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Autore: axlrosespack    07/02/2012    2 recensioni
Il 26 Settembre 1979. Quella sarebbe stata una fotocopia di tutte le giornate già trascorse. Quella sarebbe stata la stessa pioggia di sempre. William sarebbe stato lo stesso di sempre. Sarebbe cambiato però qualcosa il giorno dopo?
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axl Rose
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quella sera sarebbe stata forse l’ultima prima di perderlo.

 
 
23:00.
Rientro in casa.
Mia madre era seduta su una sedia con una tazza di tè in mano.
 
Io sorrisi.
Sorrise anche lei.
Aveva già capito.
Mi permetti di ubriacarmi dopo quello stupidissimo ballo? - Io.
Non vorrai farlo perché quella sera dovrai ricordarla.
Ricorda che niente dura per sempre.
- Mamma.
Lo so.
Buona notte. - Io.
Non c'è bisogno che ti dica che ti voglio bene, un figlio dovrebbe saperlo. - Mamma.
Non dire niente, l'ho sempre saputo.  - Io.
 
Mi avvio verso le scale.
Salgo.
Mi metto nel letto.
Penso tra me e me: va tutto bene.
Sto coprendo mia nonna, anche se mi manca, ancora.

Mi chiedo solo perché.
Se è andato tutto bene fin ora, perché dovrebbe finire tutto bene?

Avevo questa sensazione strana.
La sentivo, forte.
Avrei perso, di nuovo.
 
Trascorsi quattro giorni, eccoci.
 
November 10, 1979.
 
Esco da scuola.
Comincio a camminare, dirigendomi verso casa e inciampando nelle piccole fosse delle strade di Lafayette.
Le strade di Lafayette sono strette e rotte.
Tristi nella loro piccolezza, tristi nell'essere calpestate da tutti.
Stanche di essere sfigurate dalla pioggia.
 
Street St. Louis, Lafayette, n. 17.
Entro in casa.
 
Metterai quella maglietta stasera? - Mamma.
(Avevo la maglietta degli Iron Maiden.)
Se potessi. - Io.
Non rifiuterai di uscire con me per comprarti qualcosa. - Mamma.
Nessuno ha mai infranto un tuo sogno?
Nessuno ha mai rovinato la tua serata perfetta?
Hai non messo quel vestito perché non ti sentivi a tuo agio?
Hai pianto perché quel ragazzo non è passato a prenderti?
Non voglio comprare nulla, dammi quello straccio che non ha oltrepassato la porta di casa tua quella sera.
 
19:00.
Ero in camera mia pensando a qualcosa.
Aprendo la porta entra mia madre.
Aveva una busta trasparente di plastica in mano, con dentro qualcosa di bianco.
Lui è macchiato dal dolore di quella sera che avrei voluto godermi. - Mamma.
Meglio. - Io.
Apre la busta e tira fuori il vestito.
Era semplice.
Semplicissimo.
Un abito bianco - panna.
Arrivava fin sopra il ginocchio.
Aveva le spalline ed era di cotone, con qualche ricamo.
Era perfetto.
Mai visto niente di più bello.
Forse anche troppo elegante per come mi vestivo io.
 
Mia madre stava per dire qualcosa e io la interruppi.
E' perfetto. E' semplice, lasciato in disparte per tanti anni.
Triste e macchiato dal tuo dolore.
E ora aspetta che qualcuno lo indossi.
Non dire niente. - Io.
 
Mi diede il vestito.
Mi girai di spalle a lei e lo infilai subito.
Non era attillato né troppo largo.
Scendeva senza problemi, come se fosse libero.
Va bene, davvero? - Mamma.
Certo che va bene. - Io.
Siamo a Novembre, farà anche freddo fuori. - Mamma.
Porterò la mia maglietta dei Led Zeppelin. - Io.
Ho una maglia in lanetta coi bottoni. - Mamma.
Andata anche questa. - Io.
Quando scenderai da lui? - Mamma.
Quando ne avrò voglia. - Io.
 
