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Autore: Yoko Hogawa    28/02/2012    17 recensioni
Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.
Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
[Johnlock][Potrebbe esserci del linguaggio un po' colorito]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Desclaimer: Sherlock, John, e tutti gli altri personaggi della serie sono proprietà di Arthur Conan Doyle prima, e di Moffat e Gatiss dopo. Io non scrivo per scopro di lucro ma qualcuno deve darmi una botta in testa, perché se continuo a creare cose di questo tipo è un male per tutti.

Note: Questa “cosa”, perché non ho il coraggio di chiamarla “fanfic”, mi è stata ispirata da diversi telefilm – oltre all’insana passione per gli action movies di serie B.

Prima di tutto, le due puntate a mio parere più belle di Dr. House, le 4x15 e 16 (“La Testa di House” e “Il Cuore di Wilson”).

Poi, l’episodio 9 di Angel Beats (“In Your Memory”).

Infine, le puntate 3x15, 16 e 17 di Grey’s Anatomy (“Camminare sull’Acqua”, “Annegare sulla Terraferma” e “Una Specie di Miracolo”).

Il titolo è preso dalla canzone “Keep Breathing” di Ingrid Michaelson, che eleggo come ufficiale colonna sonora della fic.

 

Saranno 4 capitoli e se l’angst non lo vedrete nei primi, negli altri due ve lo troverete persino nei capelli. Vi ho avvertiti.

È meglio se dico, inoltre, che userò personaggi miei ma non nei ruoli principali (lo dico perché sono una di quelle persone che non li sopporta XD)

Ah, e infilerò un po’ di simbolismo qui e là, dunque... lo so che è una noia leggere le note a fondo pagina, ma questa volta potrebbero servire, ok? È una questione di visione d’insieme (?).

 

A chi vorrà farsi del male gratuitamente leggere, buona lettura

______________________________________________________________________________________________________

 

ALL WE CAN DO

(is keep breathing)

 

 

Venerdì 3 Marzo – parte 1

 

 

The Tube; Lambeth Station, h. 9:30 am*

 

Erano le nove e trenta del mattino di un temperato venerdì 3 marzo.

Cosa strana, per Londra. A quanto pareva un anticiclone piuttosto insperato era riuscito ad allungare i suoi influssi fino alla Gran Bretagna facendo godere ai londinesi, dopo un febbraio freddo e spesso spazzato da piogge e nevicate, la prima settimana di timido sole.

Alcuni dicevano che era precursore della primavera. John credeva che da lì alla primavera ne passasse, di acqua sotto i ponti, ma evitò qualsiasi commento al giornale che stava leggendo in favore di un rapido attraversamento della strada.

Era venerdì e, con la giacca aperta per godere a sua volta di quel sole marzolino, John Watson si infilò velocemente giù per le scale della metropolitana di Lambeth.

A dire il vero, nonostante il bel tempo quella giornata non era cominciata per niente bene.

Il suo adorabile coinquilino aveva deciso che, finché Lestrade non gli avrebbe passato un caso di qualche tipo, aveva l’assoluta necessità di giocare al piccolo chimico. Anzi, al piccolo speziale.

All’alba di quella mattina era rientrato al 221B con un mazzo di fiori. Petali grandi, fra il fucsia ed il lilla, stelo lungo... erano belli.

Sì, beh, erano belli ma erano papaveri. E non papaveri normali: papaveri da oppio.

Per i primi cinque secondi si era chiesto dove diamine avesse trovato dei papaveri in marzo e, poi, come diavolo avesse fatto a trovare proprio quei papaveri. Poi aveva lasciato perdere ed era scattato in piedi, chiedendo spiegazioni, e quello, con la faccia d’angelo e la voce di uno che crede fermamente di non stare facendo niente di male, gli aveva risposto che aveva visto un film interessante su Jack lo Squartatore e voleva sintetizzare il Laudano.(1)

Ora: John era un soldato, un medico, ma soprattutto era coinquilino e amico di Sherlock Holmes da quasi due anni, il che rende quasi banali le prime due qualifiche citate.

Da soldato aveva riconosciuto il papavero da oppio, da medico sapeva cos’era e a cosa serviva il Laudano, da coinquilino ed amico gli impedì con tutta l’anima di mettere nei guai lui e se stesso.

Sherlock, bastano i pezzi di cadavere in frigorifero, aveva detto. Già quelli sono illegali e Lestrade chiude un occhio, l’altro e pure le orecchie. Non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga, aveva detto.

Il moro si era voltato con espressione accigliata, osservandolo stranito. « Non faccio niente di male » gli aveva espresso con semplicità: « solo un esperimento. Non è detto che lo usi » aveva aggiunto.

Scusami, ma tendo a non credere ad un assuefatto di nicotina che non è eroinomane solo perché ci è appena uscito, aveva risposto Watson. Da medico, Sherlock: dammi quei fiori e trovati un altro passatempo.

