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Autore: gaccia    28/02/2012    8 recensioni
Non è possibile!
I mostri non esistevano, me lo diceva sempre la nonna, quando mi rimboccava le coperte.
E allora che ci faccio qui? Legata a una roccia in attesa di essere mangiata da una creatura nera e malvagia emersa dalle profondità del mare.
Io sono Isabella Marie Swan, e mi trovo qui, prigioniera, destinata al sacrificio, come Andromeda.
Mini-fic. liberamente ispirata al mito.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più libri/film
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Buonasera, non vi trattengo a lungo.

Questa è una piccola storiella, ambientata in un tempo passato, pieno di mostri e magie... con personaggi di proprietà di Stephenie Meyer, in una storia senza scopo di lucro.

Sarà una storia breve e senza pretese. Buona lettura


Vivevo in una terra tranquilla, in una casa circondata di campi, con un ruscello che scorreva accanto alla pala del mulino. Avevamo un buon tiro di cavalli per arare, e mucche per fare il formaggio. Avevamo un appezzamento che ci rendeva tutto il grano necessario per vivere e per venderne una parte. Le galline ci regalavano parecchie uova e anche la scrofa si dava da fare col partorire maialini.

Era una bella fattoria, con tanti animali. Ci vivevamo io con la nonna, lo zio e i miei genitori. Il lavoro era massacrante ma non ci lamentavamo ed eravamo felici.

 

Tutto si infranse una notte… quella notte, quando arrivarono i soldati, nelle loro armature brunite, armati di lance e spadoni.

Lo zio li aveva sentiti all’inizio della valle ed era corso a casa per avvertirci. Ci eravamo rinchiusi nella grande cucina, vicino al camino.

Mio padre voleva uscire, parlare con loro, difendere la sua terra ma mia madre glielo impedì, piangendo, implorando, trattenendolo, e lui, alla fine, si rifugiò con noi, come un topolino in attesa del gatto che ci avrebbe stanati.

 

I colpi alla porta erano fortissimi e in pochi istanti il pesante legno si infranse sotto di essi.

Entrarono, gettando in aria mobili e sedie che ostacolavano il loro cammino. Dall’entrata arrivarono subito alla cucina e lì ci presero spingendoci all’aperto.

“Fuori!” urlavano spintonandoci. Due volte inciampò la nonna, la terza volta rimase a terra, colpita a morte dalla spada di un soldato.

Avevano armature con venature rosse, come se il sangue fosse rappreso, a futuro monito contro chiunque volesse contrapporsi alla loro forza bruta. Altro sangue si era versato quella notte.

 

“Che volete? Non siamo ricchi, abbiamo quello che serve per mangiare, ma quel poco lo possiamo dividere con voi” mio padre mormorava a quello che sembrava il capo di quei barbari.

“Ci sono altri?” domandò quello, senza neanche accennare a quanto detto dal mio papà.

“No, nessun altro. Nella valle abitiamo solo noi e altre due fattorie a qualche lega più a nord” rispose mio zio.

Il capo indicò la mia persona “E’ vostra figlia? Quanti anni ha?”

“Sì, è mia figlia, ha appena compiuto 18 anni, è in età da marito. La prego non le faccia del male” implorò mia madre, sbiancando alle minacce che potevano nascondersi dietro la domanda.

“E’ pura?”. Cosa potevo rispondere? Che ero illibata? Mi avrebbero lasciata stare?

“No” rispose mio padre, senza timore per la bugia appena detta.

“Chiamate la donna! Controlleremo e se hai detto il falso tu e il resto della tua famiglia morirete”. La minaccia mi gelò il sangue. Verso di me avanzava una figura traballante, avvolta da un mantello nero come la notte senza luna.

Terrorizzata mi lanciai ai piedi del capo dei soldati “Sono pura! Ho mentito a mio padre perché voleva farmi sposare con un vecchio, ma lo giuro sulla croce, sono pura!”

 

Il comandante aprì le labbra a un sorriso sardonico, poi alzò il braccio e fece un gesto con la mano. Immediatamente mio padre e mio zio vennero circondati e mentre io venivo strappata dalle braccia di mia madre, udii urla di dolore e terrore, seguite da un silenzio innaturale.

“Padre! Padre! Madre!” urlavo, ma nessuno mi rispondeva.

Venni trascinata e gettata su un carro, senza alcuna gentilezza. Accanto a me una donna vecchia e raggrinzita mi fece cenno di sedermi e restare in silenzio.

“La... mia famiglia...” pigolai singhiozzando.

La vecchia scosse la testa “Dimenticali! Ormai non esistono più”.

La durezza di quelle parole mi gelò il sangue. Ero rimasta sola, rapita da questi soldati senza alcuna ragione apparente.

Il carro iniziò a muoversi e sentii in lontananza i lamenti strazianti di animali uccisi mentre si alzava una funesta voluta di fumo. Il mio passato stava bruciando.