Mia madre si avvia verso la porta, la apre ed esce.
 
20:00.
Ho addosso il vestito e la maglia in lanetta che mi aveva portato mia madre poco prima.
Avevo messo delle scarpe basse, come quelle che portavano le ballerine di danza classica, erano di color panna.
Non mi truccai, e pettinai i capelli con la spazzola.
Scesi in cucina e mia madre mi fece solo un sorriso.
Uscii.
 
Lui era poggiato all'albero con la schiena.
Aveva un pantalone nero, una camicia e una giacca.
Niente di più semplice.
Si girò portandosi le mani nei capelli.
Era imbarazzato.
Non aveva mai indossato una cosa del genere.
Tutto lo rendeva ingenuo.
La camicia infilata nei pantaloni, che pur essendo così, fuoriusciva larga.
Tutto scendeva libero lungo il suo corpo esile.
E le sue mani insicure che si intravedevano fuoriuscendo dalle maniche della giacca.
Il suo sorriso fragile, tremante, quasi non voleva farsi vedere.
Si nascondeva sotto il rosso dei suoi capelli.
 
Sembriamo due stupidi. – Gli dissi io ridendo.
Ma noi siamo stupidi. – Lui.
 
Andai verso di lui e ci ritrovammo faccia a faccia.
Non mi ha lasciato portare la maglietta dei Led Zeppelin, mia madre. – Io.
L’avresti indossata solo tu al ballo quella maglietta. Andiamo. – Disse lui ridendo.
 
Lui prese la mia mano.
Sentii la sua, leggera, sottile, delicata.
C’incamminammo.
 
L’evento era nella palestra della scuola, non avevano tanto spazio.
Arrivammo davanti alla porta.
Era aperta.
Erano quasi tutti dentro.
Riconoscevo qualche compagno di classe e altra gente che vedevo per caso tutti i giorni all’uscita di scuola.
Quando entrammo non potevano mancare gli occhi su di noi.
Chi guardava, guardava con uno sguardo strano.
Forse non avevano mai visto William, anche se Lafayette era una città, piccola, ma comunque una città.
E delle ragazze che lo fissavano dalla testa ai piedi, sussurrando delle cose ad altre ragazze.
William era bello, non potevo negarlo.
 
Rimanemmo nella palestra per un quarto d’ora, c’era la musica alta, quasi fastidiosa.
Vorrei dirti una cosa. – Gli dissi io.
Usciamo fuori. – Lui.
 
Uscimmo e ci sedemmo vicino un albero, come il solito.
Tu non puoi vivere solo perché ora ci sono io o solo per i rametti d’albero, il tuo corpo fragile porta dentro una cosa troppo grande. – Io.
Ho scoperto che quello che vive in casa con me non è il mio padre biologico, me lo avevano fatto credere.
Quello biologico ha abbandonato me e mia madre quando avevo due anni, dopo avermi portato nella merda.
L’uomo che vive in casa mia mi ha sempre picchiato quand’ero piccolo, e mia madre stava seduta come se non avesse un figlio.
Non li conosco. Non c’è rapporto con quella donna, solo litigate con quell’uomo.
Non serve a nulla restare qui per il resto della vita.
Nemmeno ce la faccio. E non è solo per quello, ho bisogno di uno schifo di casa e di almeno due dollari in tasca.
Non voglio dipendere da loro, mi viene la nausea.
Se avessi lasciato Lafayette, non ci sarei mai tornato. L’unica cosa stupida da fare sarebbe trovare un altro stupido come me e strimpellare una chitarra, gridando una strofa di una canzone con una voce che fa schifo.
E un ragazzo, un amico d’infanzia, Izzy Stradlin, lo chiamavamo così, si è trasferito da poco a Los Angeles.
Un patito del rock che ogni tanto suonava una chitarra. Mettermi due dollari in tasca significa anche raggiungerlo e provare a fare qualcosa di stupido con altre tre persone.
Non è un sogno, è solo l’odio verso Lafayette, mi ha distrutto quand’ero piccolo. – Lui.
 