E questa era stata la fine della loro conversazione in toni normali. Dopo erano passati gradualmente ad un sempre più elevato numero di decibel, tanto che mrs. Hudson era salita per vedere cosa stesse succedendo – e per avvertire che stavano praticamente svegliando tutto il vicinato, dato che erano le sette e un quarto.

John aveva urlato di dargli quei fiori o se li sarebbe presi con la forza.

Sherlock aveva sbottato che era un progetto ambizioso, da parte sua, ma che non ci sarebbe mai riuscito per via della vecchia ferita alla spalla.

John allora aveva risposto che aveva anche le gambe, e quelle erano sane.

Sherlock aveva riso, dicendo che non ne aveva il coraggio, ma soprattutto il cuore.

John gli aveva “gentilmente” ricordato che era stato in guerra, il cuore era in grado di gestirlo.

Sherlock aveva riso di nuovo.

John aveva definitivamente perso la pazienza.

Certo, si erano praticamente presi a pugni e lui si era guadagnato quattro dita della mano di Holmes stampate sul polso in un livido bluastro, però almeno aveva fatto il suo lavoro di “guardiano” liberandosi dei papaveri e si sentiva in pace con se stesso.

E adesso, praticamente dall’altra parte di Londra, anche dannatamente in colpa.

Se ne era andato di casa senza dire una parola, scendendo le scale con passo marziale e pesante, ignorando i commenti della padrona di casa e dirigendosi dalla sua attuale ragazza, Kate, che per tutta risposta aveva deciso di scegliere proprio quella mattina per piantarlo e dirgli di “tornare dal tuo fidanzato, che sicuramente ha la tua attenzione molto più di me!” testuali parole.

Chissà perché era sempre colpa di Sherlock. Anche indirettamente. Anche a distanza. Wireless.

John sospirò affranto sulla banchina della Bakerloo line, direzione Paddington. Nonostante avesse dovuto essere arrabbiato con lui, per molti motivi che non comprendevano solo il litigio, in realtà non faceva altro che crogiolarsi in una colpa che sapeva di non meritarsi, ma non poteva farci niente.

Consapevole che una volta salito sulla metropolitana non sarebbe stato più in grado di usare il cellulare – in quei condotti non prendeva – lo estrasse dalla tasca del cappotto e ne osservò lo schermo.

Per un attimo si convinceva sempre che fosse Sherlock, a fare la prima mossa. Che fosse l’altro ad ammettere i propri errori e a mandargli le sue scuse. Non importava che telefonasse, tanto non lo faceva mai comunque; bastava un sms. Si sarebbe accontentato.

Sarebbe stato felice, John, per una volta. Per una volta non si sarebbe sentito lo stronzo di turno, anche se aveva quasi sempre ragione.

Ma sullo schermo c’era solo lo sfondo e lui, come al solito, si decise a scrivere un sms all’amico per fargli delle scuse che, sempre come al solito, avrebbe dovuto fare Sherlock a lui.

Era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.

Mi dispiace per prima.” digitò: “Sono a Lambeth, nessun taxi, prendo la metro. Ci vediamo dopo. – John” scrisse, inviandolo subito prima che il rumore del treno in arrivo riempisse la galleria.

Ripose il cellulare in tasca quando il convoglio si fermò e, aspettando l’apertura delle porte, entrò nella pancia della metropolitana e si sedette sul primo sedile disponibile. Fortunatamente a quell’ora i pendolari erano già tutti al lavoro, dunque c’era relativamente poca gente.

Alzò gli occhi sulla mappa delle fermate, seguendo con lo sguardo l’intera linea fino a trovare Baker Street.

Sette fermate e poi sarebbe finalmente tornato a casa.

Odiava litigare con Sherlock.

 

 

• 221B Baker Street, h. 9:30 am

 

Sherlock Holmes se ne stava steso sul divano con una borsa del ghiaccio premuta sulla spalla sinistra. Piccolo regalo d John. E si annoiava.

Lestrade sembrava essere in una nuova fase di transizione psichica in cui molto probabilmente aveva preso la decisione di provare a fare le cose per conto suo, dunque di cercare di smettere di chiedere aiuto a Sherlock.

Ogni tanto gli capitava. Si rendeva conto – inutilmente, pensava lo stesso Sherlock – di non poter sempre telefonare a lui per risolvere i casi, ma allo stesso tempo era anche consapevole che quei casi andavano oltre la sua capacità di ragionamento.

Quindi Lestrade ci provava, si bloccava, ci provava di nuovo e, quando si rendeva conto di essersi bloccato ancora e sempre allo stesso punto, si risolveva a chiamarlo.

Era molto simile alle diete di suo fratello Mycroft. Ci provava, a stare lontano dal cioccolato, ma poi ne aveva il bisogno e così lo mangiava, consapevole di stare facendo uno sgarbo a se stesso ma perdendo l’autocontrollo necessario a controllare i propri impulsi.

Fortunatamente succedeva solo con il cioccolato. Considerando il lavoro che faceva, se perdeva l’autocontrollo durante un meeting in Corea come minimo ci scappava la terza guerra mondiale.

