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Autore: SuperTeleGattone    08/03/2012    2 recensioni
Naruto sente i suoi trenta e più denti stare inesorabilmente per sbriciolarsi, tutti e all’unisono, in grandiosa sincronia, come una banda di ginnaste. E malgrado quest’orribile consapevolezza, la mandibola non concede tregua alla mascella.
Perché non si sono ancora mossi.
Non si sono ancora mossi, porco diavolo!
Né lui né lei, e saranno passati… Cinque? Dieci? Tre miliardi di anni? Quanto può essere passato da quel catastrofico momento? Dio, non lo sa, ma vorrebbe solo finisse… Perché accidenti se ne sta ancora lì, rinsecchito e con quell’aria idiota? Che poi lui sa d’esserlo, certo. Lo sa lui, lo sa lei, lo sanno loro, lo sanno tutti! A quest’ora, probabilmente, anche quel quintetto di fossili abbarbicato sul massiccio alle sue spalle.
Idiota… perché ancora non le ha risposto.
Come pensava: venerdì. Giornata di merda. Alla grande, eh.

Niente di nuovo e niente di che; solo quanto credo manchi tra i capitoli 437 e 559, casomai. Controindicazioni: può causare vomito, narcolessia e fenomeni di decesso.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
Capitoli:
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• Angolo dell’autrice •

__Brevissima nota introduttiva, gentile e magnifico utente capitato qua: l’affare sotto nasce e muore come one-shot; molto semplice e lineare ma, attenzione, non stringato. La cosa è infatti una e pure trina (amen); divisa per scongiurare l’esplosione del lobo frontale a te, povero lettore, e la morte per anatemi a me, povera demente. Una dritta sui tempi: ci troviamo grosso modo fra la distruzione di Konoha (con annessa reunion del team sette) e la partenza del primo attore per l’isola-barra-tartaruga gigante della Nuvola (e annesso millantesimo allenamento). Questa parte, poi, è parecchio rognosa perché… beh, c’è solo Naruto e associato ambaradan interiore. Una botta di simpatia, esatto. Bene, a chiunque sia rimasto: grazie già da ora d’esser passato, o anche solo di averci provato.

Grazie, e ora fuggite, sciocchi!

• • •











È molto meno indecente
andare a letto insieme
che guardarsi negli occhi.




[Friday]
Im in Love

[Boys Don’t Cry]






__I would say: «I’m sorry»
__If I thought that it would change your mind
__But I know that this time I have said too much
__Been too unkind

__I try to laugh about it
__Cover it all up with lies
__I try and laugh about it
__Hiding the tears in my eyes
__Because boys don’t cry
__Boys don’t cry

