Capitolo
II
Ci
eravamo violentati l’anima, a furia di amore.
La
schiena è la parte che non puoi vederti, quella che
lasci agli altri.
Sulla
schiena pesano i pensieri,
le spalle che
hai voltato
quando hai
deciso di andare.
Eravamo
noi quelli che oltrepassavano staccionate
per
sbottonarsi i jeans,
senza essere
circondati da occhi,
affamati di
carezze?
Ancora
urla, ancora grida, ancora cose che si rompono. Non
cose materiali, oggetti come specchi, piatti, bicchieri. Quelli si
possono
ricomprare, sostituire, aggiustare. Ma come e dove si può
ricomprare,
sostituire, aggiustare l’anima? Le parole che volano
nell’aria sono più pesanti
del piombo e si infrangono addosso con tutta la loro carica di dolore.
Sembra
una gara, una gara in cui a vincere sarà chi è
riuscito a far più male, a
lasciare meno parti illese. A uccidere di più.
Fissa
il ragazzo davanti a sé, non lo riconosce. Non è
lui,
non può essere lui l’Amore, quello con la A
maiuscola che ti fa gridare per la
gioia in ogni singola azione, in ogni momento e in ogni passo della tua
giornata. Quell’amore che ti sconvolge e che allo stesso
tempo ti tiene al
sicuro, lontano dalla sofferenza e dai tormenti della solitudine. Il
Primo,
Vero, Grande Amore. Quello che, sino a poco tempo addietro, ha ritenuto
essere
l’Unico.
Eppure,
è Lui. Il viso è invecchiato certo, ma
è comunque
Lui. Chi le sta urlando contro a pochi centimetri di distanza
è Lui. E chi
altri sennò?
In
quel momento però non c’è
più nulla di tutta la magia che,
può giurarlo, avevano creato. La si poteva persino toccare
tanto era reale, la
loro magia. Invece ora c’è solo il dolore. E le
lacrime. Tantissime lacrime.
Poi,
a spezzare quella spirale, arrivano quelle parole. Se le
sono già dette, ma quelle volte non erano come adesso. Erano
parole buttate al
vento solo per far male e piuttosto voler forse rinforzare quel legame
spaventando l’altro con l’idea –allora
insopportabile- della perdita e finendo
così per esorcizzarla, quasi fosse una qualche sciagura da
relegare in un
futuro il più lontano possibile. Se possibile magari
eliminarla del tutto come
prospettiva.
Ma
qui e adesso non è più così. Quasi si
stupisce Bulma nel
sentire che è proprio la sua voce a pronunciarle. Le sembra
quasi arrivare da
lontano, come una sentenza emessa da qualche giudice che si trova a
parecchi metri
da lei. È una voce strascicata quella che sente, inumana.
Non sua.
Eppure,
sono le sue labbra a muoversi. Lei ha pronunciato
quelle due parole. Sa benissimo che una volta dette, una volta che
tutte le
lettere saranno uscite, non si potrà più tornare
indietro. Ma è anche l’unica
soluzione, l’unico modo per porre fine a tutto.
È
diventato soffocante, quel loro “tutto” e non ci
sono più
angoli dove nascondersi, pur di non dover affrontare la
verità. È
agghiacciante. È come avere una lampada bianca puntata
addosso, in pieno viso:
tutto è estremamente nitido, ma non c’è
nulla di bello in quello che vede.
Quasi come trovarsi sul luogo di una strage e non avere nemmeno
più le mani per
coprirsi gli occhi ed impedirsi di guardare.
-È
finita.
Un
taglio netto e tutti i dieci anni precedenti crollano.
Yamcha la fissa, improvvisamente ha smesso di urlare. Ora
c’è il silenzio. E
tutte le parole che vi appartengono. Gli occhi del ragazzo si sono
riempiti di
lacrime, e pian piano le vede farsi strada su quel volto sfregiato
dalle ampie
cicatrici. Una volta aveva amato anche quelle. Ora? Ora non
c’è più nulla.
-Lo
so.
Riesce
a dire solo questo. Anche perché non ci sono altre
parole. Opporsi non avrebbe senso, lo sa anche lui. Rimane solo da
accettarlo e
cercare di soffrirne il meno possibile.
Bulma
lo guarda, forse una parte di lei spera ancora che ci
riprovi, che tenti di riprenderla per l’ultima volta. Forse
le cose
cambieranno. Forse. Ma di forse hanno nutrito i propri occhi e i propri
sentimenti per troppo tempo. Sfortunatamente, la vita è
venuta a chiedere il
conto per quell’amore ormai spento.