Rimaneva comunque il fatto che finché Lestrade non si fosse trovato in un cul de sac con il caso in corso, la sua testardaggine gli avrebbe impedito di passarglielo. Questo voleva dire niente da fare, ovvero noia.

In più, ci si metteva anche John.

Si sistemò meglio la borsa del ghiaccio sulla spalla, toccando cautamente la pelle sotto alla vestaglia e sentendo un po’ di dolore sotto le dita.

Era stato John a consigliargli la visione di qualche film per combattere almeno due ore di tedio esistenziale, e seguendo questo suo spudorato consiglio – doveva proprio essere arrivato all’ultima spiaggia – aveva noleggiato un dvd su Jack lo Squartatore.

C’era il Laudano, e per passarsi il tempo aveva pensato che fosse una cosa interessante cercare di sintetizzarlo. Magari gli sarebbe stato utile, in un prossimo futuro, non si poteva mai dire. Dopotutto avevano già cercato di avvelenarlo una volta, e se era vero che l’organismo si abituava ai veleni se vi era un’ingestione costante di piccole quantità assolutamente sicure per la salute, allora il Laudano poteva davvero fare al caso suo.

Da un contatto aveva avuto persino i papaveri da oppio, per essere sicuro di avere dell’oppio autentico ed evitare di ritornare nel giro di spacciatori che aveva lasciato tempo prima (non tanto, ma comunque passato).

Gli sembrava di aver fatto tutto con cura. Con minuziosità. Tutto per evitare che John potesse trovare appigli con cui fargli una delle sue solite filippiche su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, sugli esperimenti innocui e su quelli che lui chiamava “potenzialmente pericolosi per la salute umana”, salvo poi catalogarli buttali-via-e-basta quando lui gli aveva fatto notare che l’uso dell’avverbio “potenzialmente” significava che non lo erano del tutto o nell’immediato.

Ovviamente aveva pensato troppo in grande.

John non aveva cercato il pelo nell’uovo obiettandogli la purezza dei materiali di base, ma si era semplicemente fermato sul guscio dello stesso uovo dicendogli “non ti farò tenere in casa qualsiasi cosa che ricordi un veleno ma, prima ancora, qualsiasi cosa che assomigli ad una droga”.

Fissando gli occhi sul soffitto, Sherlock sospirò.

Non era sua intenzione litigare. Non lo era stato all’inizio e non lo era stato nemmeno dopo, quando effettivamente John aveva perso la pazienza e aveva alzato la voce. Lui voleva solo passarsi il tempo con un esperimento interessante.

Arricciò le labbra, disturbato dal pensiero che John fosse arrabbiato con lui, ma non gli diede peso.

Sapeva esattamente come sarebbe andata. Ancora prima di tornare a casa, John avrebbe ceduto ai suoi sensi di colpa e gli avrebbe chiesto scusa – ovviamente a ragione. Probabilmente per sms.

Lui non avrebbe dovuto fare altro che cercare dei nuovi papaveri da oppio e proseguire con il suo esperimento, sopportando come unica cosa i sospiri rassegnati di John – cosa che già faceva benissimo.

Sì. Sarebbe stato come ogni volta.

Quasi predisse, addirittura, il momento in cui il suo cellulare squillò un messaggio. Ma Sherlock non si mosse per due ragioni: la prima, era che sapeva perfettamente chi era, ovvero John che si scusava; la seconda, era il fatto che il cellulare fosse sul tavolo di fianco ai loro notebook, il che voleva dire alzarsi dal divano.

Avrebbe aspettato il rientro di John per farsi passare il cellulare e leggere le scuse. Sempre se fosse tornato in tempo breve – quasi sicuramente prima delle dieci e mezzo, secondo i suoi calcoli, ma era sicuro solo per l’ottanta percento.

Seccato, soffiò dal naso.

Odiava litigare con John.

 

 

• The Tube; Waterloo Station (underground), h. 9:34 am

 

Il treno si fermò alla stazione di Waterloo, facendo scendere e salire i vari passeggeri. Rimase fermo per qualche minuto poi, con il solito segnale che avvertiva della chiusura della porte, riprese la corsa verso Enbankment, la stazione successiva.

John si guardò attorno distrattamente, distogliendo lo sguardo dal giornale che aveva riaperto per passarsi il tempo durante la corsa. Non erano molti i passeggeri che attiravano la sua attenzione, se non una madre con sua figlia e l’aria famigliare di un ragazzo con la divisa dell’esercito, la stessa che aveva indossato anche lui per tutta una vita.

Scostando subito l’attenzione dal ragazzo, e riportandola sul giornale, sorrise amaramente.

Quando era tornato dall’Afghanistan aveva avuto per molto tempo la convinzione di essere ormai alla frutta. Era tormentato dagli incubi e dal proprio cervello, dato che soffriva di una zoppia inesistente, ma sentiva ancora quella pulsione sconsiderata che lo aveva portato ad arruolarsi subito dopo la laurea, la stessa voce nella testa che gli presentava la vita militare come l’unica alternativa, come l’unica via di fuga.