__“Boys Don’t Cry”, The Cure





__Venerdì di merda.
__Giornata di merda.

__Pensa, e calcia un sasso.
__Forse, meglio non si metta proprio a pensare.
__Quando mai ha pensato in vita sua, poi, lui? Una volta, due, tre? Massimo cinque, sicuro. Con tutto, che non c’è nemmeno abituato: non si è mai allenato per… insomma, a quello. E comunque, come diavolo ci si allena a pensare? Dovrebbe chiederlo a Shikamaru, sì, e quasi certamente lui lo guarderebbe storto, per il povero idiota che è; garantirebbe non è il caso, fidati; solo una gran rottura e nulla che faccia all’occorrenza sua. A dirla tutta, non son cose sue queste: via, alla larga dai corti circuiti mentali! Segua piuttosto il suo istinto, risparmiando grane simili ai comuni esseri umani, sprovvisti di alvei di chakra inestinguibile o demoni di fuoco acquattati tra le viscere come sciacalli.
__Meglio non pensare allora, davvero. Se la vedano loro con certi urobori gassosi da cervelloni e strateghi: a loro, e con piacere, i castelli in aria! Campanili malmessi e malfermi, pronti a franar giù alla prima cazzata. Di cazzate, poi, lui ne fa una decina in un secondo scarso; riconoscendone la paternità di neanche la metà e disconoscendo il resto come devotissima sfiga. E lui non ha merito, eh, croce sul cuore!
__Meglio non pensi, comunque. Tanto, cosa mai potrà avere da pensare? Chi, lui? Uno che se ne va in giro con quell’aria sbadata e rilassata; quasi voglia, le tenti tutte per irridere la malasorte che cronicamente lo becchetta.
__Eh già, cosa diamine può avere da lagnarsi? Lui, l’eroe dei miei stivali che, senza volerlo davvero, ha ruggito sulle mortali Volontà del Fuoco col latrato del cane tenuto alla catena da troppo, troppo tempo. Lui, che in barba alla iella, ma iella più nera, calpesta questa terra con la compiacenza vomitevole del redentore, del martire; lieto di farsi lapidare da Pilato col miglior sorriso cucito in faccia.
__È un sorriso largo e fragoroso come lo schianto di un tuono; sproporzionato alla realtà che dovrebbe giustificarlo, ma che, desolati, non lo giustifica. Nella sua inutile vita non c’è mai stato nulla da ridere, proprio nulla, mai: né a sei anni, appallottolato come un fagotto di spazzatura in un rettangolo nero e brutto che si ostina a chiamar casa; né a dodici, quasi tredici, sfatto fra miriadi di bende come un bambolotto rotto e gettato via, con quel suo demente attaccamento a una fascia cui nessuno più badava.
__Che diavolo ha da brontolare, quindi? Quali atroci pensieri possono infestare quella spensierata boccia bionda? Turpi visioni? Striscianti ossessioni? Cosa può destabilizzare il voltaggio della sua luminosità da supernova?

