Anime & Manga > Naruto
Segui la storia  |       
Autore: GreedFan    07/02/2012    1 recensioni
Il virus Idra non è una semplice malattia.
E' un vero e proprio incubo.
L'infezione dilaga nell'isola di Manhattan, trasformando i contagiati in aberrazioni assetate di sangue, e, mentre le autorità sanitarie di tutto il mondo si arrovellano per trovare una soluzione, una sola figura si erge al di sopra di tanta degradazione.
Zeus.
Un infetto più potente degli altri o un semplice scherzo della natura? La società "Eden" non può di certo immaginare quali saranno le conseguenze del suo gesto, quando tenterà di creare un'arma biologica in grado di contrastarlo.
E Sasuke Uchiha, l'arma biologica in questione, non ha la minima idea dell'incubo in cui si sta gettando.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

029 – Hunter and Prey


All’interno del suo alveare, Kushina Uzumaki percepì le vibrazioni che scuotevano tutta Manhattan.

Sollevò la testa, scostò i capelli dal viso con un gesto distratto e inspirò profondamente ad occhi chiusi. L’aria conservava per chilometri e chilometri una puzza acre, marcia, come quella della morte rossa che aveva seminato distruzione tra i suoi figli, ma c’era anche qualcos’altro.

Un rumore.

Grida lontane, attutite dalla distanza, ed esplosioni. Sembravano provenire dalla tana del lupo.

Si rannicchiò sul suo letto di Idra, indecisa. Il suo bambino era in pericolo, lo sentiva, e Itachi-kun... Itachi-kun era vicino a lui. Troppo vicino, troppo forte e pericoloso e infido, quel maledetto; già una volta aveva fatto del male a Zeus, e lei non voleva che la cosa si ripetesse.

Stavolta, poi, Ade non avrebbe potuto salvarlo.

Si alzò in piedi con uno sbuffo. Attorno a lei, i cacciatori ruggirono, percependo il cattivo umore della regina.

Si passò una mano sul polso, osservandolo con tutta calma. Le sue vene bluastre, al solito, pulsavano sotto l’epidermide semitrasparente in reticoli astratti, che mutavano periodicamente e si ricomponevano decine di migliaia di volte. Affondò le unghie nel polso, strinse la presa.

Gocce scarlatte perfettamente sferiche, come perle di sangue, le stillarono dalla ferita.

A poco a poco, ingrandendosi e perdendo la loro forma, le rigarono il braccio e precipitarono a terra con un rumore appena udibile.

Formavano delle pozze minuscole, senza venire assorbite dal tappeto di Idra che ricopriva il pavimento. Ben presto, però, cominciarono a mutare.

Piccole bolle affiorarono sulla superficie, ingrandendosi sempre di più in quella che ben presto divenne una sorta di schiuma densa e rosata, che si ammonticchiava e aumentava di volume secondo dopo secondo. Quella pila vischiosa crebbe a dismisura, fino ad assumere una vaga forma umanoide; poi, si ingrandì ancora, superò in altezza e grossezza la sagoma della Greene e assunse contorni più netti. Quando, con uno scossone, si liberò dalle bolle che ancora gli scorrevano sulla pelle, davanti a Elizabeth comparve una creatura molto simile ad un cacciatore.

Aveva, certo, forme più umane e slanciate, nari più grandi e orecchie che svettavano in fuori rispetto alla rotondità del cranio, ma gli stessi occhi piccoli e scuri brillavano nelle orbite, le stesse zanne piccole e appuntite spuntavano a file dalla bocca semiaperta.

«Gisei,» sussurrò, allungando una mano ad accarezzare la fronte piatta e fortemente convessa della creatura. Quella emise un gorgoglio di ringraziamento, socchiudendo lo palpebre «proteggi il piccolo Zeus. Combatti per me».

Gisei piegò la grossa testa scabrosa e chiuse gli occhi.

Si voltò e corse via, sparendo nella penombra rossiccia dell’alveare.


***


«Ehmm...» Kisame osservò la carta che teneva tra le grosse dita, già stropicciata. Poi la girò al contrario «Uh. Ah, ecc... no. Ma che cazz... questa cosa è più confusa dei discorsi di Hidan quando è ubriaco!»

Alzò gli occhi chiari al soffitto, sperando che qualche aiuto misterioso piovesse dal soffitto e lo aiutasse a capire dove diamine doveva andare. Non riusciva a leggerla, quella dannata cartina.