A volte, nel cuore della notte, quando Sherlock non suonava il violino o non lo teneva sveglio con i suoi ragionamenti... la sentiva ancora.

Sussurrava nell’ombra. Gli mostrava, come una musa, scenari in cui si vedeva mollare di nuovo tutto e andare a dimostrare ai responsabili di reclutamento che non era un invalido, uno zoppo, un uomo inutile.

Si vedeva con di nuovo addosso quella divisa, di nuovo con le mani imbrattate di sangue che suturavano una ferita da arma da fuoco in mezzo alla polvere, di nuovo a scostare con lo stivale sabbia e sassi durante il turno di guardia.

Sorrideva, in quei momenti. Sorrideva perché, complici i suoi pensieri, credeva davvero che una cosa del genere fosse ancora possibile.

Poi, pensava a Sherlock. Rifletteva. Usava la mente, per una volta seguendo le istruzioni del suo amico... e allora smetteva semplicemente di vedersi addosso quella divisa e, con la mente, la riponeva dov’era in realtà sempre rimasta: in una busta di plastica dentro l’armadio.

Sherlock sarebbe morto di sicuro, senza di lui. Se lo sentiva.

Un giorno avrebbe aperto il frigorifero, affamato e al limite della propria forza fisica, sperando di trovare una spesa che in realtà nessuno aveva fatto, e sarebbe morto di fame.

Oppure avrebbe sintetizzato tutta una mensola di veleni e una mattina, annoiato dalla mancanza di un caso, ne avrebbe provato uno e ci avrebbe lasciato la pelle.

Altrimenti se lo vedeva di nuovo a prendere una pillola potenzialmente mortale solo per provare la sua intelligenza. O catturato in un altro giochino con Moriarty e svariati chili di esplosivo. O cadavere da qualche parte, per strada, ucciso da chissà cosa o chissà chi, morto per chissà cosa e chissà quanto, spirato per chissà quale causa naturale o umana o aliena.

Tutti scenari che, per quanto improbabili, una volta conosciuto Sherlock Holmes acquistavano una loro sconcertante concretezza.

Scosse il capo, ridendo di se stesso. No, non poteva andarsene. Alla fine finiva sempre per dirselo.

Aveva paura di pensare dove sarebbe finito Sherlock, senza di lui. E non lo diceva per egocentrismo.

Mentre la metropolitana prendeva velocità sotto di lui, staccò la mano destra dal giornale per estrarre il cellulare dalla tasca. Non c’era nessun messaggio, nessuna risposta e nemmeno campo; lo sapeva, non lo aveva sentito né suonare né vibrare, tuttavia la speranza che Sherlock avesse risposto al suo sms, per quanto minima, aveva comunque un suo posto speciale in un angolo della sua mente e, anche se odiava ammetterlo, nel suo cuore.

Così come lo aveva Sherlock.

Sospirò. Accidenti John Watson, passi da un casino all’altro pensò, parlando silenziosamente con se stesso.

Poi, all’improvviso, tutto cambiò.

Avevano lasciato da poco la stazione di Waterloo, giusto qualche minuto, forse due, e il treno prese a vibrare violentemente sotto di loro. Tutti gli occupanti del vagone si guardarono intorno, spaesati.

Se fossero stati fermi e non in movimento costante, John avrebbe detto che si trattasse di un terremoto a giudicare dalla violenza delle scosse che aveva il vagone. Oscillava persino, scuotendo i passeggeri che cominciavano a preoccuparsi, ad esclamare parole di sorpresa e, perché no, di paura.

Poi, la frenata improvvisa. Come passare da 100 a 0 nell’arco di pochi secondi. Fu preceduta da un forte scossone, poi da un sibilo acuto e fastidioso di acciaio che stride contro altro acciaio, dopodiché l’accelerazione del vagone si fermò di botto, sbalzando tutti i passeggeri in avanti con una forza inaudita.

Ma non finì lì.

Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.

Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.

Un rumore fortissimo coprì gli altri suoni sentiti in precedenza, il suo corpo veniva sballottato avanti ed indietro senza direzione alcuna e lui perse completamente il senso dell’orientamento quando la mano gli si staccò, per forza di cose, dal suo appiglio in metallo.

Accompagnato dall’odore di bruciato e dalla sensazione di stare per morire, pensando a tutto e a niente e ad Harry e a sua madre e a Sherlock in quegli ultimi istanti, in quei momenti in cui “Cristo, non sono sopravvissuto alla guerra per morire così!”, lasciò andare la presa anche sulla propria coscienza.

Il buio lo inghiottì.

 

 

TfL Headquarters, BCV, h. 9:40 am

 

Michael Crew, trentanovenne di un metro e ottanta con tanti capelli neri e qualcuno bianco, era comodamente seduto nel suo ufficio e stava mangiando un cornetto alla crema con una mano mentre controllava la posta con l’altra.

