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Autore: _Velvet_    11/02/2012    1 recensioni
"La gente è così priva di senso, a volte. Seguono il gregge, il capogruppo senza nemmeno pensarci. Credono bianco, ma il giorno dopo il capo dice che tutto è stato sempre nero, hanno sempre creduto nel nero.
E loro lo accettano così, senza nemmeno pensarci.
Non lo trovi... spaventoso?"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6, Side A.
Manchester, 1mo maggio 1978.
 
Pian piano le ferite si rimarginarono.
Eravamo tornati ad essere un po’ più “normali”, o almeno noi ci consideravamo tali.
La verità è che eravamo riusciti a raggiungere un equilibrio. Semplicemente, quando uno dei due non si sentiva in grado di sopportare il clima che veniva a crearsi in casa, usciva finché non stava meglio.
Riprendemmo a studiare e a lavorare. Tutto andava bene, eravamo felici, ci volevamo bene.
Leggevamo tanto, parlavamo altrettanto. In quel periodo stavo leggendo 1984.
La notte piangevo per quello che leggevo. Cominciai ad avere veramente paura. Ian faceva veramente di tutto per aiutarmi. Mi raccontò che la prima volta con Orwell è sempre così, che mi sarebbe passato.
Ma io non volevo che mi passasse, volevo continuare a mantenere una sorta di integrità mentale e di riuscire ad assorbire meglio il messaggio del libro, volevo mantenere qual senso di indignazione che sentivo in fondo al cuore.
Dio, quanto piangevo la notte per quelle pagine. Piangevo per Winston e per noi uomini, una specie così fragile eppure così crudele. Piangevo per un futuro che non ci sarebbe mai stato, piangevo e piangevo.
Nemmeno Ian poteva farci più di tanto, nessuno poteva farci qualcosa. La notte sentiva il mio singhiozzio sommesso, la mattina mi vedeva con gli occhi cerchiati di blu. Era spaventato da cosa avrei potuto fare, mi disse di lasciar stare il libro e riprenderlo in mano tra una settimana.
Ma io riuscii a finirlo.
La perdita di libertà. Il trionfo su sé stessi. Winston. “Ora amava il Grande Fratello”.
Mi aggrappai ad Ian con tutta la mia forza: quel libro mi aveva sconvolto più di ogni altra cosa. Avevo bisogno che mi tenesse sul bordo della realtà.
“Controllati”.
-Christiane, calmati. Stai calma. Non è mai successo nulla di quel libro. Non penso nemmeno che potrebbe mai succedere. Su, va tutto bene.
Non ci saranno mai totalitarismi finché la gente potrà pensare con la propria testa. La libertà individuale è la nemica naturale della dittatura. Dobbiamo mantenere il nostro pensiero affinché nessuno ce ne privi. A volte non pensiamo a quanto sia bello poter affermare che due più due fa quattro, non è vero? Ora, noi non sappiamo quanto ciò conti, ci sembra scontato e naturale poter dire una cosa del genere. Però, fermati a pensare un attimo: cosa saremmo noi senza la libertà? Noi siamo fatti di essa, se ce la togliessero che rimarrebbe di noi?
Saremmo solo delle macchine, macchine soggiogate. Christiane, Orwell vuole dirci di urlare il nostro pensiero, non c’è bisogno di piangere.
 
Le sue labbra indugiarono a lungo sulle mie in un bacio perfetto, che comunicava tutto quello che c’era da dire.
Ian, come sempre, aveva ragione: la forza di un libro sa nelle parole e nell’intensità con cui le comunica al lettore.
Sì, quello era un grande libro, solo i libri che contano qualcosa alla fine ti fanno piangere e ti fanno desiderare di rileggerlo da capo.
 
Ero ristorata questo dialogo, ogni cosa dopo sembrava più semplice, meno pesante. Erano piccole briciole di felicità che si andavano a sommare ad altre, allo stesso modo in cui le preoccupazioni si sommano ad altre preoccupazioni formando un muro di panico; in questo caso però lo stavo abbattendo, quel muro.
Un muro che si era formato 15 anni fa e che solo ora si stava sgretolando come un castello di sabbia costruito dalle mani di un bimbo inesperto.
 
Capitolo 6, Side B.
Manchester, 3 maggio 1978
 
Mi alzai da letto facendo il minor rumore possibile per non svegliare Ian. Avvertii un brivido netto, definito quando i miei piedi scalzi toccarono il parquet per terra. Mi infilai un paio di pantofole e mi diressi verso il bagno.
L’acqua che scorreva calda sulla mia pelle scacciava i demoni notturni che avevano turbato il mio sonno: mi rigeneravo sotto il getto della doccia ed entravo in un luogo dove non c’era né dolore né tenebra.
Un luogo in cui ritornavo bambina, tornavo ai miei prati di erba verde e di erica profumata dove correvo felice, tornavo al ruscello fresco che si snodava per la campagna.
Era quella un’età perfetta, dove il sole spendeva sempre e anche la pioggia era una festa, dove la cioccolata è più preziosa dell’oro e a pensare agli uccellini che d’inverno non hanno da mangiare vien da piangere. Avrei tanto voluto tornarci, ai miei 5 anni.
 