Tirò fuori dal taschino una fototessera della tipa che doveva prelevare – una gran figa, dal poco che quel minuscolo rettangolino di carta lasciava intendere – e lo rimise a posto con una smorfia contrariata. Ma che doveva fare per trovare i laboratori? Chiedere aiuto ad un passante?

«Scusi, ma chi è l-»

La voce proveniva da dietro le sue spalle. Quando si voltò (dimenticandosi, incauto, di rimettere a posto la maschera da Blackwatch, slacciata per poter respirare meglio) la signorina in camicie e decolléte che aveva parlato sbiancò improvvisamente, e si portò una mano al petto.

Aveva delle gran belle tette.

Emise un gridolino fioco, strozzato dal terrore, e rimase perfettamente immobile e tremante. Certo, incontrare un gigante con la pelle blu non capita tutti i giorni, men che meno in un momento di sollecitazione generale come quello in cui si trovava la Gentek. La ragazza, una dottoressa del piano, doveva soltanto assicurarsi che tutti i colleghi fossero rimasti al proprio posto – il suo capo, che avrebbe dovuto adempiere a quel compito, era sparito chissà dove.

«Salve, bellezza…» Kisame l’afferrò per il polso. Quella non si mosse nemmeno, troppo terrorizzata per fare il minimo gesto «... come ti chiami?»

«M-Matsuri…» balbettò, fissando Kisame con due occhi castani, da cerva, enormemente spalancati.

«Bene, è un nome che mi piace. Adesso, Matsuri, mi serve che tu mi aiuti a trovare questa tipa qui... sai dov’è ora? Mi avevano detto di cercare nei  laboratori». Le sventolò davanti al viso la fototessera.

Matsuri deglutì.

«O-ok. M-ma non ucc...»

«Non ti uccido, tranquilla». Le passò una mano sotto i fianchi e l’altra dietro la schiena, prendendola in braccio come se non pesasse niente. La ragazza emise un mezzo grido, afferrandogli la tuta, e Kisame ghignò, mettendo in mostra una doppia fila di denti triangolari e appuntiti, i denti di uno squalo.

Se mi avessero detto prima che si trovavano certe gattine alla Gentek, non mi sarei nemmeno portato la cartina”.

«I-i l-laboratori s-sono da quella parte...»

«Bene, baby, guidami tu. Ah, e non provare a fregarmi... ti sarebbe difficile scappare, con quelle trappole di scarpe che porti».


***


A Sasori era stata affidata la parte più pericolosa del piano.

Stai attento”, gli aveva detto Zeus, “secondo Shikamaru, tutti i campioni biologici e le attrezzature di ricerca sono nei laboratori sotterranei. Voglio che tu li distrugga... così, almeno, non potranno creare altri abomini”.

Ovviamente, aveva acconsentito. Dovevano ancora scoprire chi aveva ucciso Deidara, e non era nella posizione di negare un favore a Zeus. Ciò non voleva dire, però, che ne avesse la voglia.

Fortunatamente, pareva che i Blackwatch si stessero dirigendo esattamente nel punto dove doveva recarsi anche lui. Certo, non poteva mettersi a spaccare mobili e celle frigorifere fintantoché era circondato da militari, ma quella situazione gli permetteva di passare inosservato e entrare dove voleva.

Almeno in teoria.

Non ci volle molto perché udisse i primi spari. Era un rumore che odiava – cacofonico, continuo, ripetitivo – eppure, in quel frangente, lo fece sorridere: Zeus era lì da qualche parte, vicino. Sentì un grido – no, più che un grido era un ruggito, animalesco e brutale, lacerante. Carico di rabbia.

Nemmeno il Prototype sopportava i proiettili all’infinito. Oltre un certo limite cominciavano a dargli fastidio.

A quel verso si sovrapposero ben presto le urla dei soldati.

Continuò ad avanzare nella direzione prescelta, esaminando l'ambiente circostante con grande perizia. Si trovava al secondo livello dei laboratori, ultima fermata dell'ascensore regolare, ma sapeva perfettamente che c'era un qualche modo per accedere ai livelli inferiori; udendo un altro ruggito, decretò che Zeus si trovava sul suo stesso piano, a non più di una quarantina di metri di distanza. Non aveva voglia di incontrarlo - avrebbe dovuto prestargli necessariamente aiuto, e questo avrebbe ritardato di parecchio i suoi piani.

