Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: ObliviateYourMind    13/02/2012    3 recensioni
Victoria è una ragazza che ha realizzato il suo sogno: è la cantante di un famoso gruppo rock. Un giorno, però, un evento inaspettato sconvolge la vita di Vic e i suoi rapporti con le altre persone, portandola a riflettere su se stessa e su tutto ciò che è accaduto.
Che cosa le è successo e che cosa l'ha condotta fino a lì? Sta a voi scoprirlo.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

And here we go again
With all the things we said
And not a minute spent
to think that we'd regret
So we just take it back


Le luci della città sfrecciavano veloci fuori dal finestrino. I colori si fondevano in unico vortice luminoso mentre, distratta, fissavo il paesaggio davanti a me.

Pensai che ormai non doveva mancare molto.

Una musichetta risuonò improvvisamente nell'abitacolo, e il tassista trasalì impercettibilmente. Mio padre si affrettò a cercare il cellulare nella tasca interna del parka, dopodiché rispose, quasi con il fiatone.

«Pronto? Ah, ciao Mary...sì, sì, stiamo arrivando. Tra dieci minuti saremo lì... Ciao». Riattaccò e infilò il cellulare nella tasca dei jeans.

«Era la mamma – mi disse -, dice che non vede l'ora di vederti.»

«È così anche per me» dissi sorridendo. Lui ricambiò il sorriso. Sembrava stanco, ma era sicuramente sincero.

I profili delle case a me familiari cominciarono a stagliarsi in lontananza. Il tassista imboccò una stradina ghiaiata, ed io provai una strana sensazione allo stomaco, sentivo come un nodo che non accennava a sparire. Di lì a pochi secondi sarei tornata a casa. La mia vecchia casa, dove avevo trascorso tutta la mia infanzia e la mia adolescenza.

«Eccoci arrivati. Sono 26 dollari e 65 centesimi. Grazie». Mio padre allungò al tassista alcune banconote ed uscì sbattendo forte la portiera. Io rimasi immobile per un attimo, intenta a fissare quel luogo che mi era tanto mancato. Dovevo essere soprappensiero da un po' di tempo, perché ad un certo punto il tassista tossicchiò spazientito, così mi affrettai a scendere.

 

Mio padre mi stava aspettando sul ciglio della strada con le valigie. Ci incamminammo insieme lungo il vialetto fino alla porta di casa. Il giardino era esattamente come lo ricordavo, da quando ero partita erano stati piantati solamente alcuni alberelli dalle foglie rosse, che in quel momento ondeggiavano dolcemente, smosse da un leggero venticello.

La porta si aprì d'un colpo e dall'interno fece capolino una figura magra, vestita di blu. Sorridendo mi corse incontro e mi abbracciò stringendomi un po' troppo forte.

«Ehi, mamma...piano..»

Mia madre è una donna molto magra, abbastanza alta; ha capelli color biondo cenere e gli occhi nocciola, la bocca sottile e la pelle chiara.

«Scusa tesoro, scusa...- disse, allentando la presa -, come stai? Tutto bene? Avevo così tanta voglia di vederti...dài, Sean, entrate, venite che inizia a far fresco...»

 

Faceva caldo in casa. La luce diffusa dal lampadario a forma di fiore gettava tante ombre spigolose sulle pareti color giallo uovo del pianerottolo.

«Mamma, dov'è Josh?»

«Ah, è fuori con i suoi amici. Tra poco dovrebbe tornare, comunque».

Josh era mio fratello. Aveva 18 anni, ed era sempre stato un ragazzo molto vivace. Mi mancava molto.

Mi sfilai il cappotto, lo appesi all'attaccapanni dietro la porta e cominciai a guardarmi intorno. I miei genitori mi fissavano mentre, curiosa, esploravo il piano terra della casa. Sulla destra si trovava il salotto, che era pressoché uguale a come lo ricordavo. La pelle del divano era stata cambiata; non era più blu ma rossa. Alcuni nuovi quadri erano stati appesi alle pareti. Una lampada a neon illuminava la stanza in modo innaturale. Il nostro mobile antico troneggiava sulla parete di fronte alla porta; sulle numerose mensole erano stati sistemati tanti soprammobili e fotografie incorniciate: una ritraeva me, Josh e Brian, sorridenti, seduti al tavolino di un bar.

Mi sentivo felice: ero tornata dove tutto aveva avuto inizio. Mi avvicinai lentamente alla ringhiera della scala che portava al piano di sopra, ed esitai. Incrociai lo sguardo di mia madre, che mi incoraggiò a salire. Le mie scarpe da tennis producevano uno strano rumore sui gradini di marmo. Salii fino a raggiungere l'entrata della camera di mio fratello. Era la prima porta sulla destra; l'aprii e accesi la luce. Le pareti erano tappezzate di poster, tutti raffiguranti locandine di film, tranne uno: una foto del mio gruppo. Gli oggetti di Josh erano sparsi per tutta la stanza, un po' sul letto, un po' sul pavimento e sulla scrivania. Sorrisi, pensando che dopotutto era sempre stato molto disordinato. Camminai fino alla porta della mia stanza ed entrai. Era esattamente come l'avevo lasciata prima di partire per il tour: il letto era ancora fatto, le lenzuola blu perfettamente liscie. Tutti i miei vecchi libri di scuola erano accatastati sui ripiani della scrivania; tanti volti felici mi sorridevano dai poster appesi alle pareti; la mia chitarra elettrica era abbandonata in un angolo di fianco alla finestra.