__Cazzo hai ancora, Uzumaki?!

__Ah, niente, niente, e chi ha niente? Lui fracassa ossa e crani, vomita Rasengan e si accartoccia le dita in Rasenshuriken: solo quello fa. Moltiplicarsi all’infinito, sino a disfare ciascun brandello di carne e disintegrare l’ultimo atomo: la scissione nucleare, quello è il limite; distruggersi, quello è il fine. Così da non pensare a un rettangolo di pece e fango, fatto di mura e legno, o sentire il fiele dell’emarginazione giù in strada. Così da non svegliarsi mani allo stomaco e raccontarsi che è tutto a posto, che non è niente, ma niente, sicuro; solo la digestione, lo stress, una vita intera ad avere paura; ma tranquillo, eh, va tutto bene e andrà tutto bene, perché deve, deve andar bene… Quando invece non va bene, lo sa, e non va bene per niente. Così da non violentare la bocca in un sorriso, un nuovo ci penso io, mentre Sakura-chan appassisce come i fiori. Così da non maledire ogni istante della giornata, per essere e voler comunque essere, dannazione, al mondo: vivo, ancora vivo, al costo loro.
__Continua a fare, correre e picchiare, dunque. Gli riesce di non pensare, così. Non ci scappa nemmeno il tempo, così: solo fare, correre e picchiare; darle e riceverle; e darle ancora; e riprenderle indietro. Via a massacrarsi, a massacrarsi, a massacrarsi… a uccidersi. Quello ha sempre fatto, e quello gli han sempre lasciato fare.
__Non deve badare alle lacrime che bruciano per uscire, mangiare un po’ di ossigeno e latrare a tutti il loro dolore. Meglio inghiottire il vomito e annegarlo giù, in fondo allo stomaco; strozzarsi con le code della Volpe, eventualmente, e smetterla, smetterla una volta per tutte di consumarsi nella paura. I mostri dentro l’armadio, sapete, sono difficili da ignorare. Se poi quelli son dentro, sì, ma non all’armadio… Sogni d’oro, allora, mio bel bambino.
__Forse, meglio serrare gli occhi fingendo di sorridere. Provarci, se non altro: stirare la bocca nella cartapesta di un ghigno e andare avanti, avanti nonostante le catene e i cadaveri intorno ai piedi. Su col mento, quindi: schiena dritta e occhi alti, fiero della propria malora e del proprio inferno. Ridere, come il derubato in faccia al ladro, a scherno suo, tuo e del mondo. Ridere, porca miseria, quando non ti rimane altro; quando non hai mai avuto altro; roba da creparci, ecco, dalle risate.
__Ride così: sedici ottobri, ormai, e non fa altro.
__Ride, col mondo a strillargli addosso di smetterla: basta, adesso basta! Non c’è proprio niente da ridere, sai? Ma lui non smette e seguita a ridersela come un matto. È una cosa che fanno i matti, no? Ridere senza giusta causa, tappare orecchie e occhi per poterlo fare: è da matti, vero? Sia pure, però… Lui non lo vuole vedere, più vedere né sentire quello che sta fuori. Ce n’è tanta di crudeltà, là fuori: un piede oltre l’uscio, e quella è già lì, pronta a sbranare.
__Ma, ehi, se proprio proprio è sancito debba soffrire, almeno sia lui a scegliere come, dove e quanto. Sia lui il boia, piuttosto di un branco d’infami che lo odiano senza nemmeno spiegargli perché: cosa ha fatto? Cosa mai avrà fatto di tanto sudicio e orribile a soli dieci anni di vita?! Escludendo ricordar loro il già accaduto, e la potenza di quanto sarebbe potuto accadere, ancora.
__Innalzino pure titaniche cinte di mura e solido pregiudizio, tirino su Jericho stessa, se riesce loro: non servirà. Non lo si chiude fuori, il male. Soggiorna proprio lì, invece, novanta centimetri più in basso del loro naso e del loro sdegno: biondo, arrabbiato e arruffato come un gatto. Ha mani troppo piccole perché siano strette in pugni concretamente minacciosi, e occhi troppo azzurri per risultare infuocati da altro che non sia il rogo sordo del pianto.
__È uno scricciolo minuscolo, eppure basta a gettar braci vive sotto la Foglia tutta. Come può, però, un cosino simile reggere odio fatto d’aria e sale? Respirare ossigeno che ossigeno non è, ma anidride, ammoniaca e fumo?
__Lo vedono, lo sa bene che lo vedono, ma lo scansano: lo vedono e, vedendolo, lo scansano. Come le carcasse sull’asfalto.
__È foschia che brucia e sbrana, quella, snudando un cuore ancora troppo gracile perché riemerga sotto un sole cannibale che mangia la pelle; è cianuro in bocca a un bimbo egocentrico e solo come lui. Gli è dentro, ormai, e non se ne vuole andare: non ci stiamo qua, tutti e due. Non può conviverci: non c’è aria, non c’è spazio, non c’è né per me né te. Qualcuno deve lasciar la presa, se vuole sopravvivere: o io o te. A costo di cavarselo fuori dalle budella, per riuscire; roba da creparci, ecco.
__Lo avrebbe fatto lui; lo avrebbero spinto loro; o lui o loro.
__In un modo o in un altro, ci sarebbe scappato il morto.
__Piuttosto che ammazzarsi, proviamoci un poco a vivere, no? Diamine, sì! Forse è meglio vivere, anziché disfarsi nella bramosia di quanto non si ha, non si ha mai avuto e, comunque, non si sarebbe mai riusciti ad avere. Quello che vuole con tutto con ogni singola, maledetta lacrima dei suoi magri sei anni, e che è arrivato persino a odiare: l’ora di cena al parco; gli scivoli vuoti; voci che sciamano via; la sacralità del gregge familiare. Gli scava voragini nello stomaco da una vita, e lui lo chiama fame: non è adorabile? Crede pure di zittirlo con po’ tagliolini e brodo; ma è tenace il nemico e, cattivo, canticchia: nessuno ti vuole, Naruto Uzumaki, nessuno.
__Per questo, per questo, meglio vivere e godersi ciò che si ha, benché misero e patetico. Come una buona dormita. O una bella giornata di sole. O una scodella fumante di ramen offerta dal signor Teuchi. O il non essere poi tanto debole, per pestare tre bambini capaci di fargli da custodia.
__Ché non è così invisibile, forse, se il maestro Iruka strilla come un’aquila per l’ennesima, fiammante parete sbaffata dalla sua esuberante delinquenza. Ché non è messo così male, forse, se riesce a far girare tutta Konoha allo squillo argentino della sua voce e con quel vorticare da petardo di Capodanno.
__Ce l’avrebbe fatta, sempre, d’ora in avanti. Ce l’avrebbe fatta, alla faccia di tutto e tutti. È una promessa e una rotta: una via.