Perciò, non appena ne ebbe l'occasione, sgusciò fuori dal flusso dei Blackwatch e si defilò rapidamente in una stanza; rimase qualche minuto in silenzio, attese che gli ultimi passi si fossero allontanati verso la fonte del trambusto, poi uscì.

Cambiò strada una ventina di volte prima di trovare quello che cercava.

Sul fondo di un corridoio dalle pareti bianche c'era la porta d'acciaio, lucida e invitante, di un ascensore. Accanto, simile ad una scatola di metallo robusto affissa al muro, una guida metallica attraversata da una sottilissima fessura verticale.

"Hanno un sistema di sicurezza invidiabile in questo posto," pensò Sasori "ma non ho certo bisogno della tessera per eludere una barriera così delicata".

Diede un calcio alla porta, e il metallo si piegò. Poi un altro e un altro ancora, aiutandosi anche con le mani, finché le due porte scorrevoli, deformate verso l'interno, non si separarono abbastanza per permettergli di inserire le mani nella fessura e svellerle completamente.

Si sporse nella tromba dell'ascensore, un precipizio dalle pareti di cemento che si perdeva subito nell'oscurità. Sia che sollevasse lo sguardo, sia che lo abbassasse, ad accoglierlo c'era lo stesso buio pesto, incerto e carico di chissà quali incognite; non poteva rimanere fermo in eterno - sicuramente quella zona era videosorvegliata, e qualcuno l'aveva già visto.

Si lasciò cadere nel vano con le gambe piegate, pronto all'impatto. Precipitò per un tempo che gli parve infinito, prima che i suoi piedi colpissero una superficie rigida e uno schianto fortissimo rimbalzasse sulle pareti di cemento creando un'eco fastidiosa. Era sul soffitto di metallo di un ascensore.

Si accosciò, percorrendo quel coperchio mezzo deformato con le dita finché non percepì, sotto le dita, in profilo appena in rilievo di una botola. La strappò dai cardini con un gesto annoiato e si calò nella cabina, che godeva dell'illuminazione di una tremula lampada al neon; qui, dopo aver schiacciato il pulsante dell'ultimo piano, il -21, scoprì di essere già arrivato a destinazione.

Che qualche scienziato fosse sceso a salvare il salvabile in previsione di un intervento come il suo?

Peggio per lui, allora.

Il livello in cui entrò era molto diverso da quello in cui Zeus stava dando spettacolo.

Non c'erano porte, solo un corridoio interamente rivestito di metallo opaco e freddo; si biforcava sul fondo, formando una T perfetta, e solo allora due battenti d'acciaio, muniti anche quelli di targhette e guide per tessere magnetiche, sbarravano il passaggio.

La targa di destra riportava "Campi di Allenamento", la sinistra "Materiali Virali".

Sasori abbatté la prima a furia di calci e spallate e si fece largo in un corridoio identico al precedente. Solo, sulla destra si aprivano tre porte, due di semplice metallo e munite di maniglia, la terza ancora una volta accompagnata dalla guida.

Fu su quella che si diresse. Prima che potesse attaccarla, però, la lastra d'acciaio scivolò silenziosamente di lato.

Sasori si accostò repentinamente al muro, accanto alla porta, le orecchie tese al delicato rumore di un respiro umano, pochi centimetri oltre la soglia. Quando l'ospite inatteso si palesò, le sue sopracciglia si corrugarono impercettibilmente in un moto d'ira.

Conosceva quella donna. Come avrebbe potuto dimenticare il suo viso da ragazzina e i suoi lunghi capelli neri, quando proprio lei era stata la causa e il motore del lento sfacelo che aveva finito per culminare con la morte di Deidara? Come poteva dimenticarsi di Hinata Hyuga, quando proprio a causa dei suoi errori e del suo tradimento il nemico aveva potuto colpirli tanto profondamente?

Senza indugio, scattando con una velocità e una violenza che recavano l'impronta della sua rabbia, la afferrò per la gola e la schiacciò contro il muro, avvertendo il suo respiro farsi corto e affannato sotto la spinta dei polpastrelli.

Solo a quel punto notò che nella mano destra stringeva, con tanta forza da avere le nocche completamente bianche, una valigetta nera con delle strane strutture circolari di metallo su entrambi i lati, simili a valvole o filtri, e un led lampeggiante vicino al manico.

«Donna...» sibilò, accennando all'oggetto «... cos'è quella?»

Allentò un poco la presa, e gli occhi di Hinata si riempirono di lacrime. Da come lo guardava, sembrava l'avesse riconosciuto.

