già perso da mesi e mesi, che non aveva più alcuna prospettiva.

Eppure, faceva ancora dannatamente male. Prese due ampi respiri e poi si lasciò cadere sul letto a peso morto. Fu come sprofondare dentro le piume del materasso, come se il suo corpo fosse ora troppo pesante da poter essere sostenuto da una superficie morbida come quella su cui era sdraiata. Ebbe per qualche attimo la sensazione di annegare dentro di essa, e nella sua mente balenarono strani pensieri su come i polmoni smettano di fare il proprio lavoro in un episodio di annegamento.

Erano i suoi momenti vuoti, quelli, ed erano il motivo per il quale aveva fatto in modo di non averne più durante le sue giornate. Un buio torbido la ingoiava quasi del tutto –ed era quel “quasi” il reale problema, poiché la lasciava cosciente di se stessa e del dolore che la assaliva- ed era come entrare in un tunnel di cui l’uscita si lasciava intravedere ma rimaneva impossibile da raggiungere poiché le gambe, le braccia e qualsiasi altra parte del suo corpo aveva smesso di rispondere a qualsiasi impulso nervoso. Una morte apparente, che annebbiava il reale e lo dislocava sempre alla medesima scena, che si ripeteva all’infinito di fronte ai suoi occhi come una cassetta su cui per sbaglio fossero state registrate sempre le solite due immagini.

Aspettò immobile in quella posizione, tentando per quanto possibile di monitorare il proprio respiro. I polmoni erano come in preda ad un incendio e in quei momenti dare aria significava solo consegnare alle fiamme che la attanagliavano altro ossigeno da poter bruciare. Era un circolo vizioso, e in quei mesi aveva imparato a non contrastarlo. I primi tempi erano stati i peggiori, orgogliosa com’era aveva tentato in più modi di lottare contro quegli attacchi di debolezza –così lei li aveva catalogati, un affronto indiscriminato alla sua dignità- ma i risultati erano stati quasi peggiori degli attacchi stessi: la prima volta aveva avuto un fortissimo attacco di nausea e aveva passato all’incirca un’ora abbracciando la tazza del water e rilasciando nel sifone il cibo ingerito –avrebbe potuto giurarlo- durante tutto il mese precedente.

La seconda era svenuta. Per evitare le fitte all’addome aveva deciso di controllare la respirazione, più che altro di forzarsi a farlo in modo del tutto innaturale, e il risultato era stato quello di finire lunga distesa sul pavimento della sala conferenze della Capsule Corp.

L’avevano persino portata in ospedale e le era toccata una lunga seduta con una psichiatra mentre era ricoverata –non poteva sfuggire, i suoi genitori lo sapevano bene- dato che era parsa chiara ai medici l’intenzionalità di quel gesto, quindi aveva dovuto spiegare tutto per filo e per segno a quell’estranea i come e i perché di tutto quanto. “Nessuno smette di respirare senza motivo” Le aveva detto quella donna col camice, enfatizzando soprattutto l’ultima parte dell’eloquente frase, quando aveva tentato di negare. Lì aveva capitolato. Era stata una delle esperienze più imbarazzanti della sua vita e sempre grazie al proprio orgoglio aveva fatto un patto con se stessa: mai più ripetere una cosa del genere. Da lì aveva iniziato una lunga e dolorosa convivenza con quei “momenti”, imparando pian piano a gestirli e tentare di limitarne la portata: ogni volta che ne percepiva l’arrivo, faceva in modo di trovarsi impegnata in qualche faccenda che richiedesse totale concentrazione e nessun margine di errore o distrazione. In quel modo il tutto si limitava a una serie di dolori addominali, un po’ di nausea e una leggera emicrania, tutte cose governabili con l’aiuto di qualche leggero antidolorifico, che teneva prontamente nella tasca interna della borsa o nel marsupio da lavoro a seconda delle circostanze.

Erano almeno tre settimane che non viveva un attacco in piena regola, anche a causa dei ritmi da manicomio che si autoimponeva, ma grazie al suo essere in totale solitudine e senza impegni prossimi per la giornata –le ci sarebbero voluti almeno quaranta minuti e una dormita o una doccia o entrambe per riprendersi completamente- aveva deciso di lasciare che tutto quel dolore la travolgesse.

Faceva bene immergersi in esso ogni tanto, aveva un ché di piacevole. In modo masochistico, autolesionista e totalmente assurdo, ma piacevole. Era come essere per qualche attimo faccia a faccia con se stessa, sola, senza alcuna imposizione data dalle convenzioni sociali e/o affettive. C’erano solo Lei e se stessa in quei momenti, quella parte di se stessa che rimaneva silenziosa e muta in un remoto angolo della sua vita, soffocata nella confusione e nella frenesia delle giornate incapace di prendere voce abbastanza per poter richiamare la sua attenzione.

Il respiro iniziò mano a mano a ritornare verso una quasi normalità, segno che annunciava la fase discendente di quel momento. Le braccia abbandonarono progressivamente la rigidità e scesero lungo i fianchi, avendo esaurito la propria funzione di contenimento –o di tentativo di tenersi insieme, dipende dai punti di vista- andando ad appoggiarsi al materasso.