__Parola di Naruto Uzumaki, prossimo Hokage della Foglia!

__E così è stato: se l’è o non se l’è sempre cavata, lui? Ah, certo: è tutta una vita che se la cava, lui. In qualche modo. Più o meno ortodosso, fortuito o geniale esso possa essere – integralmente idiota, Oiroke no Jutsu, spesso e volentieri.
__Deve ammetterlo: non è esattamente da tutti superare indenne scenari più vicini a un mattatoio che a un’innocua missione classe D. Incrociare i kunai con titani strappati al mito, e uscirne tutto sommato vivi – non quasi morti, come sua maestà splendente Sasuke Uchiha. Classificarsi tra i primi dieci nella graduatoria per la selezione dei chūnin, dopo tre, ben tre bocciature consecutive. Fronteggiare il proprio termine di paragone, il rivale di tutta una vita, la nemesi che si è sempre inseguita, e proprio nella Valle dell’Epilogo: urna in acqua e pietra di una discendenza divina. Divina e, non a caso, fratricida.
__Lui, in buona sostanza, contro tutte le probabilità, i calcoli matematici e preventivi empirici; con tutti gli astri a sfavore e l’universo intero in opposizione; tutto il team a terra, un solo uomo in gioco, zero elementi di recupero in serbatoio e il super-mega-stronzissimo-boss di fine livello davanti; in pieno orgasmo della tirannide di Murphy, lui-! Uh, lui? Lui è erba cattiva, duro a morire.
__Sempre a cavarsela, il giovanotto. Beh, sempre… Va bene, va bene. Magari non sempre e comunque uscendone come un fresco bocciolo di maggio. Può darsi, qualche volta, con una quantità non proprio irrisoria d’ossa rotte, un polmone spappolato a mo’ di pomodoro maturo, e un arto tagliato via. Senza incisione. Strappato.
__Sas’ke, sapete, lui non lo aveva fermato.
__In genere, però, la scampa sempre: di che si lamenta? Per qualche bernoccolo? Ma se ai suoi strappi pensa e ha sempre pensato la lava rossa dell’Enneacoda! A quelli, quantomeno, giacché per il cervello, quel cumulo di rifiuti e traumi infantili… Per quello, ah, giusto un poco d’incenso e due strisce di sūtra! Una galleria del vento, in simpatia al chakra; o il vuoto pneumatico, sfotterebbe Uchiha.
__Peccato tal Uchiha non sia lì, al momento, ma impegnato a pianificare nuovi e industriosi modi per trucidare il suo intero villaggio natale. Fosse almeno capitato nei paraggi in occasione di un recentissimo giudizio universale; avrebbe riconsiderato i piani più imminenti, probabilmente – perché, pensa te, tanta imprevista cortesia! Chissà, magari avrebbe commentato con un ah però, grazie; chissà, magari avrebbe commentato con un era ora, stronzi.
__Ma tal Uchiha, chiaramente, non è lì.