«Rispondimi. Ho già troppi buoni motivi per ucciderti».

Hinata tossicchiò, facendogli segno che non riusciva comunque a parlare. Sasori la lasciò andare, poi fece un passo indietro, lo sguardo pieno di disprezzo.

«Allora? Cosa ci facevi qui sotto?»

«Q-q-questi... q-questi s-s-sono g-gli u-ultimi c-campioni di I-Idra r-rimasti... l-la s-sostanza p-pura t-tratta d-dal p-plasma di Z-Zeus... e... e poi...»

«Parla».

«La c-cur-»

«Non osare dirlo!»

Le allungò un calcio che la fece gridare dal dolore, poi si dominò e assunse il solito contegno: dare spettacolo di fronte ad una creatura inferiore come quella non rientrava certamente tra i suoi piani.

«Lo stesso trucco non funziona due volte».

«A-aspetta! T-ti prego, t-tu d-d-devi a-ascoltarmi!» Supplicò, ripiegandosi su se stessa come per proteggersi «Q-quella c-cosa c-che m-mi h-hanno f-fatto iniettare a Z-Zeus, i-io n-non s-sapevo c-cosa fosse...»

«L'ha quasi ucciso provocandogli una specie di tumore. Ora che lo sai, come pensi di convincermi?»

Hinata spalancò gli occhi e fece una smorfia inorridita, poi, dopo aver scosso la testa un paio di volte, gli occhi bassi, riprese a parlare.

«M-mi h-hanno r-ricattata... a-avrebbero f-fatto d-del male a m-m-mia s-sorella».

«Questo ti rende un individuo a rischio».

«F-fai c-come v-vuoi... u-uccidimi s-se c-credi, m-ma t-ti p-prego d-di p-p-portare q-questa a Z-Zeus... i-iniettatela su u-un i-infetto c-comune e v-vedete s-s-se f-fa effetto... n-non su di v-voi, n-non f-funzionerebbe».

«Su di noi non funzionerebbe? Che intendi? Smettila di balbettare, o ti ammazzo».

La ragazza arrossì violentemente, poi prese un respiro profondo e inghiottì il groppo che le opprimeva la gola. Si appoggiò al muro con la schiena, prima di rispondere.

«Ho sperimentato d-delle cure...» sospirò, rabbrividendo nel tentativo di controllarsi «... ma nulla può far r-retrocedere gli effetti dell'Idra, p-perché il virus si integra troppo con l'organismo o-ospite e distruggerlo s-significherebbe u-uccidere anche l'infetto. Q-quindi ho pensato c-che avrei potuto riprodurre l-la mutazione di v-voi infetti superiori anche sugli altri e r-ridare loro l'autonomia e la dignità...»
Sasori scosse la testa. Dignità... quella ragazzina non sapeva di cosa stava parlando. Avrebbe voluto ucciderla, ma quella novità della presunta cura impossibilitava ogni sua mossa: la logica voleva che ammazzasse l’umana e portasse via la valigetta, ma non poteva prendere una decisione del genere senza consultarsi con Zeus. Certo, avrebbe potuto tacere quell’incontro e finirla lì, ma un tardo fastidiosamente ostinato già lo pungeva all’altezza del petto, sussurrandogli cose che non voleva ascoltare. La cura poteva essere reale, stavolta? Fosse pure, a lui cosa interessava?

Digrignò i denti, fissando Hinata.

Era una circostanza intollerabile, ma non poteva lasciarla lì.

Prima, però, aveva una missione da compiere.

«Queste porte,» le additò «dove conducono?»

«C-ci sono i macchinari di r-ricerca e i campioni di Idra... n-non quelli puri, ovviamente».

«Nel corridoio prima di questo c’era una biforcazione. Che cosa c’è oltre l’altra porta?»

«O-oh, niente... quella parte n-non v-viene u-usata da mes-»

«Ti ho chiesto cosa c’è».

«Lì... lì c’erano i p-posti dove v-vivevano Z-Zeus e g-gli altri e-esperimenti di Hope, m-ma la zona è s-stata chiusa dopo la f-fuga di Elizabeth Greene».

Sasori torse leggermente la bocca.

«Bene. Fammi entrare nei laboratori».