Pubblicità, pubblicità, lettera di raccomandazione. Pubblicità, curriculum, curriculum, avviso di garanzia (« oh, accidenti... il caso Peters »), pubblicità, pubblicità, avviso di pagamento, lettera della banca, curriculum, curriculum, morso al croissant e relativa goduria gustativa, pubblicità e pubblicità. Diede un altro morso alla colazione come degna chiusura, scrollandosi qualche briciola dalla cravatta blu a trama incrociata.

Buttò direttamente le lettere di pubblicità nel cestino senza nemmeno aprirle, mise l’avviso di pagamento e l’avviso di garanzia di fianco al computer e impilò i curriculum sopra agli altri dieci che erano arrivati negli ultimi sei giorni. Avrebbe dovuto dire alla segretaria di aprirli, rispondere qualcosa tipo “siamo spiacenti ma non è sufficientemente qualificato e/o non ci sono posti disponibili per la mansione per cui ha fatto domanda” e rispondere a tutti di cercarsi un altro lavoro. Si dimenticava sempre, maledizione.

Aveva appena terminato il croissant e stava per appoggiare le labbra sulla sua prima tazza di tè della giornata – English Breakfast con un goccio di latte, da vero inglese! – quando il trillo violento del telefono lo distolse dalle sua intenzioni.

Sbuffando, prese malamente la cornetta.

« Ufficio BCV, Crew » rispose seccato con il proprio cognome.

Rimase in ascolto per qualche istante, massaggiandosi con pollice ed indice della sinistra l’attaccatura del naso. « Arriva al dunque, cosa diamine è successo?! » sbottò poi, come ogni capo ufficio che si rispetti fa quando gli impiegati interrompono la solita routine mattutina.

Ad un certo punto, sgranò gli occhi. « Cos... cos’hai detto che è...? » balbettò, incapace di accettare ciò che gli era appena stato detto dall’altro capo della linea.

Probabilmente gli venne ripetuto, perché Michael Crew sbiancò.

Lasciò penzolare la cornetta dalla scrivania, uscendo di corsa dall’ufficio e cominciando a fare lo slalom fra i vari corridoi della struttura fino ad arrivare all’ufficio interessato, quello del movimento ferroviario della Bakerloo line, aprendo la porta con un botto e mettendosi direttamente di fronte alla persona che solo pochi secondi prima stava parlando con lui al telefono.

« Ripetimelo... » soffiò, a dir poco terrorizzato e a tanto così dal panico.

L’impiegato, fissando alternativamente il capo e i due compagni d’ufficio se possibile ancora più pallidi di lui, deglutì.

« È... È deragliato un convoglio sulla Bakerloo, signore. Fra Waterloo ed Enbankment... signore » sibilò. Sembrava sul punto di svenire. O di vomitare.

Michael Crew alzò lo sguardo, smettendo di respirare. Solo in quel momento si rese conto che tutti i sacrosanti telefoni del piano, in tutti i sacrosanti uffici, stavano squillando come impazziti e i dipendenti degli uffici a fianco che lo avevano visto passare si erano affacciati alla porta, in attesa di sapere cosa fare, o anche solo di una conferma.

Deglutì a vuoto.

« Chiamate le forze dell’ordine... » biascicò, riuscendo tuttavia a farsi sentire a causa del silenzio di tomba caduto fra le persone presenti: « ...avvertite i capostazione di Waterloo ed Enbankment di negare l’accesso ai pendolari, dite loro di svuotare le banchine e di collaborare con la polizia... » poi, mentre parlava, prese coraggio: nei suoi occhi un lampo furioso di rabbia mista a panico, nel suo sangue un livello di adrenalina che avrebbe fatto risorgere un morto: « voglio... anzi no, pretendo sulla mia scrivania i tabulati di movimento della Bakerloo. Spostamenti civili, treni, carrelli a motore, spostamenti del personale, tutto! » esclamò, e ogni volta che parlava qualcuno annuiva e si attaccava al telefono.

« Chiamate gli addetti alla manutenzione della linea e chiedete loro di entrare nei tunnel e sincerarsi delle loro condizioni strutturali. Dobbiamo sapere se ci sono cedimenti, crepe, pezzi di calcinaccio staccati, scricchiolii, qualsiasi cosa! Voglio sapere anche quanti ragni ci sono attaccati al muro, tutto chiaro?! ».

« Sì! » rispose una voce femminile, prima che tutti si disperdessero e tornassero nei rispettivi uffici.

Mentre usciva a passo spedito dall’ufficio del movimento per tornare nel proprio, Michael Crew si ripeteva di non credere ai presagi.

Non credeva nella stranezza di una giornata così mite ad inizio marzo, non credeva nel gatto nero che gli aveva attraversato la strada quella mattina uscendo dal vialetto di casa, non credeva nel sale che aveva rovesciato la sera prima a cena e non credeva che fosse stata tutta colpa della scala sotto cui era passato prima di entrare in sede.