La mente guadagnava lucidità, le pareti della stanza erano di nuovo normali pareti e non una sostanza vischiosa che pareva appiccicarlesi addosso, soffocandola e dandole la sensazione di trovarsi immersa in una camera piena di gelatina. L’aria era di nuovo respirabile, pian piano la patina opaca che le aveva serrato la mente si dissolveva e percepiva un ritrovato controllo delle proprie capacità mentali.

Sospirò, con lentezza e facendo attenzione a non richiedere troppo al proprio fisico. Aveva imparato a proprie spese che farlo in certe circostanze era oltremodo controproducente, perciò da persona intelligente qual’era capiva perfettamente la necessità dell’evitare altri gesti stupidi.

Si portò una mano alla fronte, ancora formicolante per la rigidità innaturale a cui l’aveva sottoposta, scostando alcune ciocche di capelli che vi ricadevano scomposte e fastidiose, in un gesto noto quanto difficile in quei momenti. Sbuffò. Detestava non sentirsi padrona di se stessa al 100%, era qualcosa che le creava ulteriori frustrazioni e una crescente sensazione di disagio con quella parte debole della propria personalità.

-Mmmh.

Mugolò, un po’ per capriccio e un po’ per il malessere diffuso che sentiva crescere dentro il proprio corpo, per poi stiracchiarsi come dopo una qualche dormita ed un poco piacevole scricchiolio fece capolino da ogni muscolo, osso, nervo.

Erano gli unici momenti in cui malediceva la propria esilità.

Aspettò ancora qualche minuto, in silenzio. Quando fu abbastanza certa di aver ripreso la padronanza di sé, facendo leva prima sui gomiti e poi sui palmi aiutò se stessa ad assumere una posizione più o meno eretta.

-Stupidi sentimenti.

Si alzò per poi barcollare verso il bagno.

 

Era la prima volta che si concedeva una pausa dagli allenamenti, anche se l’aveva fatto solo per poter aumentare il materiale a propria disposizione per vendicarsi della terrestre, dal momento  che aveva osato ignorarlo deliberatamente quella mattina. Gli era parso un piano geniale quello di dedicare brevi –e sottolineo, brevi- attimi della propria giornata a monitorare le azioni di quell’insopportabile creatura, pur di incamerare sufficienti elementi da permettergli di zittirla ogni qual volta lei avesse aperto quella bocca petulante per sfidare la sua pazienza con pericolosa insistenza.

Il piano era semplice, essenziale, ma proprio per questo motivo risultava necessario applicarvi la maggior cura possibile. Non era il massimo per un uomo d’azione come lui, abituato a prendersi la rivalsa subito e con forza, quasi sempre terminando il tutto con una strage/eccidio/distruzione, ma l’esperienza di Kakaroth gli aveva insegnato –o meglio l’aveva obbligato ad imparare- ad attendere il momento giusto.

Con lei avrebbe fatto lo stesso. Grazie ad una sapiente opera di spionaggio, sarebbe riuscito ad avere dalla sua una capacità che più di tutte gli avrebbe garantito la rivalsa su tutta la linea contro quell’essere gracchiante dai capelli azzurri: il toglierle ogni possibilità di replica.

Vedere quella faccia perdere ogni capacità di ribattere, diventare paonazza dalla rabbia, abbassarsi umiliata al suo cospetto era un pensiero talmente allettante da poter essere paragonato a quello dello smembramento/sbudellamento dell’odiato rivale. Il fatto che una donna avesse la capacità di prendersi una porzione così ampia del suo tempo e cosa ancor più preoccupante, della sua mente era un pensiero che Vegeta teneva ben lontano da se stesso, riconducendo tutto quell’interesse alla semplice equazione della vendetta, l’unica che realmente aveva senso nella sua testa.

Oltre alla dose spropositata di tempo libero che si ritrovava per le mani, nell’attesa dell’arrivo di questi temuti cyborg.

Però, in quel momento, in lui si muoveva qualcosa di decisamente diverso dalle sensazioni che conosceva come abituali. Era una scena difficile per lui da comprendere quella che vedeva stagliarsi di fronte ai propri occhi, fissi sull’ampia finestra della camera di Bulma ed intenti a studiare ogni suo più piccolo movimento. Dapprima credeva fossero semplici comportamenti da isterica qual’era, ma quando l’aveva vista assumere quella posa così innaturale, rigida e lasciarsi andare sul letto scompostamente –lei che era la quint’essenza del calcolo in ogni movenza, azione, parola- era rimasto perplesso.

O almeno credeva fosse quello il nome del sentimento, sempre ammesso che fosse in grado di provarne uno non compreso nei derivati dell’odio o dello spirito vendicativo o di entrambi, che ora percepiva chiaramente essersi annidato ai lati della propria mente e da quella posizione punzecchiargli insistentemente i pensieri.