Hinata annuì, senza fare domande, e passò velocemente la propria tessera magnetica nella guida accanto alla porta; Sasori la afferrò per un braccio, tirandosela dietro con  rudezza mentre percorreva il basso passaggio illuminato, fino a sbucare in un’ampia sala rischiarata a giorno da una serie di enormi tubi al neon. Il locale era pieno di tavoli e strumenti di ogni tipo, dal pavimento sbucavano a tratti strutture cilindriche alte fino al soffitto in cui, oltre il vetro spesso, luccicavano provette piene di campioni congelati; era tutto così bianco che per qualche secondo Sasori fu accecato da quel chiarore abbacinante.

Poi, infilò la mano in tasca e ne trasse un piccolo oggettino nero.

A prima vista somigliava ad una scatolina di plastica con due linguette per ciascun lato, senza disegni o dettagli di nessun tipo tranne una striscia di nastro biadesivo sigillato su una delle facce piatte. L’infetto strappò la carta del nastro e fissò la scatolina su un tavolo, poi ne prese un’altra e ripeté il procedimento.

Ne dispose in tutto quattro.

«C-che cosa sono quelle?»

«Il regalo di un morto».


***


«Chi siete?!»

«Oh, andiamo, non costringermi a ripetere le cose più di una volta...»

«Salta i convenevoli. Ci fanno perdere tempo».

Hidan fissò Kakuzu, risentito, poi tornò a concentrarsi sulla ragazza che gli stava davanti. Non era una gran bellezza – capelli e occhi scuri, viso orientale dai tratti un po’ troppo marcati per una donna, e, in più, lo guardava con un’aria di aggressività e supponenza che gli faceva girare le palle.

«Che cosa volete da noi?» Il ragazzo era più interessante solo perché brutto e dall’aria stupida e irritante. Gli era capitato un incarico del cazzo.

«Tanto per cominciare vorrei che la smettessi di rompermi i coglioni. Che ne dici, è una buona idea? E poi vorrei che tu e Lucy Liu veniste con noi».

Anche se Lucy Liu, per cinese che era, aveva comunque un viso più bello di quella ragazzina.

«No!» Esclamò la ragazza, facendo un passo indietro e accostandosi al letto. Sulle lenzuola c’era una sacca di tela verde, a cui Hidan, entrando, non aveva fatto caso; non si poteva dire lo stesso di Kakuzu, che, dopo essersi sfilato la maschera antigas, rivolse agli ostaggi un ghigno solcato da cicatrici.

«Se lì dentro c’è una pistola,» interloquì, calmo come suo solito «non ti conviene provare a prenderla, a meno che tu non possa fare a meno di una mano... o due».

Hidan le si avvicinò a grandi passi, e lei si appiattì contro il muro.

«Su, da brava... ci ha mandato Zeus, quello che vi ha salvato il culo».

«P-perché siete...»

«Perché qualcuno sta attaccando la vostra base in questo momento e qualcun altro ci ha chiesto di portarvi via da qua».

«Chi?»

A quel punto, spazientito, Hidan afferrò la ragazza con uno scatto e se la tirò contro. Tenten cercò di ribellarsi, emise un urlo e scalciò, ma all’uomo bastò un braccio per circondarle il corpo e immobilizzarla del tutto. Rock Lee tentò di difenderla, ma inutilmente: fece un passo verso Hidan, la mano chiusa a pugno, e nello stesso istante in cui le sue nocche sfiorarono il tessuto della tuta sulla spalla del blackwatch, strusciando contro l’imbottitura di uno spallaccio, si sentì serrare la bocca da qualcosa di gelido. Pochi secondi dopo, avvertì un dolore pazzesco allo stomaco, e il suo campo visivo si oscurò completamente.

Si abbandonò tra le braccia di Kakuzu, svenuto.

Gli occhi di Tenten fissarono il suo corpo inerme, spalancati per la paura. Poi, lentamente, si spostarono sul viso scoperto di Kakuzu, solcato da miriadi di cicatrici nerastre.

Un lampo di comprensione le attraversò gli occhi.

«Ma tu... io ti ho già visto da qualche parte...»

«Starà parlando del periodo in cui cantavi con quella boyband gay di Toronto».

«Non sarai mica-»

«Il grande rapinatore di banche che quattro anni fa ammazzò venti persone durante un colpo? Cristo, sì! Non capisco tutto questo interesse mediatico nei confronti di un rubagalline...» sputò Hidan, spintonando la ragazza senza alcuna delicatezza «... voglio dire, ci sono cose molto più interessanti su cui puntare i riflettori. Cazzo, da quando gli Americani preferiscono un paio di dollari buttati nel cesso ad una donna con la fica squarciata, eh? Da quando?»

