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Autore: Il Romanticismo Perduto    05/02/2012    1 recensioni
Nelle lontane terre dell'Ovest, la Casta Reggente degli Elfi sta per fronteggiare il suo declino, richiamato dalla politica scellerata di uno dei figli di Avenor. Ad intrecciarsi con queste vicende, una storia fuori dal comune vedrà un'umana e un'elfa, Sam e Loole, accavallare le proprie esistenze.
Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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I Signori delle Terre dell’Ovest

I Signori delle Terre dell’Ovest

 

1.     Schegge di cielo

 

 

Era sorprendente il lieve tono ambrato che prendevano le lame di luce solare penetrando le lisce lastre di vetro incastonate nelle finestre; lo era ancora, dopo più di cento anni che quegli stessi passi solcavano i preziosi pavimenti del Palazzo, permettendo allo sguardo di spaziare senza sforzo tra i diversi usci che facevano capolino a tratti sulle pareti, piccole bocche di mondi preclusi alla vista da sontuose porte di noce, che fondevano nella loro linea slanciata il sapore del Barocco umano alla semplicità di curve temprate da gentilezze quasi sovrannaturali.

Il suono di quei passi leggeri era udibile solo ad un orecchio fine di cacciatore, accompagnato da diversi fruscii: la stoffa di un pallido turchese che scivolava sullo specchio ramato del pavimento, la cinta intrecciata di cuoio bruno che per un tratto pendeva tra le volute della veste, scomparendo come una minuscola imbarcazione nelle oscillazioni marine, creando un rapsodico sussurro; il tiepido mormorio dei respiri, che si intervallavano tra di loro lenti, più lenti di quelli di un uomo, più lenti di quelli delle bestie.

La donna che si muoveva in quello spazio, arrivando infine ad una porta elegantemente intarsiata, era un esemplare di elfo che non aveva pari al mondo.

La sua pelle incarnata d’avorio era la stessa di tutti i suoi simili, come la struttura delle membra che pareva più simile a quella di un giunco rispetto a quella degli esseri umani. Era snella e slanciata, ritta negli abiti che, smossi da venti inesistenti, danzavano attorno alla sua figura luminosa, colpita dal riflesso del sole; la sua bellezza inestimabile era un miscuglio alchemico di serietà, che le teneva le desiderabili labbra rosate serrate, e di imperscrutabile saggezza, caratteristica che ogni millimetro di lei trasudava, imponendo con tacite parole che le venisse usato un rispetto degno di una regina.

Ma vi erano connotazioni singolari, nella sua figura, tinte che nella razza che le aveva dato i natali era raro ritrovare: poiché i lunghi capelli che le cadevano sino alla vita, intrecciati in molli treccioline che a tratti avvolgevano tutte le fluenti ciocche, erano neri come il fosco piumaggio di un corvo; e le pupille che oltre le fila di lunghe ciglia saettavano occhiate profonde e insondabili erano illuminate di riflessi rosa, come quelli di alcune particolari gemme di topazio, e guarniti di lampi occasionali che portavano lo stesso rosso dei tramonti invernali.

Loole di Inveia allungò una delicata mano, adorna di lunghe dita affusolate che recavano i segni arabeschi di tatuaggi di fine inchiostro, alla maniglia dorata della porta che la fronteggiava austera, abbassandola e creando uno spiraglio che lentamente andò ad ispessirsi sino a permetterle il passaggio, dopo di che si chiuse la porta alle spalle, penetrata in una vasta sala circolare che racchiudeva una decina di persone.

Nessuno interruppe il suo lavoro quando la sorella del Reggente fece la sua silente comparsa alle loro spalle: elfi dalle giubbe di lino marroncino trascrivevano appunti diplomatici con la loro fine e serpeggiante calligrafia; un umano dai capelli bianchi e le lenti ovali posate sul naso ascoltava parole che a lui parevano dirette, pronunciate da un elfo corrucciato, seduto scompostamente su una cattedra disadorna, lo sguardo adirato fisso sulla pietra lucida dell’antichissimo tavolo che aveva dinanzi.