Però c’era il buio, un mese di cui non ricordavo nulla. Ma c’era anche quel lungo segno verticale che mi segnava il polpaccio: quanto il buio e la cicatrice erano collegati? Cosa era successo?
Non lo sapevo, e nemmeno avevo la convinzione di volerlo sapere con precisione: era un tassello mancante, ma talmente piccolo da non notarne nemmeno l’assenza.
 
Quando uscii dal bagno, mi investì il dolce e profondo aroma di caffè che avvolgeva l’enorme stanzone. Ian era in piedi vicino al fornelletto a preparare la colazione.
Mi salutò con un bacio sulla guancia e una carezza sui miei capelli appena lavati che mi scendevano morbidi sulle spalle.
 
Uscimmo di casa entrambi molto presto quel giorno, non era una giornata triste e piovosa, metteva voglia di uscire. Era strano che volessimo uscire da quella che avevo imparato a considerare, con un brivido, “casa nostra”. Era l’aggettivo “nostra” a mettermi paura, significava un qualcosa da condividere, da mettere insieme. Non sapevo se ne ero pronta, non così presto. Al tempo stesso, non sapevo nulla e sapevo tutto di lui. Però c’era quella sensazione quando mi trovavo a guardare i suoi occhi che mi impediva di avere sospetti su di lui. Era una cosa a livello subcosciente. Ci eravamo innamorati così, di colpo, ma era come se ci conoscessimo da sempre. Non avevo paura di parlare, di espormi, quando ero con lui. Non nutrivo la solita diffidenza che avevo nei confronti degli altri: forse era il fatto che venisse da una situazione ancora peggiore della mia, forse il fatto che sapeva quello che provavo in ogni istante... era un insieme di cose.
Ma non era solo questo: mi faceva paura pensare a un futuro con lui, non volevo pensare alla nostra vita in termini di un progetto da portare avanti, ma solo come un film fatto di tanti “adesso” e pochi “domani”.
Dopo ciò che era accaduto, i 20 giorni di inferno che avevo passato, avevo capito che con me, con noi, era sbagliato fare previsioni: tutto andava preso come veniva, affidandoci al caso. Era il caso a farci assaporare il meglio.
 
Ci lasciammo su quelle che erano le porte della facoltà di storia. Ero entrata solo da pochi minuti e già mi mancavano il suo viso, i suoi occhi, i suoi baci. Ero in un certo senso dipendente da lui.
Nessuno mi salutò nell’atrio, non sono nemmeno sicura che qualcuno mi avesse riconosciuto. Non che me ne interessassi molto, meno gente avevo tra i piedi meglio era. Però avrei voluto un’ochetta come Karen che mi domandasse cosa mi fosse successo, perché ero stata via tutto quel tempo e come mai non avessi chiamato. Ma in cuor mio sapevo che non c’era, né probabilmente ci sarebbe più stata. Ora tutto era diverso; mi resi conto però che andava bene così, non avevo bisogno degli altri. Dio, che rumore. Il chiasso era assordante in quella stanza dove tutto rimbombava: io ero abituata ai suoni sommessi, delicati, non a quel vociare di ragazzi intenti a scambiarsi gli appunti.
Entrai nella grande aula. Tema del giorno: “Totalitarismi in Europa: quando un partito proletario cede il governo ai signori”. Finalmente qualcosa su cui concentrarmi. Mi era mancato il piacevole conforto delle vicende narrate ai posteri.
Sentii le loro occhiate gelide, il brusio cessare di colpo quando entrai, gli sguardi alzarsi sommessamente dai punti più lontani dell’aula. Cosa c’era che non andava?
Mi sedetti al solito posto, vicino alla finestra, ma in terza fila, abbastanza da poter fare domande al professore senza urlare.
Vicino a me c’era una ragazza che non avevo mai visto. Sembrava così... normale. La gente normale mi attrae, so che posso prevalere su di loro senza impegno. Aveva i capelli biondi, indossava un paio di occhiali marroni, era magra quanto me. Potevo provare a parlarci, se ne avessi avuto voglia. Ma, in fin dei conti, oggi non sembrava un buon giorno per parlare con gente sconosciuta.
Doveva solo finire la lezione, dovevo solo tornare a casa da Ian, non volevo altro.
   
 
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