«Credo di averti già detto che la tua megalomania mi infastidisce, ma non è questa la sede in cui parlarne. Ragazzina, tu riesci a camminare?»

Tenten annuì.

«Bene. Ora, visto che grazie al tuo amichetto mi tocca portare un peso in più, voi mi precederete. Hidan, tu sta’ attento... dobbiamo evitare che sparino a lei, o Zeus ci ammazzerà».

«Non mi sparerebbero mai, sono pur sempre...»

«Blackwatch? Esseri umani?»

E Hidan la trascinò oltre la porta, ghignando, mentre Kakuzu, alle loro spalle, emetteva una risata bassa e terribilmente lugubre.

 

***


La verità era che gli sarebbe piaciuto smettere di vivere.

Qualsiasi cosa sentisse oltre l’oscurità perenne che gli opprimeva la vita, qualsiasi impercettibile movimento o vibrazione o respiro, non faceva che spingerlo sempre di più nel pozzo buio in cui era precipitato.

«Non ti sveglierai, Sasuke?»

Aveva riconosciuto quella voce, naturalmente. Apparteneva ad un momento che pareva trascorso da secoli, in una notte in cui aveva scelto definitivamente la sua strada e per poco non aveva perso ciò a cui teneva di più... Zeus. Chissà dov’era lui, in quel momento. Non aveva sentito la sua voce, ma sapeva che era vivo; da qualche parte, lontano da lui e probabilmente disinteressato alla sua sorte, ma vivo. E cosa ci faceva quell’uomo strano, quell’Orochimaru, nella sua stessa stanza?

Non capiva perché avrebbe dovuto rispondergli. No, non si sarebbe mai svegliato, non avrebbe m ai più rivisto la luce del sole. A che pro alzarsi e ricominciare a camminare in un mondo nero?

«Credevo che gli Uchiha fossero più forti».

Quindi conosceva la sua famiglia; un dettaglio così sarebbe stato anche capace di risvegliare la sua curiosità, in altre circostanze, ma in quel momento gli suscitava soltanto un profondo desiderio di tapparsi le orecchie e rendersi invisibile anche a quell’ennesimo disturbatore. Muovere le braccia o le mani, però, era fuori discussione.

Sentiva che, se avesse azzardato una mossa del genere, sarebbe caduto in pezzi.

«So che hai superato prove peggiori. Perché adesso non combatti?»

Non corrugò le sopracciglia, non si agitò. Espirò tutta l’aria che aveva nei polmoni e schiacciò il torace contro il lettino fino a sentire una fitta allo sterno. “Perché”, gli chiedeva?

Aveva sempre creduto di poter sopportare le atrocità della vita. Dopo aver conosciuto Zeus, dopo aver gettato uno sguardo in quel baratro profondissimo che era il suo mondo, aveva pensato di essere persino fortunato. Guardando il proprio passato lo aveva trovato quasi bello, se non  altro pacifico.

Qualcosa su cui poter contare.

E poi... poi c’erano gli occhi di Itachi, le profondità abissali di quelle iridi rosse.

C’erano i ricordi – quelli veri, non un banale surrogato della realtà – quelli che il suo amorevole fratellone si era prodigato di fornirgli. Il suo passato, il suo incubo peggiore.

 

Non si tratta di aver paura dell’ignoto, ma di sé stessi”.

 















_Angolo del Fancazzismo_
E adesso voi vi starete chiedendo "ma se avevi due capitoli pronti, perché non hai postato prima?"
Io effettivamente i capitoli pronti ce li avevo, ma mi sono accorta che per appiopparvi il prossimo aggiornamento (che, tanto per intenderci, è un bel capitolone flashback *schiva i pomodori*) dovevo necessariamente aggiungere un pezzo a questo e creare una piccola parte introduttiva.

Non me ne vogliate se ci ho messo tanto, ma tra il p0rnfest e la scuola sono mmmmmmorta.
*Si accascia sulla scrivania*

Giuro e spergiuro che domani risponderò a tutte le recensioni che ho lasciato senza risposta nell'ultimo periodo, e che mi erano completamente passate di mente *Alzheimer precoce: è grave*

Bien, Prototype continua. Per quanto mi rigurda, credo che, finita questa, mi prenderò una luuuuunga pausa dal fandom di Naruto :D

See you soon,

Roby

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: GreedFan