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Autore: Elos    03/03/2012    7 recensioni
La guerra è finita. Mentre il Mondo Magico cerca di rimettersi in piedi dopo cinque anni di battaglie e morti, i sopravvissuti sono lasciati a convivere con il peso di tutte le cose che sono andate irrimediabilmente perdute.
Da Londra ad Hogwarts, ha inizio un viaggio attraverso lo spazio e la memoria per rimettere insieme i pezzi di una storia d'amore mai iniziata.
Prima classificata all'[Auror Contest]Rabbits on the run indetto da patronustrip.
Genere: Drammatico, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Luna Lovegood, Ron Weasley, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Undici giorni verso Hogwarts' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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30.06
10:15:59 P.M.


Quando chiudeva gli occhi la vedeva così: inondata di sole sui prati di Hogwarts, i capelli riccissimi come una caotica nuvola intessuta d'oro ogni volta che la luce ci passava attraverso, una macchia d'inchiostro sulla guancia e il suo profilo bellissimo e assorto.
La vedeva in un pomeriggio al sesto anno, gli ultimi giorni di vita vera, prima che Silente morisse e le cose cambiassero e la guerra iniziasse e li trascinasse tutti in quel posto buio e fondo che era diventata la necessità della loro sopravvivenza, prima che i Mangiamorte sciamassero sull'Inghilterra come uno stormo nero e che Voldemort facesse di tutti loro fuggitivi e ribelli e soldati, prima che la caccia agli Horcrux finisse per macchiare le loro anime.
Il profilo di Hermione era rimasto assorto anche dopo, bellissimo sempre; ma poi non c'erano più state chiazze di qualcosa di pulito come l'inchiostro sulle sue guance, niente più capelli sciolti perché era complicato lavarli quando non sempre si dormiva in un posto dove c'era acqua calda e sapone, niente più oro nella nuvola arruffata.
Ma Harry la ricordava ancora così. La loro Hermione dei giorni di sole.
La luce azzurrata delle stelle sembrava prendere sfumature d'ambra nei suoi ricordi; le ombre rosse e verdi che la luna disegnava sul pavimento della chiesa abbandonata, passando attraverso antiche vetrate opache, si trasformavano nel riflesso del sole sul lago di Hogwarts. Era stato fortunato a trovare un posto simile per dormire, con le sue porte socchiuse e le panche di legno rovesciate su un pavimento polveroso e infangato. Nessuno doveva essere passato da quelle parti a pulire da un'infinità di tempo: l'erba aveva preso a crescere tra le lastre di pietra del pavimento, le radici aggrappate alla poca terra che il vento era riuscito a spingere all'interno della chiusa, e nel mezzo di quella improbabile vegetazione c'erano poche, minuscole campanule ancora in boccio.
Harry non si era neanche preoccupato di Trasfigurare qualcosa in un letto: gli sarebbe sembrato, facendolo, di trasformare quel viaggio in qualcosa che non era. Era un viaggio da Babbano. I Babbani non avevano la magia per spostarsi, non avevano nulla che facesse di una vecchia panca rotta un letto comodo per passare la notte, niente per riparare con un colpo di bacchetta finestre infrante e porte che non si chiudevano affatto.
Faceva freddo nella chiesa abbandonata, ma non così tanto freddo da essere intollerabile: Harry aveva tirato fuori la giacca pesante dallo zaino per farsene una coperta; usava lo zaino stesso come fosse un cuscino ed era riuscito a sistemarsi tutto sommato comodamente sull'asse di legno scuro e vecchio di una delle panche.
Poteva guardare il cielo, da lì, attraverso le vetrate infrante, la luna argentata e le costellazioni bianche. Malgrado sei anni di Astronomia non aveva mai imparato veramente a riconoscerle, e così non erano niente più che briciole di luce ammassata, nessun disegno, nessuna storia, niente da ricordare.
Il cielo di Harry non aveva nomi. Non era una strada. Aveva imparato negli anni della guerra ad individuare la stella polare per sapere sempre da che parte era il nord, ma non c'era nessun nord al quale puntare, adesso, nessuna casa dove tornare. La guerra era finita. Doveva ripeterselo spesso: magari, così, un giorno avrebbe cominciato a crederci.
Avrebbe dovuto cercare di dormire. Il giorno dopo l'aspettava la lunga scarpinata che dalla cima della collina a nord di Newcastle, ben più alta della linea piatta della costa e del mare, lo avrebbe riportato sulla strada trafficata, verso un qualche posto dove farsi offrire un passaggio da un autista, magari, oppure ritrovare una corriera, un treno, qualcosa che lo portasse verso Edimburgo. Ma la sua gamba rovinata non sembrava riuscire a reggere sempre i ritmi di una persona sana: continuava a cedere nei momenti più inaspettati, rigida e dolorante, spedendogli lunghe fitte di dolore su per il ginocchio e costringendolo a fermarsi e a riprendere fiato.