Scoppia
a piangere. Yamcha se ne va. Sente i suoi passi
allontanarsi nel lungo corridoio che porta alle scale della Capsule
Corporation, sino alla porta di ingresso per poi sparire fuori di essa.
Se n’è
andato, e con lui tutto il resto. Non riesce ad infuriarsi, non in quel
momento:
non si tratta di vigliaccheria o di poco amore, soltanto di aver
finalmente
accettato la realtà dei fatti. Sa che è
devastante per entrambi, solo che alla
fine il suo istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio e ha posto fine
a
quella tortura. Un giorno, tra molti mesi –anni
probabilmente, anche se le fa
paura anche il solo pensarlo-, potranno ridere e scherzare e volersi
bene.
Ora,
in quel momento, in quella stanza, c’è solo lo
spazio
vuoto dell’addio. E il franare della vita come la si
è conosciuta sino a quel
momento che inevitabilmente esso comporta.
Scosse la testa
violentemente. Perché quel pensiero aveva trovato spazio
nella sua mente? Eppure
era convinta di averlo rinchiuso in un angolo abbastanza remoto da
rimanerci
quel tanto che le bastava per metabolizzare.
Evidentemente
non era
così.
Improvvisamente
le
braccia si strinsero attorno al suo torace, come in un tentativo
istintivo di
limitare la dispersione di se stessa che inevitabilmente quel pensiero
innescava. Le mani erano come tenaglie sugli avambracci, quasi sentiva
dolore,
ma non riusciva a mollare o allentare la presa. Era una sorta di
istinto di
sopravvivenza che le vietava di lasciar fuoriuscire altre emozioni,
sensazioni,
sentimenti. Una diga per arginare il fiume, lo stesso che mesi prima in
quella
camera aveva spazzato via le sue certezze .Il respiro divenne pesante,
strascicato. Doveva sedersi, almeno un momento. La testa aveva iniziato
a
girarle terribilmente e ogni boccata d’aria era una serie
infinita di fitte
all’addome.
Si poteva essere
più
stupidi? Soffrire per qualcosa già perso da mesi e mesi, che
non aveva più
alcuna prospettiva.
Eppure, faceva
ancora
dannatamente male. Prese due ampi respiri e poi si lasciò
cadere sul letto a
peso morto. Fu come sprofondare dentro le piume del materasso, come se
il suo
corpo fosse ora troppo pesante da poter essere sostenuto da una
superficie
morbida come quella su cui era sdraiata. Ebbe per qualche attimo la
sensazione
di annegare dentro di essa, e nella sua mente balenarono strani
pensieri su
come i polmoni smettano di fare il proprio lavoro in un episodio di
annegamento.
Erano i suoi
momenti
vuoti, quelli, ed erano il motivo per il quale aveva fatto in modo di
non
averne più durante le sue giornate. Un buio torbido la
ingoiava quasi del tutto
–ed era quel “quasi” il reale problema,
poiché la lasciava cosciente di se
stessa e del dolore che la assaliva- ed era come entrare in un tunnel
di cui
l’uscita si lasciava intravedere ma rimaneva impossibile da
raggiungere poiché
le gambe, le braccia e qualsiasi altra parte del suo corpo aveva smesso
di
rispondere a qualsiasi impulso nervoso. Una morte apparente, che
annebbiava il
reale e lo dislocava sempre alla medesima scena, che si ripeteva
all’infinito
di fronte ai suoi occhi come una cassetta su cui per sbaglio fossero
state
registrate sempre le solite due immagini.
Aspettò
immobile in
quella posizione, tentando per quanto possibile di monitorare il
proprio
respiro. I polmoni erano come in preda ad un incendio e in quei momenti
dare
aria significava solo consegnare alle fiamme che la attanagliavano
altro
ossigeno da poter bruciare. Era un circolo vizioso, e in quei mesi
aveva
imparato a non contrastarlo. I primi tempi erano stati i peggiori,
orgogliosa
com’era aveva tentato in più modi di lottare
contro quegli attacchi di
debolezza –così lei li aveva catalogati, un
affronto indiscriminato alla sua
dignità- ma i risultati erano stati quasi peggiori degli
attacchi stessi: la
prima volta aveva avuto un fortissimo attacco di nausea e aveva passato
all’incirca un’ora abbracciando la tazza del water
e rilasciando nel sifone il
cibo ingerito –avrebbe potuto giurarlo- durante tutto il mese
precedente.