Shit happens, dicevano.

...Ora ci credeva.

 

 

• New Scotland Yard, h. 9:45 am

 

Il Detective Inspector Lestrade digitò le ultime frasi del rapporto, rileggendo il periodo e annuendo con soddisfazione. Controllò una seconda volta la forma lessicale, la correttezza dei termini specifici e l’elenco delle varie procedure effettuate. Controllò che tutti i documenti descritti fossero effettivamente presenti nel fascicolo del caso e, una volta stampato, firmò il rapporto e lo allegò al faldone.

Indagini concluse, e questa volta aveva fatto tutto da solo. Il colpevole aveva confessato, si era guadagnato il suo avvocato d’ufficio e tutta quella storia sarebbe finita in tribunale, cioè fuori dal suo ufficio, dalla sua sezione e dalla sua responsabilità.

Sorrise soddisfatto, infatti, richiudendo il fascicolo. Lo mise sul mobile accanto alla posta in uscita e, stiracchiandosi le spalle e le braccia, si conferì due minuti di pausa prima di mettere le mani sulla posta in entrata.

Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi per andare a prendersi un caffè, che Sally Donovan entrò nel suo ufficio come una furia, aprendo la porta senza bussare e precipitandosi davanti alla sua scrivania.

Ora, va bene che le ante erano di vetro, ma non gli sembrava che bussare fosse passato di moda.

« Sergente, non crede di dover... »

« Ispettore, abbiamo un problema » lo interruppe però la donna, palesemente agitata e con il respiro pesante.

Poche volte Gregory Lestrade aveva visto quell’espressione in faccia alla collega. L’ultima volta se la ricordava ancora. Era novembre e più di quarantamila studenti avevano improvvisamente deciso che una manifestazione pacifica non bastava, per far sentire la loro voce.(2)

Lestrade le prestò ascolto.

« È... deragliato un treno della Tube. Sulla Bakerloo. Tra Waterloo ed Enbankment » disse lei, seria e professionale nonostante fosse palese che la notizia la disturbasse.

Se lo ricordavano tutti l’attentato terroristico alla metropolitana, da quelle parti. E non era un bel ricordo.(3)

Il cervello di Greg andò subito a cercare, nella memoria, la piantina di Londra e localizzò il punto della linea dov’era avvenuto l’incidente. Interiormente, rabbrividì.

« Sotto al Tamigi... » mormorò, Donovan annuì in silenzio.

« Chiama l’anti-terrorismo e l’unità anti-crisi » disse poi, alzandosi dalla sedia e recuperando il cappotto: « e dai ordine ai comandi di polizia più vicini di chiudere le strade per le due stazioni, la linea ferroviaria della Upperground in parallelo e di fare sgombrare gli edifici pubblici delle vicinanze. Dì a Foster di contattare i paramedici e di creare un collegamento costante via radio fra noi, gli ospedali e la TfL, soprattutto la TfL » ordinò, incamminandosi nel contempo fuori dalla stanza e lungo il corridoio già più confusionario del solito: « voglio un loro responsabile ad Enbankment, vado lì anche io. Raggiungimi appena puoi » le disse, andandosene senza nemmeno aspettare il cenno d’assenso della donna, che ritornò indietro cominciando ad urlare ordini a destra e a manca.

Uscendo da New Scotland Yard ed infilandosi in una delle automobili dirette a sirene spiegate verso il centro della città, Lestrade pregò silenziosamente qualsiasi entità superiore in ascolto che fosse solo tutto fumo e niente arrosto.

Aveva una brutta sensazione. Sperava veramente di sbagliarsi.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment, h. 9:42 am

 

Era steso a terra in mezzo alla sabbia, gli occhi puntati al cielo. Si era dimenticato come respirare.

Si stava dimenticando anche come vivere.

Watson! Watson!!

Lo hanno colpito, chiamate un medico!

John, devi resistere, ok? Ti portiamo via da questo inferno, ma devi resistere! John!

Chi cazzo è stato?!

Siamo in guerra, per l’amor di Dio! Secondo te chi è stato?!

Watson! Watson resisti!

John, John guardami. Guardami!

È di un kalashnikov... dobbiamo muoverci o non ce la farà!

Sentiva le voci distanti dei suoi commilitoni, come se fossero all’estremità opposta di un lungo e vuoto tunnel e rimbombassero da lontano, da giù in fondo.

Fissava il cielo, John, e con gli occhi che cominciavano a lacrimare per la luce forte, sempre più forte e bianca, candida, sentì alcune mani togliergli la divisa, toccargli il petto, le spalle, tenergli ferma la testa.

Dolore. Luce. Dolore... luce.

Non riusciva a respirare. Lui non respirava e quelle voci continuavano a chiamarlo.

“Lasciatemi”, avrebbe voluto dire. Ma non riusciva nemmeno a parlare.

Lasciatemi qui. Non si sta male, qui. In mezzo alla luce.

Poi, le voci cambiarono.