La sua gamba non sarebbe mai tornata come prima, pensò Harry, colto nel mezzo di un dormiveglia denso e sonnolento come vischio, nulla sarebbe mai tornato come prima.
Quando chiudeva gli occhi vedeva Hermione. Sognava di lei e gli sembrava di essere tornato nella catapecchia di St.Paul's Cray, con la stanza dall'odore di liquore sparso e il viso di Hermione sopra di sé, le sue mani bianchissime e integre, l'aureola crespa dei suoi capelli castani.
“Mi dispiace,” bisbigliò.
Nel silenzio della chiesa abbandonata la sua voce parve riecheggiare.
Ricordò di nuovo com'era stato averla con sé nei loro giorni di sole, perché anche prima della guerra – anche prima di Ginny – Hermione c'era stata, era stata , con lui, come una sorella, più che una sorella, e adesso poteva ripensare alla curva del suo collo liscio e alla piega del suo seno sotto al vestito pervinca del Ballo del Ceppo e capire che... capire che...
Erano stati come una strana cosa in tre parti, lui e Ron ed Hermione, si erano compensati perché erano mancanti, ciascuno di loro era mancante, a ciascuno di loro mancavano dei pezzi. Era quello che Voldemort non aveva compreso, era quello che aveva causato la sua caduta: da solo, nessuno è mai intero.
Erano stati come una strana cosa in tre parti, lui e Ron ed Hermione, ed Harry avrebbe amato vederli sposati, vedere le mani di lui sul viso di lei, perché se non lui, chi? Se non lei, chi? Ma adesso che Hermione riposava sotto la terra lieve e la lavanda Harry poteva ripensare al suo sorriso e capire che tutto il dolore che gli si era aperto dentro non aveva a che fare solo con il senso di colpa e con la sua compagna della cattiva sorte, ormai irraggiungibile dall'altra parte del Velo, ma anche con tutte le possibilità mancate, perdute, mai realizzate.
“Mi dispiace,” bisbigliò ancora. Nel dormiveglia vide Hermione seduta tra le panche sfasciate. Aveva la sciarpa rossa e il viso pulito e un sorriso bianco come le stelle tra i vetri rotti: Harry non sapeva se la stava sognando o se era vera, se era un fantasma o solo un'ombra simile a quelle che si erano mosse molto tempo prima nello Specchio dei Desideri, sorridendogli e salutandolo dall'altro lato della morte, e non gli importava veramente cosa fosse, non quando poteva averla lì vicina ancora un altro po'. “Non devi andare via di già, vero...?”
Vide Hermione passargli una mano sul viso. Un frammento di ricordo si incastrò da qualche parte davanti ai suoi occhi, perché Petunia non l'aveva mai fatto, Lily forse sì, ma la memoria doveva essersi persa da qualche parte insieme al resto di quei quindici mesi di vita normale che aveva avuto prima che Voldemort arrivasse a Godric's Hollow; e perciò il ricordo delle mani di Hermione sul suo volto sudato per la febbre o la stanchezza o gli incubi era la cosa più simile al conforto che Harry conoscesse.
Le stelle pallide che filtravano attraverso l'ombra di Hermione si fusero con il ricordo dei giorni di sole ad Hogwarts. Harry chiuse gli occhi, li riaprì per poter guardare il viso di lei ancora per un attimo. Quando li chiuse di nuovo, passò dalla veglia al sonno.

***



Hermione era morta da centotrentadue secondi, centotrentadue pulsazioni e battiti e respiri affannosi, nel momento in cui Ron aveva smesso di prendere a calci il cadavere di Peter Minus, si era voltato verso di Harry e l'aveva finalmente guardato.
Il grumo pulsante di potere che era fuoriuscito da Voldemort, quasi fosse stato risucchiato fuori dalla sua bocca spalancata assieme al suo ultimo respiro, stava ancora cercando di farsi spazio all'interno di Harry: lui lo sentiva spingere e colare come pece da uno squarcio, sgocciolando negli interstizi vuoti che l'orrore e il dolore avevano scavato nelle sue viscere e riempiendoli con la sua massa nera. Tutti i suoi pensieri sembravano impazziti, la sua mente un coagulo di caos, e la sensazione era orribile quanto lo era stato avere Voldemort stesso dentro la testa, vivo e fremente e pronto a prendere il controllo nel momento esatto in cui le barriere dell'Occlumanzia fossero state abbassate.
Harry si premette le mani sullo stomaco e boccheggiò, nauseato, al pensiero che la sua anima fosse stata libera e sola per meno di cinque minuti. Cinque minuti di libertà nel totale di una vita. Dio. Cinque fottutissimi minuti.