La seconda era
svenuta. Per evitare le fitte all’addome aveva deciso di
controllare la
respirazione, più che altro di forzarsi a farlo in modo del
tutto innaturale, e
il risultato era stato quello di finire lunga distesa sul pavimento
della sala
conferenze della Capsule Corp.
L’avevano
persino
portata in ospedale e le era toccata una lunga seduta con una
psichiatra mentre
era ricoverata –non poteva sfuggire, i suoi genitori lo
sapevano bene- dato che
era parsa chiara ai medici l’intenzionalità di
quel gesto, quindi aveva dovuto
spiegare tutto per filo e per segno a quell’estranea i come e
i perché di tutto
quanto. “Nessuno smette di respirare senza
motivo” Le aveva detto quella donna col camice,
enfatizzando soprattutto
l’ultima parte dell’eloquente frase, quando aveva
tentato di negare. Lì aveva
capitolato. Era stata una delle esperienze più imbarazzanti
della sua vita e
sempre grazie al proprio orgoglio aveva fatto un patto con se stessa: mai più ripetere una cosa del
genere. Da
lì aveva iniziato una lunga e dolorosa convivenza con quei
“momenti”, imparando
pian piano a gestirli e tentare di limitarne la portata: ogni volta che
ne
percepiva l’arrivo, faceva in modo di trovarsi impegnata in
qualche faccenda
che richiedesse totale concentrazione e nessun margine di errore o
distrazione.
In quel modo il tutto si limitava a una serie di dolori addominali, un
po’ di
nausea e una leggera emicrania, tutte cose governabili con
l’aiuto di qualche
leggero antidolorifico, che teneva prontamente nella tasca interna
della borsa
o nel marsupio da lavoro a seconda delle circostanze.
Erano almeno tre
settimane che non viveva un attacco in piena regola, anche a causa dei
ritmi da
manicomio che si autoimponeva, ma grazie al suo essere in totale
solitudine e
senza impegni prossimi per la giornata –le ci sarebbero
voluti almeno quaranta
minuti e una dormita o una doccia o entrambe per riprendersi
completamente-
aveva deciso di lasciare che tutto quel dolore la travolgesse.
Faceva bene
immergersi
in esso ogni tanto, aveva un ché di piacevole. In modo
masochistico,
autolesionista e totalmente assurdo, ma piacevole. Era come essere per
qualche
attimo faccia a faccia con se stessa, sola, senza alcuna imposizione
data dalle
convenzioni sociali e/o affettive. C’erano solo Lei e se
stessa in quei
momenti, quella parte di se stessa che rimaneva silenziosa e muta in un
remoto
angolo della sua vita, soffocata nella confusione e nella frenesia
delle
giornate incapace di prendere voce abbastanza per poter richiamare la
sua
attenzione.
Il respiro
iniziò mano
a mano a ritornare verso una quasi normalità, segno che
annunciava la fase
discendente di quel momento. Le braccia abbandonarono progressivamente
la
rigidità e scesero lungo i fianchi, avendo esaurito la
propria funzione di
contenimento –o di tentativo di tenersi insieme, dipende dai
punti di vista-
andando ad appoggiarsi al materasso.
La mente
guadagnava
lucidità, le pareti della stanza erano di nuovo normali
pareti e non una
sostanza vischiosa che pareva appiccicarlesi addosso, soffocandola e
dandole la
sensazione di trovarsi immersa in una camera piena di gelatina.
L’aria era di
nuovo respirabile, pian piano la patina opaca che le aveva serrato la
mente si
dissolveva e percepiva un ritrovato controllo delle proprie
capacità mentali.
Sospirò,
con lentezza
e facendo attenzione a non richiedere troppo al proprio fisico. Aveva
imparato
a proprie spese che farlo in certe circostanze era oltremodo
controproducente,
perciò da persona intelligente qual’era capiva
perfettamente la necessità
dell’evitare altri gesti stupidi.
Si
portò una mano alla
fronte, ancora formicolante per la rigidità innaturale a cui
l’aveva
sottoposta, scostando alcune ciocche di capelli che vi ricadevano
scomposte e
fastidiose, in un gesto noto quanto difficile in quei momenti.
Sbuffò.
Detestava non sentirsi padrona di se stessa al 100%, era qualcosa che
le creava
ulteriori frustrazioni e una crescente sensazione di disagio con quella
parte
debole della propria personalità.
-Mmmh.
Mugolò,
un po’ per
capriccio e un po’ per il malessere diffuso che sentiva
crescere dentro il
proprio corpo, per poi stiracchiarsi come dopo una qualche dormita ed
un poco
piacevole scricchiolio fece capolino da ogni muscolo, osso, nervo.