«…non costringetemi a ripagarvi con la vostra stessa moneta, Guillome, e prendete la responsabilità che il vostro ruolo richiede. O sarò tentato di pensare che voi siate deluso dall’esito che ha avuto l’attentato ai mie danni»

L’uomo, solo esponente della razza nella stanza, ebbe un sussulto alle parole dl Reggente di Inveia. Con la pelle lucida di sudore accennò un gesto nervoso di diniego, a cui seguì la sua voce soffocata, che portava la paura che sentiva dopo la minaccia dell’elfo.

« Non è mai stata mia intenzione negare i miei obblighi…verrà fatta giustizia per il grave gesto…eppure mi sento ancora in dovere di…»

Il coraggioso rappresentante di corte della popolazione umana del feudo fu liquidato con un gesto del Reggente, che si levò in piedi. Gli scrivani interruppero di colpo il loro lavoro, balzando in piedi e raccogliendo di fretta pergamene, piume e inchiostri, e prodigandosi nell’uscire il più presto possibile dalla stanza. Loole, accanto al muro, osservava.

« Allora tornate a casa e fate ciò che vi ho detto. Buona fortuna»

L’uomo chiamato Guillome bofonchiò indignato un paio di parole, ma si rassegnò ad uscire dalla stanza a testa bassa. Era ormai arrivato alle porte spalancate dagli scrivani quando notò la presenza di Loole, a cui rivolse un’occhiata malinconica. Ho tentato, dicevano i suoi occhi stanchi, ho tentato ma ho fallito.

L’elfa rispose con un tacito segno del capo, e l’uomo si affrettò ad uscire dalla stanza.

Dopo la fiumana di cortigiani defluita dalla sala, Loole rimase sola assieme al fratello e ad un altro elfo, che rimaneva seduto con altezzosità al suo posto, tracciando disegni astratti sulla tavola con i polpastrelli.

Il Reggente Fanaon era un uomo maestoso, che nel passare del tempo aveva vissuto una metamorfosi dolorosa, di cui solo da poco aveva iniziato a pagare le conseguenze. Era un elfo puro, disceso, assieme al suo clan, direttamente dai Migratori delle Catene di Hörn, i grandiosi eroi che avevano innestato le radici nelle floride terre dell’Ovest secoli prima, abbandonando i castelli di ghiaccio in cui erano vissuti nelle più alte cime alpine.

I suoi tratti ricordavano molto quelli di Loole, nel taglio netto degli occhi e nelle linee aguzze degli zigomi, ma i suoi colori erano i più frequenti tra i loro simili, i capelli quasi bianchi e gli occhi blu come le profondità oceaniche. Sembrava un bel giovane se visto di sfuggita, e sicuramente aveva dimostrato di poterlo divenire anni prima, ma una piega truce del volto lo aveva segnato per tanti anni da tracciare sulla sua pelle d’avorio un cruccio perenne, simbolo agli occhi degli uomini che nel suo cuore si era conficcata una scheggia di ghiaccio che non aveva possibilità di essere scacciata.

La camicia che gli avvolgeva il petto era scostata sopra la spalla destra; là, macchiata di sangue,

una benda era stretta sulla carne, posta dalle delicate mani della saggia Nün giusto poche ore prima.

«Salute a te, fratello» parlò Loole. La sua voce, a dispetto di ciò che ispirava la sua immagine angelica, era scura, e i toni bassi delle sue parole avvolti da volute di serietà inalterabile.

Gli occhi dell’altro elfo la squadravano senza pudore, ma lei non lo degnò d’uno sguardo.

«Ah, sei qui…credevo che la notizia non ti fosse giunta» disse Fanaon con un ombra acida nello sguardo.