Non capiva, e il non capire lo irritava parecchio, ma in quel momento più di tutti sentiva forte l’impulso di avvicinarsi, di ridurre la distanza fisica che lo separava da quella stanza. Gli occhi ancora fissavano l’esile corpo della ragazza, osservandone con attenzione il respiro scattoso e i tremiti che l’attraversavano e che dal nulla l’avevano immobilizzata. Forse era malata, forse soffriva di qualche sindrome particolare che si sforzò di annoverare come un’informazione da sfruttare in seguito, un punto debole da studiare e da utilizzare poi a proprio vantaggio, mettendo così a tacere quel primo ansito che gli aveva toccato le viscere, esattamente a poca distanza dalla bocca dello stomaco, con un pungolo fastidioso.

Si costrinse a soffocare quell’idea, fermando il suo corpo in quella posa a mezz’aria e non permettendogli di avvicinarsi alla casa un centimetro di più. Un grugnito sfuggì alle sue labbra, un misto tra indignazione e fastidio, mentre vedeva Bulma scomparire dal suo campo visivo diretta verso una stanza della casa che non vi poteva rientrare.

Rimase fermo in quella posizione ancora per qualche minuto, in attesa di vederla ricomparire, ma la porzione di camera lasciata visitabile agli occhi dal finestrone non gli diede più alcuna testimonianza della presenza della terrestre.

Voltò le spalle.

Il fatto che i suoi sensi si fossero tesi per monitorare l’aura della ragazza, insignificante come al solito, ma concentrandosi soprattutto sul fatto che fosse costante, –era quello il motivo per cui la stava tenendo sotto controllo- era qualcosa che non avrebbe ammesso nemmeno in punto di morte o sotto tortura, soprattutto a se stesso. Una volta appurato quell’unico dato, l’animaletto che sino a quel momento gli aveva addentato le viscere smise di pasteggiare con le sue interiora, improvvisamente, come se si fosse finalmente saziato.

Scattò in avanti, diretto verso l’unica motivazione che ancora lo teneva fermo su quell’insulso pianeta senza averne trucidata la ancor più insulsa popolazione.

Appena avesse raggiunto il livello del Super Saiyan, annullando così il distacco con l’odiato rivale, e l’avesse distrutto, poco gli sarebbe importato di quella casa e di chi vi abitava. Se fosse stato magnanimo, li avrebbe fatti esplodere insieme al resto della Terra, regalando una fine veloce e indolore ed evitando così sofferenze atroci ai singoli. Se invece avessero opposto resistenza, avrebbe offerto a ognuno di loro un motivo in più per temerlo prima di cancellarli definitivamente dall’universo.

Non prima di essere divenuto immortale, ovviamente.

Quel pensiero parve ricacciare indietro gli strani impulsi che si erano impadroniti momentaneamente della sua mente, nuovamente rinchiusi entro una gabbia di gelo che da tutta una vita gli fungeva da scudo emotivo. Una sorta di corazza dura e spessa con cui si era ricoperto l’anima di modo da poter evitare alcun contatto sentimentale, con chiunque.

Era come essere di nuovo in sé e questo gli provocava una piacevole sensazione di conosciuto e noto, come camminare nuovamente su una superficie di cui si distingue a memoria ogni singolo centimetro: il sentore della familiarità, cosa che lo riportava ad indossare il suo ruolo senza smagliature né possibili fraintendimenti. Lui era il Principe dei Saiyan e aveva tutte le intenzioni di onorare la propria razza e il proprio ruolo non appena fosse riuscito a sfruttare al meglio quel poco che la Terra e quella famiglia poteva offrirgli.

Poi li avrebbe uccisi. Tutti. A partire da Lei.

 

 

--

Eccomi qui, come avevo promesso dopo due settimane ecco il nuovo capitolo :D mi ha fatto molto piacere leggere le recensioni, sono il sale che aiuta a continuare la stesura di una storia postata su un fandom perciò oltre a ringraziare invito chiunque passi per di qui a lasciarne una, fanno piacere e soprattutto aiutano a crescere. Per il resto, sono in lutto dopo una disastrosa 100 puntata di una serie tv che ho scoperto da poco –grazie ad una sorella a dir poco ossessionata- ma che mi ha fatto fare marcia indietro sui miei pensieri e ritornare saltellante al mio vero amore, Sex and the City del quale mi sono deliziata con una bella maratona pausa-studio ^^ Altro capitolo, come al solito lento forse, ma ricordo che qui in primo piano ci sono i sentimenti e il loro evolversi, amo trattare di come le persone sono costrette a scavarsi dentro per poter entrare seriamente in contatto con qualcun altro e io per prima sono convinta che questo, seppur non raccontato, sia uno di quei momenti. Non riesco a rassegnarmi all’idea così semplicistica di una Bulma che trafitta da un love at the first sight per il bel Vegeta molli capra e cavoli senza remore e si butti tra le braccia di un tizio che non conosce e che inspiegabilmente diventa l’oggetto del suo amore. Non la ritengo così superficiale, non sentimentalmente almeno.

Per il resto, alla prossima puntata

See you soon guys

 

Stella*

  
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