Erano gli unici
momenti in cui malediceva la propria esilità.
Aspettò
ancora qualche
minuto, in silenzio. Quando fu abbastanza certa di aver ripreso la
padronanza
di sé, facendo leva prima sui gomiti e poi sui palmi
aiutò se stessa ad
assumere una posizione più o meno eretta.
-Stupidi
sentimenti.
Si
alzò per poi
barcollare verso il bagno.
Era la prima
volta che
si concedeva una pausa dagli allenamenti, anche se l’aveva
fatto solo per poter aumentare il
materiale a
propria disposizione per vendicarsi della terrestre, dal momento che aveva osato ignorarlo
deliberatamente quella
mattina. Gli era parso un piano geniale quello di dedicare brevi
–e sottolineo,
brevi- attimi della propria giornata
a monitorare le azioni di quell’insopportabile creatura, pur
di incamerare
sufficienti elementi da permettergli di zittirla ogni qual volta lei
avesse
aperto quella bocca petulante per sfidare la sua pazienza con
pericolosa
insistenza.
Il piano era
semplice,
essenziale, ma proprio per questo motivo risultava necessario
applicarvi la
maggior cura possibile. Non era il massimo per un uomo
d’azione come lui,
abituato a prendersi la rivalsa subito e con forza, quasi sempre
terminando il
tutto con una strage/eccidio/distruzione, ma l’esperienza di
Kakaroth gli aveva
insegnato –o meglio l’aveva obbligato ad imparare-
ad attendere il momento
giusto.
Con lei avrebbe
fatto
lo stesso. Grazie ad una sapiente opera di spionaggio, sarebbe riuscito
ad
avere dalla sua una capacità che più di tutte gli
avrebbe garantito la rivalsa
su tutta la linea contro quell’essere gracchiante dai capelli
azzurri: il
toglierle ogni possibilità di replica.
Vedere quella
faccia
perdere ogni capacità di ribattere, diventare paonazza dalla
rabbia, abbassarsi
umiliata al suo cospetto era un pensiero talmente allettante da poter
essere
paragonato a quello dello smembramento/sbudellamento
dell’odiato rivale. Il
fatto che una donna avesse la capacità di prendersi una
porzione così ampia del
suo tempo e cosa ancor più preoccupante, della sua mente era
un pensiero che
Vegeta teneva ben lontano da se stesso, riconducendo tutto
quell’interesse alla
semplice equazione della vendetta, l’unica che realmente
aveva senso nella sua
testa.
Oltre alla dose
spropositata di tempo libero che si ritrovava per le mani,
nell’attesa
dell’arrivo di questi temuti cyborg.
Però,
in quel momento,
in lui si muoveva qualcosa di decisamente diverso dalle sensazioni che
conosceva come abituali. Era una scena difficile per lui da comprendere
quella
che vedeva stagliarsi di fronte ai propri occhi, fissi
sull’ampia finestra
della camera di Bulma ed intenti a studiare ogni suo più
piccolo movimento.
Dapprima credeva fossero semplici comportamenti da isterica
qual’era, ma quando
l’aveva vista assumere quella posa così
innaturale, rigida e lasciarsi andare
sul letto scompostamente –lei che era la
quint’essenza del calcolo in ogni
movenza, azione, parola- era rimasto perplesso.
O almeno credeva
fosse
quello il nome del sentimento, sempre ammesso che fosse in grado di
provarne
uno non compreso nei derivati dell’odio o dello spirito
vendicativo o di
entrambi, che ora percepiva chiaramente essersi annidato ai lati della
propria
mente e da quella posizione punzecchiargli insistentemente i pensieri.
Non capiva, e il
non
capire lo irritava parecchio, ma in quel momento più di
tutti sentiva forte
l’impulso di avvicinarsi, di ridurre la distanza fisica che
lo separava da
quella stanza. Gli occhi ancora fissavano l’esile corpo della
ragazza,
osservandone con attenzione il respiro scattoso e i tremiti che
l’attraversavano e che dal nulla l’avevano
immobilizzata. Forse era malata,
forse soffriva di qualche sindrome particolare che si sforzò
di annoverare come
un’informazione da sfruttare in seguito, un punto debole da
studiare e da utilizzare
poi a proprio vantaggio, mettendo così a tacere quel primo
ansito che gli aveva
toccato le viscere, esattamente a poca distanza dalla bocca dello
stomaco, con
un pungolo fastidioso.