Avevo capito che dentro di lui si nascondeva qualcosa di grande, e che non era una cosa positiva.
Le sue parole erano state chiare e io non l’avrei fermato. Infondo due dollari possono servire, e come.
Io l’avevo capito Will, sappi che non mi metterò al posto di quei due dollari, sei colui che riesce a far andare in tilt qualsiasi cosa appartenga al mio corpo, quello di cui mi sono innamorata, l’unica persona che amerò alla fine di ogni respiro. – Gli dissi io.
Nessuno ci impedirà di stare insieme fino a quando potremmo. – Lui.
Si avvicinò, portando la sua mano vicino il mio orecchio e mi diede un bacio, forse il più ingenuo e delicato.
 
Rientrammo nella palestra e c’era una canzone.
Stairway to Heaven, una ballata dei Led Zeppelin.
I ragazzi l’avevano considerata come un lento, e abbracciati la ballavano.
Andammo anche noi.
There's a lady who's sure all that glitters is gold, and she's buying a stairway to Heaven…
Avevo poggiato la testa sulla sua spalla, e forse era la mia canzone preferita, forse perché lui se ne sarebbe andato, scese una lacrima.
 
Finita la canzone, decidemmo di andarcene.
Mentre tornavamo a casa facevamo gli stupidi, dicendo cose insensate e dandoci degli spintoni.
Sembrava ci fosse Stairway to Heaven come sottofondo.
 
Street St. Louis, n. 17 e 18.
Le luci delle nostre umili case erano spente.
La mia famiglia era andata a cena da qualche parente.
Quello non sta mai in casa, chissà dove avrà portato anche mia madre stasera. Vieni, la mia casa non fa tanto schifo. – Disse lui ridendo.
Dovresti vedere la mia. – Gli dissi io.
 
 
Entrammo in casa sua.
Era simile alla mia, un divano, una piccola cucina, un tavolo, quattro sedie e si saliva per arrivare alla sua stanza.
Io praticamente vivo nella mia stanza, possiamo anche salire. – Lui.
Per me è lo stesso. – Io.
Arrivati in camera sua, avevo visto il Paradiso.
C’era di tutto dai vinili ai poster: AC/DC, Scorpions, Aerosmith, Led Zeppelin, Doors, Stooges, Deep Purple, Kansas.
Ma è un Paradiso?– Io.
Questi sono i pochi soldi -che ha quello che dovrebbe essere mio padre- che gli ho fottuto, e li ho spesi per cose inutili proprio per fargli un dispetto. – Lui.
Per me li hai spesi benissimo. – Gli dissi io ridendo.
Devo ammettere che non mi disturba tenerli. – Lui.
 
William mise “Houses of the Holy” il quinto vinile pubblicato dai Led Zeppelin nel 1973.
La terza canzoneOver the Hills and Far Away”.
Ci sedemmo sul letto e cominciammo di nuovo a dire cose stupide, sparandoci i Led Zeppelin a tutto volume.
Facevamo gli stupidi coi cuscini, tanto che andai a finire seduta sul letto con la schiena vicino al muro e lui di fronte a me.
Eravamo vicinissimi.
Lui non poteva fare altro, e io non potevo fare altro.
Avvicinandosi piano mi baciò, portando le sue mani sulle mie braccia.
Continuammo così, quando poi sentii quel vestito che avevo addosso sfilare dal mio corpo.
 
Mentre i Led Zeppelin cantavano, noi, forse per l’ultima volta, facemmo quello che avremmo voluto fare quella sera, sotto la pioggia, quando lui mi baciò e le nostre labbra tremavano per il freddo, ansiose di fare qualcosa in più.
 
Ogni cosa poteva essere l’ultima per un semplice mortale, ogni cosa poteva essere l’ultima per me con William.
 
Quella sera sarebbe stata forse l’ultima prima di perderlo.
  
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