Loole si limitò a gettare un’occhiata alla sua spalla ferita, e ciò appesantì il suo sguardo di dolore. Il fratello lo scorse, e, senza smettere il suo cruccio né la sua alterigia, mosse una mano verso di lei, nel tentativo di tranquillizzarla – un tentativo sin troppo magnanimo, per i gusti del Reggente.

«Via, non è nulla. Ci vorrà ben altro che un paio d’omuncoli per ammazzare me, sorella. Che sei venuta a fare?»

Quanto era arido, quello schizzo di tenerezza. Loole non mutò espressione davanti al comportamento del fratello, scoraggiata ormai da anni nel mostrarsi pietosa nei suoi confronti.

«Ti porto un messaggio di Mitride e della sua gente, Fanaon» rispose la donna, sedendo accanto al fratello. Gli occhi blu di lui la seguirono, accesi di una nuova ferocia.

«Sono scontenti di te. La tassa che hai loro imposto sulle terre che occupano è inadeguata, e lamentano il tuo disinteressamento verso la loro decisione di uscire dal nostro mercato. Non hanno danaro, fratello, non possono pagarti i cinquecento pezzi d’oro che tu domandi. E soprattutto, la tua richiesta va contro i trattati che firmammo venti inverni fa…»

«Venti inverni fa io ero un altro uomo!» esclamò irato Fanaon. Loole ebbe un piccolo sussulto quando lo stivale di lui colpì con violenza il suolo, ma dopo di che rimase calma ad ascoltare. «I loro sudici zoccoli hanno calpestato sin troppo i miei territori senza darmi nulla in cambio, non tollererò oltre! Tornatene da dove sei venuta e impicciati dei tuoi compiti, sorella, non osare invischiarti in faccende che non ti competono»

La rabbia violenta di Fanaon aveva raccolto ben poco stupore dai due elfi nella stanza, e Loole attese solo il trascorrere d’un paio di secondi prima di parlare ancora, con voce pacata:

«Eri un altro uomo» ripeté piano, in contrapposizione alle urla del fratello.

Lui la guardò con odio, e i suoi muscoli delle braccia si tesero a vuoto tanto che la benda si macchiò di nuovo sangue. I suoi occhi, ciechi di rabbia, vagarono per un momento nella stanza, e poi se ne andò, a grandi falcate che divorarono nel giro di un paio d’attimi il pavimento.

Loole rimase immobile sulla sedia, senza parlare. Non volgeva uno sguardo solo all’altro testimone dell’eccesso d’ira di Fanaon, e respirava attraverso i suoi calibrati sensi d’elfa come se fosse stata sola, insensibile alla presenza di quell’individuo dal viso smunto, e gli occhi sporgenti, avidi, che non smettevano di fissarla. Rimase ferma per alcuni minuti, a pensare, e poi s’alzò, stanca del silenzio rotto solo dai loro respiri. Arrivò alla porta da poco oltrepassata dal fratello quando la voce dell’altro elfo la raggiunse, fastidiosa come il tafano attorno ad un puledro.

«Mia cara, è ammirevole come voi vi intestardiate a portare a vostro fratello i vostri pensieri politici travestiti da messaggi…»

Loole guardò l’altro con sguardo sottile, senza aspettarsi parole preziose dalla sua bocca, tanto sottile e bianca da assomigliare al taglio netto d’un coltello mosso da mano esperta sulla buccia compatta d’una zucca.

«L’unico compito che sento di dover espletare è quello di curare le ferite che il nostro feudo sta subendo, Thaurgill. Quelli che voi chiamate pensieri politici non sono altro che la voce dei nostri popoli che chiedono pace. Non mi aspetto che voi comprendiate ciò che portiamo noi amici delle genti.»

Loole non impiegò nuova rapidità nel muoversi lontano dalla stanza, e l’elfo cortigiano la raggiunse senza sforzo. La afferrò per un braccio, ma la sua stretta era tanto debole da essere spezzata dal solo scatto stupefatto di lei. Le pupille rosate della nobile elfa si trovarono a pochi respiri da quelle di Thaurgill.