Mamma! Mamma!

Cristo, ma cosa... cosa cazzo è...

Oh Dio! Cristo, Signore! Aiuto! Aiuto!!

Mamma, mamma, mamma!

Urla, gemiti, ansiti e lamenti. Lacrime. Pianti.

Era steso a terra in mezzo a cocci di vetro, gli occhi puntati ad una lampada al neon dalla luce fredda e instabile. Si era dimenticato come respirare.

Ma quello non era l’Afghanistan.

Aprì gli occhi completamente, ritrovandosi davanti la luce tremolane ed incerta di un neon scoperto, a circa cinquanta centimetri di distanza dal suo viso. L’udito era terribilmente ovattato, riusciva a sentire solo il proprio respiro nelle orecchie, unito al battito del cuore, assordante. Era steso sul fianco destro e, ne era sicuro, la sua guancia appoggiava sul pavimento scuro a scanalature sottili della metropolitana di Londra.

Gli tornò tutto in mente con una violenza allarmante.

Non ci volle molto per farsi un’idea di cosa fosse successo.

Aprendo del tutto gli occhi e mettendo bene a fuoco la sua situazione, mosse lentamente la testa e si guardo intorno.

Non sapeva come, ma era stato sbalzato praticamente in fondo al vagone, che sembrava essere appena inclinato sulla destra dell’asse principale. Era disteso nel punto in cui esso, probabilmente, era andato ad infilarsi sotto al vagone precedente che ne aveva corrotto la forma, schiacciando il soffitto verso il pavimento tanto che le ultime due luci al neon erano a meno di un matro dalla pavimentazione, da quanto erano rientrate.

E John ci stava proprio nel mezzo.

Ebbe subito l’istinto di togliersi da quel punto – un’irrazionale timore di rimanere schiacciato – e, aiutandosi con le mani, strisciò all’indietro, togliendosi dall’ “imbuto”.

Si mise poi seduto, gradatamente. L’udito tornò quasi del tutto.

La situazione attorno a lui era degna di uno dei film d’azione che guardava la sera tardi, di sabato, quando rientrava a casa e magari Sherlock non c’era o era in camera sua con la porta chiusa. Ne aveva visti molti basati su incidenti ferroviari ma mai, mai avrebbe pensato di fare parte di uno di questi, un giorno.

Eppure, eccolo lì. Non poteva essere nient’altro.

Intorno a lui, la maggior parte dei passeggeri era stesa a terra, incosciente. I vetri dei finestrini erano quasi del tutto esplosi, solamente uno aveva resistito e presentava solo un’intricatissima ragnatela di crepe. Per terra i cocci di vetro formavano un campo di schegge taglienti e, fra di esse, macchie di sangue più o meno abbondanti facevano da cornice a quello che era divenuto il suo incubo più recente.

Seduto a terra, ancora intontito dall’incidente e incapace di stabilire le proprie condizioni fisiche e mentali, John Watson sentì la coscienza traballare.

Alla sua destra, un soldato stava riaprendo gli occhi in quel momento.

Poco avanti a lui, una bambina era inginocchiata sui frammenti di vetro temperato e scuoteva la madre, pregandola di svegliarsi attraverso la pronuncia continua a spaventata del suo nome.

Poco più in là, infine, una ragazza era in preda al panico con un pezzo di metallo infilato nella coscia, i jeans sporchi di sangue.

Loro, erano le uniche persone che davano segni di vita.

No... quello non era l’Afghanistan.

 

 

• 221B Baker Street, h. 10:30 am

 

La signora Hudson salì di fretta i diciassette gradini che separavano il pian terreno dall’appartamento al primo piano, faticando per l’età ed ignorando l’anca dolorante.

Arrivata sul pianerottolo aprì la porta, riprendendo fiato e guardandosi intorno alla ricerca dell’unico dei due coinquilini che sapeva essere presente.

E che infatti trovò sul divano, gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento, la borsa del ghiaccio che gli aveva dato almeno un’ora prima ormai sciolta.

Stava pensando, probabilmente. Si sarebbe arrabbiato, ragionò la padrona di casa,  ma non aveva scelta.

« Sherlock, caro? » chiese, in piedi a poca distanza da lui.

Quello non rispose.

Lei tentò di nuovo. « Sherlock? » chiamò, più agguerrita.

« Signroa Hudson, sto pensando. La pregherei di tacere » gli rispose allora Sherlock, senza nemmeno aprire gli occhi.

Cosa che mise la cara signora sul piede di guerra. « Penserà più tardi! Guardì qui! » si lamentò, agguantando il telecomando della televisione e accendendola su di un canale a caso.

Lo speaker di un telegiornale stava parlando con tono nasale e conciso, leggendo alcuni fogli che teneva in mano e che venivano costantemente sostituiti con informazioni supplementari.

Bastò la considerazione che erano le dieci e trenta del mattino, e che a quell’ora non c’erano di certo telegiornali, a destare l’interesse dell’uomo sul divano.