E adesso Ron lo stava guardando e c'era qualcosa che non andava nella sua espressione.
Harry rabbrividì e combatté l'impulso improvviso di alzare la bacchetta per difendersi, perché quello era Ron, Ron, il suo migliore amico. Non c'era bisogno di bacchette alzate, con lui, nessun bisogno di difendersi.
“Ron...?” bisbigliò.
Diagon Alley era impazzita: tutti che urlavano, e c'erano ancora degli scontri in corso un po' più in là, lontano da quello che era stato il fulcro della battaglia e che ora era quieto ed immobile in una maniera stranamente inquietante. Harry vide Bellatrix cadere dal tetto di una casa sotto i getti di luce verde emersi dalle bacchette di Remus e Tonks, Lucius Malfoy venire sbalzato contro un muro da non meno di tre Schiantesimi. C'erano un paio di edifici in fiamme lungo la strada, tutti i negozi avevano le porte spalancate, le vetrine fracassate. C'erano merci e macerie e corpi per terra, chiazze di sangue e fuliggine sui muri. Qualcuno dei Mangiamorte aveva provato a Smaterializzarsi, ma le barriere alzate dalle gemelle Patil sembravano aver retto.
Nel mezzo della carneficina, tra i cadaveri e i feriti, doveva esserci anche il professor Piton. Harry cominciò a muovere mezzo passo, confusamente consapevole del bisogno di controllare che stesse bene, che fosse vivo, perché il professor Piton poteva anche essere odioso e un bastardo, un bugiardo assassino e doppiogiochista, ma gli aveva salvato la vita – aveva salvato la guerra – e Bellatrix l'aveva torturato, e adesso loro dovevano aiutarlo, curarlo...
Quando si mosse, gli occhi di Ron sembrarono metterlo improvvisamente a fuoco.
“Tu non sei morto.” disse, e nella sua voce non c'era neanche un'oncia di quel sollievo che Harry avrebbe sperato di udire dietro ad una frase così.
Harry fece per ritrarsi per istinto – perché quello era Ron ed Harry non poteva alzare la bacchetta, non poteva difendersi, sicuro, ma il viso che aveva di fronte era pieno di un odio e di una furia che aveva pensato che non avrebbe mai visto rivolti contro di sé.
Ron avanzò verso di lui ed Harry arretrò ancora di un passo: la gamba ferita cedette sotto al suo peso e lui si trovò in ginocchio, il ginocchio pulsante e la vista annebbiata. Ron allungò una mano ed Harry si aspettò, malgrado tutto, che cercasse di tirarlo su, di aiutarlo, di tenerlo dritto: ma la mano dell'altro gli si serrò sul collo della maglia, stringendo dolorosamente, e lo scosse con ferocia. “Tu!” ringhiò. “Non potevi farne a meno, eh? Troppo preso dai tuoi grandi piani segreti per perdere tempo a comunicarli anche a noi, eh? Eh? E' stata colpa tua!” ruggì. Harry lo fissò ad occhi sgranati, e il pozzo d'orrore e nausea che si era aperto dentro di lui sembrò allargarsi solo un altro po'. “Colpa tua! Sei andato giù e lei è corsa da te ed è morta così! E' stata tutta colpa tua!”
Ron lo scrollò ancora, violentemente, una scrollata sempre più forte a ciascuna delle ultime tre parole. Harry sentì il fiato mancargli ed alzò le mani per cercare di allontanare l'altro da sé, di staccarselo di dosso, perché aveva bisogno di respirare, di prendere fiato, di reagire.
Il potere che era stato di Voldemort pareva essere dotato di una vita propria, di una mente autonoma: si insinuò nelle crepe che andavano spalancandosi dentro di Harry e le riempì tutte. Sembrava volesse sanarle, in una orribile, nera, malata maniera, sembrava volesse richiuderle e cicatrizzarle. Sembrava cercasse di far sentire Harry di nuovo pieno, ma Harry si sentiva vuoto, vuoto, svuotato e annichilito.
“Perché sei vivo?” ruggì Ron, furioso. “Era l'Avada Kedavra! Pensavamo fossi morto!”
“Sono morto,” bisbigliò Harry, raucamente. “L'Horcrux... dovevo distruggere l'Horcrux. L'ultimo Horcrux. L'ultimo Horcrux – io.”
“Non sei morto!”
“Dovevo – dovevo morire.” sussurrò Harry. Dirlo faceva atrocemente male. Era andato alla morte perché Severus Piton gli aveva detto che solo così avrebbe potuto salvarli, solo così avrebbe potuto distruggere Voldemort una volta per tutte, bloccare la strada che gli avrebbe permesso di tornare indietro. Era andato alla morte con il cuore gonfio di terrore e di dolore, il pensiero di tutto quel che stava sacrificando davanti agli occhi – ma adesso non era morto, era vivo, ed Hermione... Hermione non respirava più.