Si costrinse a
soffocare quell’idea, fermando il suo corpo in quella posa a
mezz’aria e non
permettendogli di avvicinarsi alla casa un centimetro di
più. Un grugnito
sfuggì alle sue labbra, un misto tra indignazione e
fastidio, mentre vedeva
Bulma scomparire dal suo campo visivo diretta verso una stanza della
casa che
non vi poteva rientrare.
Rimase fermo in
quella
posizione ancora per qualche minuto, in attesa di vederla ricomparire,
ma la
porzione di camera lasciata visitabile agli occhi dal finestrone non
gli diede
più alcuna testimonianza della presenza della terrestre.
Voltò
le spalle.
Il fatto che i
suoi
sensi si fossero tesi per monitorare l’aura della ragazza,
insignificante come
al solito, ma concentrandosi soprattutto sul fatto che fosse costante,
–era
quello il motivo per cui la stava tenendo sotto controllo- era qualcosa
che non
avrebbe ammesso nemmeno in punto di morte o sotto tortura, soprattutto
a se
stesso. Una volta appurato quell’unico dato,
l’animaletto che sino a quel momento
gli aveva addentato le viscere smise di pasteggiare con le sue
interiora,
improvvisamente, come se si fosse finalmente saziato.
Scattò
in avanti,
diretto verso l’unica motivazione che ancora lo teneva fermo
su quell’insulso
pianeta senza averne trucidata la ancor più insulsa
popolazione.
Appena avesse
raggiunto il livello del Super Saiyan, annullando così il
distacco con l’odiato
rivale, e l’avesse distrutto, poco gli sarebbe importato di
quella casa e di
chi vi abitava. Se fosse stato magnanimo, li avrebbe fatti esplodere
insieme al
resto della Terra, regalando una fine veloce e indolore ed evitando
così
sofferenze atroci ai singoli. Se invece avessero opposto resistenza,
avrebbe offerto
a ognuno di loro un motivo in più per temerlo prima di
cancellarli
definitivamente dall’universo.
Non prima di
essere
divenuto immortale, ovviamente.
Quel pensiero
parve
ricacciare indietro gli strani impulsi che si erano impadroniti
momentaneamente
della sua mente, nuovamente rinchiusi entro una gabbia di gelo che da
tutta una
vita gli fungeva da scudo emotivo. Una sorta di corazza dura e spessa
con cui
si era ricoperto l’anima di modo da poter evitare alcun
contatto sentimentale,
con chiunque.
Era come essere
di
nuovo in sé e questo gli provocava una piacevole sensazione
di conosciuto e
noto, come camminare nuovamente su una superficie di cui si distingue a
memoria
ogni singolo centimetro: il sentore della familiarità, cosa
che lo riportava ad
indossare il suo ruolo senza smagliature né possibili
fraintendimenti. Lui era
il Principe dei Saiyan e aveva tutte le intenzioni di onorare la
propria razza
e il proprio ruolo non appena fosse riuscito a sfruttare al meglio quel
poco
che la Terra e quella famiglia poteva offrirgli.
Poi li avrebbe
uccisi.
Tutti. A partire da Lei.
--
Eccomi qui,
come
avevo promesso dopo due settimane ecco il nuovo capitolo :D mi ha fatto
molto
piacere leggere le recensioni, sono il sale che aiuta a continuare la
stesura
di una storia postata su un fandom perciò oltre a
ringraziare invito chiunque
passi per di qui a lasciarne una, fanno piacere e soprattutto aiutano a
crescere. Per il resto, sono in lutto dopo una disastrosa 100 puntata
di una
serie tv che ho scoperto da poco –grazie ad una sorella a dir
poco
ossessionata- ma che mi ha fatto fare marcia indietro sui miei pensieri
e
ritornare saltellante al mio vero amore, Sex
and the City del quale mi sono deliziata con una bella
maratona
pausa-studio ^^ Altro capitolo, come al solito lento forse, ma ricordo
che qui
in primo piano ci sono i sentimenti e il loro evolversi, amo trattare
di come
le persone sono costrette a scavarsi dentro per poter entrare
seriamente in
contatto con qualcun altro e io per prima sono convinta che questo,
seppur non
raccontato, sia uno di quei momenti. Non riesco a rassegnarmi
all’idea così
semplicistica di una Bulma che trafitta da un love
at the first sight per il bel Vegeta molli capra e cavoli
senza remore e si butti tra le braccia di un tizio che non conosce e
che
inspiegabilmente diventa l’oggetto del suo amore. Non la
ritengo così
superficiale, non sentimentalmente almeno.
Per il
resto, alla
prossima puntata
See you soon
guys
Stella*