Holmes si mise seduto, lasciando che la borsa del ghiaccio cadesse sul tappeto. Fissò gli occhi sul mezzobusto dai capelli trifolati chiuso in un colletto inamidato e chiuso da una cravatta bordeaux.

« È un’edizione straordinaria... » gli disse la donna, il telecomando ancora in mano: « ...è così su tutti i canali. Credo che sia successo qualcosa di grave » sentenziò.

« Alzi il volume, signora Hudson » disse allora Sherlock, ora completamente assorto da quella stranezza.

All’azione della donna, la voce dello speaker si fece più chiara. « ...entità del danno. È un punto rischioso per le squadre di soccorso, perché il tunnel passa direttamente sotto al Tamigi, in una galleria sotterranea sovrastata da almeno sei metri d’acqua e fanghiglia. Un solo cedimento potrebbe riempire il tunnel d’acqua. Ancora non sappiamo se si può o meno parlare di attentato terroristico, ma le squadre di New Scotland Yard sono già al lavoro per... ».

Sotto, in una striscia in sovrimpressione che si spostava dal lato sinistro a quello destro del teleschermo, una frase diceva: “incidente nella Tube, treno deraglia sulla Bakerloo Line”.

« Waterloo ed Enbankment » sussurrò Sherlock, assottigliando gli occhi.

Mrs. Hudson si voltò ad osservarlo. « Cosa, caro? » chiese, un poco distratta dall’ancorman.

« Sta parlando di tunnel subacqueo, e l’incidente è avvenuto sulla Bakerloo, c’è scritto. Le uniche fermate collegate da un tunnel sotto al Tamigi sulla Bakerloo Line sono Waterloo ed Enbankment » spiegò velocemente.

A volte dimenticava che stava parlando con Sherlock Holmes, la persona che sapeva a memoria persino i sensi unici e i divieti d’accesso di tutta Londra. Le linee della metropolitana dovevano essere persino banali, da imparare a memoria, per lui.

Stava per dire qualcos’altro ma, come se fosse fatto apposta, il cellulare di Sherlock prese a squillare. Non terminò il secondo squillo che Sherlock aveva già accettato la chiamata e si era portato il telefonino all’orecchio.

« Sherlock Holmes » aveva risposto.

« Sono io » disse la voce famigliare di Lestrade dall’altra parte, semi-coperta da rumori di sirene e di persone che gracchiavano ordini ed informazioni: « pensi di essere disponibile per le prossime ore? » gli domandò, la voce seria, di un tono che Sherlock non aveva mai realmente sentito.

« La metropolitana? » domandò Holmes, conciso.

Gli sembrò quasi di vedere Lestrade annuire, dall’altra parte della linea. « ci siamo trovati davanti ad una situazione particolare. Mi servi... in fretta » gli disse, probabilmente mangiandosi una buona parte d’orgoglio.

Cosa che faceva comunque ogni volta.

« Arrivo » disse Sherlock, chiudendo la telefonata e volando in camera a cambiarsi.

Preso dalla foga, non lesse il messaggio che John gli aveva mandato, lasciando semplicemente che l’avviso “un nuovo sms” rimanesse immobile sullo schermo del telefonino quando se lo mise nella tasca del cappotto, uscendo di casa con la solita fretta di chi ha, finalmente, qualcosa da fare per le mani.

 

 

~ to be continued...

 

 

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* ho scritto i luoghi di riferimento in inglese per gusto personale, ma li spiego per dare una mano a chi mastica poco la lingua.

- la metropolitana londinese si chiama "London Underground" (underground = sottoterra, sottosuolo) ma loro la chiamano "The Tube" (il Tubo). Dunque, con "The Tube" mi riferisco alla metropolitana.

- La TfL (Transport for London) è l'agenzia che si occupa dei servizi di trasporto di Londra. Per la gestione della metro essa è divisa in 3 centri, quello che controlla la Bakerloo Line è il BCV.

- La dicitura "Waterloo > Enbankment" si riferisce al tratto di galleria fra le due stazioni citate.

 

1. Il film è "From Hell", dove Johnny Depp interpreta un ispettore Abberline dedito all'oppio. Il Laudano invece è una sostanza ricavata mescolando l'oppio in una soluzione di acqua ed alcool con l'ausilio di alcune spezie. E' tossica in grandi quantità (anzi, è propriamente un veleno) ma in quantità minori da un effetto allucinogeno. Molti artisti ed intellettuali dell'800 usavano berne qualche goccia mescolato all'assenzio.

Ah, non sperateci. In Italia è illegale ;D

 

2. Riferito ai disordini causati dagli studenti per protestare contro l'aumento spropositato delle tasse universitarie, il 12 novembre 2010.

 

3. Il 7 luglio 2005, una cellula terroristica di Al Quaida fa esplodere tre vagoni di tre diversi treni della metropolitana (due sulla Circle Line e uno sulla Piccadilly Line) e un autobus a due piani. 56 vittime in totale.

   
 
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