Harry aveva visto sua madre sul campo di battaglia, suo padre tendergli una mano nel caos e nella confusione, mentre Voldemort gli puntava contro la bacchetta e la luce della maledizione trasformava il crepuscolo in un giorno di chiarore verde. Le mani di Sirius si erano posate sulle sue spalle mentre Harry se ne stava lì, fermo e in piedi, e si lasciava uccidere.
Era stato quello il piano, pensò confusamente. Non aveva avuto il cuore di dirlo a Ron, ad Hermione, perché aveva pensato che avrebbero cercato di fermarlo... e lui non avrebbe potuto tollerarlo, quello. Aveva pensato che, se loro fossero intervenuti, se avessero tentato di dissuaderlo, lui avrebbe potuto cedere. Che avrebbe potuto lasciarsi fermare e che avrebbero perso la guerra per questo, che sarebbero tutti morti per questo.
Non aveva immaginato che sarebbe rimasto vivo, dopo, a convivere con le conseguenze della sua morte mancata.
Cercò sua madre e suo padre e Sirius con gli occhi, ma non c'erano più. La Pietra della Resurrezione doveva essere caduta da qualche parte, lì sul selciato di Diagon Alley, e con un po' di fortuna sarebbe stata spazzata via insieme alle macerie. Non sarebbe stata trovata. Non sarebbe mai stata trovata.
“Dovevo morire,” sussurrò ancora Harry. L'orrore l'invase. Restare morto. Non tornare a respirare per scoprire che Hermione stava cadendo, cadeva, che Hermione non avrebbe mai più aperto gli occhi, e tutto il dolore e lo schifo di quella lunghissima guerra sembrava non essere servito a niente, così.
“Sarebbe stato meglio se lo avessi fatto,” ringhiò Ron. Le lacrime gli colavano dagli occhi, e tremava – se per la furia, la spossatezza o la disperazione, Harry non lo sapeva. “Dovevi restare morto.”
Nulla di tutto quel che Voldemort aveva fatto, la Cruciatus e le ferite e le minacce e la sua ultima, mezza morte, aveva potuto mettere in ginocchio Harry, ma Ron c'era riuscito senza neanche bisogno di estrarre la bacchetta.
Harry si era sentito barcollare e aveva dovuto usare una mano per tenersi dritto.
“Lasciami andare,” aveva mormorato. Aveva cercato di respingerlo. Le ginocchia gli facevano male, la testa gli faceva male, respirare gli faceva male. Aveva tentato di alzarsi e Ron l'aveva lasciato cadere: l'espressione di disgusto sul suo viso era stata come uno schiaffo in piena faccia, ed Harry aveva visto il viso di Petunia sovrapporsi a quello del suo migliore amico, quello di Vernon, di Piton, di tutte le persone che l'avevano guardato con schifo e disprezzo nel corso degli anni. Aveva sentito la sua presa sul grumo di potere che gli si stava coagulando nel petto vacillare ed aveva sentito un brivido gelido scorrergli nella schiena al pensiero di tutto quel che avrebbe potuto fare a Ron, al mondo, se solo fosse stato sufficientemente arrabbiato. Se solo l'avessero provocato abbastanza. “Vattene...” aveva bisbigliato, inorridito. “Vattene via!”
Il grumo si stava aprendo. Germogliava, si spaccava, come una melograno, come un bozzolo, e tutto quel che ne stava uscendo fuori, tutto quel coacervo di orribili emozioni che si stavano mangiando il cuore di Harry, avevano fatto tremare la terra, sussultare i mucchi di macerie nel mezzo della strada. Nel mezzo della polvere che si era levata, un lampo di luce rossa era passato a pochi metri da lui e da Ron, ma Harry non l'aveva visto: perché proprio in quel momento il grumo era sembrato esplodere in lui, con un boato sordo, e c'erano state grida e suono di cose che crollavano.
Poi, il buio.





Note del capitolo: La forma di questo capitolo è il racconto in analessi (o flashback); l'immagine è tratta da qui, ed è una fotografia del Vallo di Adriano nella contea di Tyne and Wear (dove si trova Newcastle upon Tyne. Questa volta ho dovuto modificare pesantemente la foto originale perché non sono riuscita a trovare una singola fotografia notturna di una chiesa abbandonata inglese o di un tratto di campagna inglese. Se avete più fortuna di me e ci riuscite, vi prego, fatemela avere! x°D Il brano è Tell Tales For Spring.

Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione: l'Università stava cercando di mangiarmi viva, ma poi mi ha risputata fuori. Un grazie a tutti voi che vi fermate sempre a lasciarmi un parere.
  
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