 

 

 

“Dove stiamo andando?” chiesi dopo un giorno di viaggio.

Non avevo osato proferire una parola da quando eravamo partiti... ero terrorizzata. Dopo un primo momento di sconforto e desiderio di morire come i miei famigliari, la voglia di sopravvivere e l'istinto di conservazione aveva avuto il sopravvento. Non volevo morire, ero giovane e avevo tante cose da fare, sposarmi, avere dei figli e servire il mio futuro marito e la famiglia.

“Lo saprai al momento opportuno” rispose la vecchia. Non si era mossa di un centimetro da quando eravamo partiti.

Avevo solo visto un paio di soldati che porgevano i pasti attraverso la tenda del carro, senza neanche guardare dentro. Sembrava quasi fosse vietato sbirciare dalla nostra parte e di questo fui molto grata. Non avrei retto le occhiate o le mani di quegli assassini.

“Da dove venite voi?” chiesi ancora, sperando invano in una risposta. Nessuno parlò, come se la vecchina fosse congelata.

 

Dovevo pensare, dovevo scappare, mentre credevano di avermi in pugno. Avevo intuito che la mia condizione di vergine era importante. Probabilmente era l’unica cosa che mi aveva salvata e quasi certamente quello che mi proteggeva dalla violenza o peggio, dalla morte.

Partendo dal presupposto che nessuno mi avrebbe toccata, passai a pensare a come allontanarmi dai soldati. L’unica cosa che mi venne in mente, fu la necessità di evacuare. Sicuramente non mi avrebbero spiata, visto che non mi sbirciavano neanche ora che ero vestita. Magari mi avrebbero mandata in un luogo appartato con la vecchietta, e questa era facile da sopraffare per poi fuggire.

Era un piano pericoloso, ma d’altra parte, che altro potevo fare se non provarci?

 

“Ho bisogno di espletare i miei bisogni... non riesco più a trattenere” mormorai con voce bassa ma udibile dalla vecchina. Lei alzò la testa quel tanto che bastava per verificare se stavo mentendo, poi, giudicando che avevo detto la verità, tirò una corda che sembrava abbandonata sul fondo del carro e immediatamente lo stesso si fermò.

Con passo malfermo si alzò ed avanzò verso il retro per parlare con il soldato che probabilmente sarebbe venuto ad informarsi su quanto avevamo bisogno.

Li sentii bisbigliare qualcosa, poi la vecchia si voltò verso di me: “Scendi, ti accompagnerò io” Stava andando meglio del previsto, non sarebbe stato difficile sopraffare quella megera.

 

Venni aiutata a scendere e seguita dalla vecchia che mi teneva per un braccio. A una decina di passi da noi sentivo distintamente il cigolare dei giunti di una corazza, probabilmente un soldato che ci scortava con discrezione.

Trovammo un ruscello, dove poter fare le abluzioni. La megera mi indicò uno spiazzo quasi completamente circondato da cespugli, mentre lei si accomodava su una pietra piatta a larga, accanto all’acqua.

“Fai presto. Poi vieni a lavarti qui, che io ti veda bene. Devo esaminarti per stabilire se sei adatta” ordinò, ma io mi persi nei significati delle sue parole.

“Adatta per cosa?” chiesi.

“Per quello per cui sei stata presa” mi rispose evasiva. La conversazione era finita perché mi indicò la macchia verde con il dito adunco e tornò a fissare l’acqua.

 

Cercai di vedere dove si era posizionato il soldato, dovevo essere ben nascosta per cominciare la mia fuga. Mi voltai, mi spinsi sulle punte ma niente, neanche lo scintillio dell’armatura si vedeva, e la vecchia era assorta in chissà quali pensieri, non mi prestava attenzione.

Mi nascosi dietro i cespugli, guardando attentamente quale sentiero avrei potuto seguire per fuggire.

Non avevamo fatto giri strani, eravamo arrivati in linea retta da levante e la carovana stava viaggiando verso ponente. Tutte e due le strade sarebbero state un azzardo, perciò decisi di indirizzarmi verso mezzodì, seguendo il corso del ruscello.

Sentii un guizzo d’acqua e mi voltai spaventata, convinta che il soldato mi volesse sorprendere proprio attraversando il corso d’acqua… invece vidi solo sparire la coda di un pesce.

Beato lui che viveva libero e felice, almeno sino a quando non fosse stato pescato e cucinato da qualcuno. Tutti dovevano preoccuparsi per garantire la propria sopravvivenza, e ora lei stava per agire per salvaguardare la sua.

 

Cercando di fare meno rumore possibile, iniziai a camminare velocemente verso la direzione che mi ero prefissa, avendo cura di calpestare l’erba per attutire ogni rumore possibile. Quando pensai di essere abbastanza lontana sollevai la gonna per non bagnarne il bordo e iniziai ad avanzare tenendo al centro del ruscello per un lungo tratto, in modo che neanche il fiuto dei cani potesse rintracciare il mio odore, nel caso mi avessero inseguita.