Sentii la voce di mio padre che mi chiamava dal piano di sotto. Abbandonai la stanza e scesi.

«Ehi, Vic...domattina quando ci svegliamo andiamo a fare visita alla nonna, va bene? Adesso vai pure a risposarti, la valigia la porto su io» disse mio padre.

Io feci un debole cenno con la testa, e risalii le scale. Mi rendevo conto solo ora di essere stanchissima; il viaggio doveva avermi stressato molto. Mio papà stava salendo le scale a fatica, reggendo il mio trolley e il beauty case.

«Vic, il beauty lo metto di fianco al lavandino, okay?» e così dicendo sparì nell'oscurità del bagno.

Mentre cominciavo a spogliarmi, mio padre entrò in camera mia con il trolley. Imbarazzata, mi coprii velocemente con la maglietta che mi ero appena tolta.

«Ehm, scusa..fai pure con comodo. Ci vediamo domani, buonanotte» disse, avvicinandosi per baciarmi sulla guancia. Uscì dalla mia camera e sparì giù dalle scale.

Mi preparai e mi lavai molto velocemente; non vedevo l'ora di stendermi e dormire. Quando finalmente i miei piedi freddi toccarono le lenzuola morbide, un brivido mi percorse la schiena. Soddisfatta, mi voltai verso il muro e chiusi gli occhi.

Dopo qualche minuto sentii la porta aprirsi, e dei passi farsi sempre più forti. Capii che doveva essere mia madre perché sentii che una voce familiare mi sussurrava nell'orecchio: ¨Bentornata a casa Vicky. Mi sei mancata, ti voglio tanto bene.¨ Probabilmente dovevo essere nella fase del dormiveglia, perché non ricordo di essermi mossa o di aver risposto. Sprofondai in un sonno senza sogni.

 

Il mattino dopo, mi svegliai con la luce che filtrava attraverso le tende. Diedi un'occhiata alla sveglia sul comodino: erano le nove passate. Dal piano di sotto provenivano alcuni rumori, segno che i miei genitori dovevano essere già svegli. Mi alzai svogliatamente, scelsi qualche indumento comodo dalla valigia e andai in bagno a prepararmi. Dopo qualche minuto fui pronta, così scesi al piano di sotto. In effetti i miei genitori erano già pronti: mio padre era seduto a tavola, in cucina, e stava mangiando una brioche, mia madre stava preparando il caffè.

«Buongiorno!» mi salutarono entrambi non appena mi videro apparire sulla porta.

«Come ti senti? - mi chiese mia madre, porgendomi una tazzina -, ti ho appena fatto del caffè, bevi. Ah, ieri sera ha chiamato Josh...è rimasto a dormire da un amico, dice che nel pomeriggio ci raggiungerà».

«Ho capito. Sempre il solito ribelle, eh?»

Mi sedetti su uno sgabello traballante e trangugiai la mia colazione. Un attimo dopo ero in piedi, impaziente, nell'entrata.

«Hai voglia di vedere la nonna?» mi chiese mio papà in tono malinconico.

«Sì, molta.»

Era vero. Però avevo anche molta paura, ma cercai di non darlo a vedere. Quando i miei genitori furono pronti, ci infilammo i cappotti ed uscimmo di casa.

 

Mio padre guidava tranquillamente, la radio accesa trasmetteva una famosa canzone pop. Era una bella giornata di sole, e me la godetti appieno ammirando il paesaggio fuori dal finestrino.

Dopo una decina di minuti, parcheggiammo l'auto di fronte all'ospedale. Cominciavo a provare l'ormai familiare sensazione di vuoto allo stomaco. Notai che c'era un viavai incredibile di persone che entravano e uscivano indaffarate. Non appena misi piede all'interno, l'odore di disinfettante mi assalì; mi sentivo nauseata. Ci incamminammo verso l'ascensore, che era pressoché pieno di gente, e salimmo fino al terzo piano.

«È la seconda porta sulla destra» mi informò mio padre non appena le porte si aprirono.

Con il cuore che martellava veloce, mi diressi fino alla porta indicata da mio padre, dalla quale sentivo provenire alcune voci.

Quando mi trovai sulla soglia, socchiusi gli occhi per paura di quello che stavo per vedere. Improvvisamente, desideravo con tutta me stessa di trovarmi da un'altra parte; a Berlino coi ragazzi, in casa mia, qualunque posto andava bene pur di non essere lì.

Mi decisi ad affrontare la realtà e, con gli occhi bene aperti, feci il mio ingresso nella stanza luminosa.

Un solo letto era occupato. Le lenzuola candide nascondevano un fagotto, sembravano una specie di bozzolo all'interno del quale era rannicchiata una persona. Un paio di dottori, in piedi di fianco a quel letto, sollevarono lo sguardo verso di noi.

 


Credits: la canzone citata all'inizio è Here we go again dei Paramore.

Tutti i personaggi presenti in questo capitolo sono di mia invenzione.

Angolo dell'autrice: ecco a voi il terzo capitolo della storia. Come sempre vi invito a recensire e a commentare! Grazie a tutti :)

Giulia

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: ObliviateYourMind