«Comprendo, invece, Loole. E so bene che tu da sola non puoi pretendere di vincere questa tua piccola guerra…perché non accetti che un amico ti prenda per mano per condurti alla vittoria del tuo capriccio, se questo ti renderebbe felice?»

La figlia di Avenor si ritrasse, i sensi che sottopelle le inviavano scosse allarmate, il viso candido atteggiato in una maschera di odio represso.

La mano di Thaurgill non fu capace di trattenere neppure una piega del suo abito, e lasciò che si scostasse, eretta nel suo fiero portamento di creatura secolare.

«Torna nel tuo angolino oscuro, Thaurgill, torna a contare le tue sconfitte. Sei un debole, se pensi che mi vincerai come il vento vince uno scampolo di stoffa strappandolo al suo ramo. Io non ho bisogno di te, non ho bisogno della tua avidità» lo aggredì Loole, sostando sotto il suo lungo sguardo alterato.

Thaurgill fece un passo indietro, fremendo. Con uno sforzo che parve sovrumano accennò un inchino, e allungò un pallido braccio avvolto da seta blu a indicare il corridoio.

«Saluto la Signora di Inveia» mormorò, socchiudendo gli occhi. Loole lo guardò ancora per un istante, le labbra splendidamente arricciate, poi si allontanò in fretta. Era arrivata lontano quando avvertì lo sguardo di Thaurgill lasciare libera la sua immagine.

 

Il feudo di Inveia si allungava a vista d’occhio dal braccio ad Est del Palazzo di Onice: era dalla finestra più lontana dal resto dell’edificio che Loole amava osservare le leghe attraverso cui i loro territori si espandevano, andando ad intrecciarsi con lunghe lingue di bosco, correndo sino ai confini coi loro vicini marittimi, che reggevano i lembi di terra a picco sul mare.

Quel giorno la luce del sole investiva obliqua ogni cosa, portando con sé una tonalità ultraterrena di pallido oro che rendeva preziosa ogni particella di polvere. Un profumo floreale era limpidamente trattenuto nell’aria, come ultimo scampolo d’estate che prometteva di svanire entro poche notti.

Sin dalla sua infanzia, Loole aveva sentito la voce tonante di suo padre chiamarla Figlia delle Stelle. Da quando l’avevano trovata rifugiata ad osservare il cielo dopo che il fratello l’aveva gettata in una polla di fango per dispetto, tutti a corte sapevano che, se la nuova Dama di Inveia era irreperibile, di certo i suoi occhi erano rivolti al cielo, da qualche parte del feudo.

Sentiva così vicina al suo cuore, quella primigenia caratteristica della sua razza: quell’eterno guardare la volta celeste alla ricerca di una risposta, forse per ingannare il lungo tempo a cui erano destinati, quegli anni che li vedevano vivere e crescere come querce, senza mai accennare un inchino al tempo.

Era mistico, trascorrere le ore a guardare le nuvole, come per vedere attuato il desiderio di voltarsi e ritrovare, conficcate nelle pupille, delle schegge di cielo.

Loole si imbrigliò una ciocca di capelli fuggitiva e la mise dietro l’orecchio. Sotto di lei, lontano, alcuni umani tornavano alle proprie case: le pareva di sentire, portata dal vento, l’eco festosa dei loro canti.

Ecco, tutto era come doveva essere*. In quelle minuscole briciole di pace, la Dama di Inveia poteva confrontarsi col suo desiderio più grande. E sperare, un giorno, di vedere il suo disomogeneo popolo raggiungere la pace.

 

 

 

*: Tutto è come deve essere. La notte indurisce la polpa dei frutti, risveglia il desiderio degli insetti; calma l’inquietudine degli uccelli; rinfresca la pelle dei rettili; fa danzare le lucciole. Sì. Tutto è come deve essere.

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama

   
 
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