Quando mi ritenni abbastanza lontana, tornai sulla riva ed iniziai nuovamente a correre verso la salvezza.

All’improvviso un riflesso argenteo mi abbagliò e mi bloccai terrorizzata, per poi ridere sommessamente quando mi accorsi che era stato sicuramente una squama del pesce che stava riaffondando nell’acqua ad avermi accecata.

 

Continuai il cammino, intervallandolo alla corsa appena il sentiero diventava più largo. Era fondamentale allontanarsi il più possibile, prima che i soldati mi raggiungessero. Non ero sicura che la mia verginità mi avrebbe difesa dall’ira del feroce comandante.

All’imbrunire crollai sfiancata ai piedi di un albero. Avevo le gambe doloranti e il cuore che mi scoppiava in petto, dovevo riposare o non sarei stata in grado di fuggire oltre.

Quello che all’inizio pareva un boschetto isolato, si era dimostrato una intricata foresta, che aveva coperto la mia fuga ma che rischiava di inghiottirmi senza lasciarmi scampo. Dovevo trovare al più presto la via d’uscita da quella macchia di verde scuro che, a causa dell’oscurità crescente, diventava sempre più ostile.

 

Mi disposi su un letto di foglie ai piedi dell’albero e chiusi gli occhi addormentandomi subito. Nelle orecchie suonava lo sciabordio delle acque del torrente vicino, interrotte da qualche spruzzo di acqua fatto sicuramente da un pesciolino un po’ troppo allegro.

Il mattino arrivò troppo in fretta, ma soprattutto in modo spaventoso: una mano di chiuse violentemente la bocca, mentre un braccio mi cingeva per la vita e mi trascinava a ridosso dell’albero che mi aveva vegliato la notte.

Ero terrorizzata, i soldati mi avevano trovata, tutto era stato inutile.

Iniziai ad agitarmi, scalciando e cercando di liberarmi.

“Schhh. Zitta. La foresta è piena di soldati di Nimuve, non voglio che mi trovino o mi impiccheranno” a questo punto mi rilassai. Se questo uomo aveva lo stesso mio nemico, allora era mio amico, o avrebbe potuto aiutarmi.

Sentii i passi cadenzati e pesanti dei soldati con le armature che si avvicinavano per poi allontanarsi e internamente sospirai di sollievo.

 

Il braccio e la mano mi lasciarono libera. “Scusami, ma se ti fossi messa ad urlare, per me sarebbe stata la fine” si giustificò quello che, a prima vista, era un giovane uomo della mia età.

Aveva la pelle scura, ricordava il cuoio lavorato, capelli lunghi neri e occhi che parevano due immensi pozzi di olio.

“Tu che ci fai nella foresta tutta sola?” mi chiese, squadrandomi curioso.

“Anche io sono fuggita dai soldati, ma non sapevo che fossero di Nimuve. Mi hanno rapita ed hanno ucciso i miei genitori, forse mi volevano vendere come schiava” ipotizzai.

“Probabile, è un commercio fiorente in città. Dove sei diretta?” chiese ancora.

“A sud, poi non so” risposi imbarazzata. Avevo solo abbozzato il piano di fuga, non deciso tutto.

“Perfetto! Anche io vado a sud. Voglio imbarcarmi verso le nuove terre che hanno scoperto al di là del grande mare. Così avrò la mia terra e potrò crearmi un futuro” i suoi occhi luccicavano di entusiasmo che contagiò anche me.

“E’ una buona idea. Verrò anche io… se posso” forse non voleva avermi tra i piedi. Lui era più alto di me e sicuramente più forte, visti i muscoli possenti che mostravano le sue braccia, non aveva bisogno di uno scricciolo come la sottoscritta.

Il suo sorriso fu semplicemente abbagliante “Certo che puoi! Sono felice di fare con te questo viaggio. Ci aiuteremo a vicenda e insieme riusciremo a superare i controlli delle guardie. Si aspettano di trovare una ragazza o un ragazzo da soli, non una coppia” sembrava avesse già un piano e prese a spiegare come potevamo giustificare il nostro viaggiare insieme e senza bagagli.

Il suo entusiasmo mi contagiò all’istante e anche io proposi alcune idee.

“A proposito! Io mi chiamo Isabella” dissi ad un certo punto, ricordandomi che non sapevo ancora il nome del ragazzo.

“Giusto. Io mi chiamo Jacob” rispose facendo un buffo inchino e facendomi ridere.

 

Angolino mio:
Siamo al tempo dei cavalieri, del medioevo, del tempo di Re Artù, di maghi, maledizioni e lotte di potere, in una terra lontana e indefinita con città e paesi ormai distrutti.
Pochi capitoli... spero che vi piaccia

Grazie per l'attenzione
alla prossima
baciotti

  
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