__Suvvia, ancora quella faccia da vedova inconsolabile, ragazzo?

__Ha schivato un bel proiettile, no? Altroché, una grandinata di piombo! È maturato in una grossa e grassa gatta da pelare, l’orfanello degli Uchiha. Lode ad Akatsuki e ai ninja traditori per averlo liberato da uno fra gli esseri più rognosi del creato! La prognosi era facilmente odorabile finanche da un sempliciotto della sua risma, poi: altro che steli commemorative o targhe, al camposanto l’avrebbe condotto, la piaga con lo Sharingan.
__Se lo sarebbe mangiato vivo, Uchiha.
__Alla luce delle ultime analisi e secondo il parere medico, avrebbe seriamente dovuto mandare un cesto di frutta al compianto Orochimaru. Una corona di fiori, perlomeno.
__Lo è sempre stato lui, fortunato, molto e malgrado tutto. Fortuna che, di quando in quando, torna a fargli visita, grattando le unghie sulla porta come un gatto girovago. Un gatto un po’ stronzo, in effetti: astuto profittatore che, se digiuno o in carestia di sorci, riappare prontamente; miagolando per farsi riaccogliere e, quindi, assolvere: ché non voleva, eh, sul serio! Robusto nella calma che l’allocco lo perdoni; perché si sa, è fatto così lui: abbaia, fa lo scocciato, ma cede sempre dal bonaccione che è.
__Perciò, laddove se la sia cavata, non è certo stato per abilità intrinseca, fine raziocinio o pianificata strategia. Affatto. La radice è semplice, banale, sfacciatissima fortuna. Culo, genuino culo.

__Chiaro, baka?

__Dio, quanto odia dargli ragione: tanto in passato, da ragazzino, con quell’ombra di sussiego sotto l’ala nera dei capelli, quanto al presente, quattro anni e una quantità meglio ignota di spazio aereo di distanza.
__Mai che abbia capito niente di Sasuke, d’altro canto: da dove arrivava, in effetti, il nero saldo e contratto dei suoi occhi da rapace? Il Falco, senza dubbio; e incubavano un potere remoto e mortifero, sì, ma sempre, tragicamente umano. Cosa innescava, poi, il baluginio metallico che di rado, ma significativamente, lì lampeggiava? Era il voltaggio elettrico della mischia, sicuro, ma non solo. E il portamento altero e stizzito? Un po’ gobbo, il Sas’ke dodicenne: le spalle curve e le mai fuggite nei pantaloni – ce lo aveva cucito addosso, il tessuto di una casata di eletti. Scrutava di sottecchi, anche, sotterrandosi nel collo altissimo della maglia; il miglior genin di Konoha pareva spiare il mondo con l’apatia stomacata riservata agli insetti.
__Lo ricorda, lo ricorda bene: un anno fianco a fianco, a sputare terra e dormire sugli alberi. Insieme, sempre insieme, ad affidare la vita dell’uno nelle mani dell’altro senza reale ammissione, o la convinzione di poterne cavare qualcosa di buono. C’era una squadra là, compagni, stima e invidia: legami. Eppure, dopo tutti i Rasengan e i Mille Falchi, dopo il mostro e il sopravvissuto, dopo l’eroe e il traditore, dopo tutto… non ha ancora capito niente.
__Ed è stupido. Lui? Lui, certo, lo è sempre stato, ma lo è anche l’affare, tutto quest’affare in generale: è stupido, perché ha sempre pensato fossero simili loro due. Simili, affini, come vi pare! Speculari nella contrarietà di colori e caratteri e, quindi, paralleli. Due strade sì diverse ma adiacenti, correnti lungo identica direzione e sporcate dalla stessa orribile sozzura: la solitudine.
__Lo pensava, n’era certo: non la mano, il suo stesso coprifonte sul fuoco, a suo dire!
__Era tutto così semplice, allora: soli al mondo per la stessa causalità; o se non già la stessa, comunque una simile, fraterna catena di sfortune. Orfani entrambi, al più o al meno. Tuttavia… benché sapesse del massacro degli Uchiha – pure solo teoricamente e per lontana astrazione –, non aveva mai ben afferrato cosa quello volesse significare. Quanto quello potesse significare, e significare veramente, per Sasuke.
__Avrebbe dovuto capirlo prima: quello voleva e doveva significare qualcosa, per lui. Quello significava, era.
__Era tutto, per lui, tutto.
__L’inizio e la fine, l’alfa e l’omega del suo inverno umorale; una lebbra intangibile, camuffata da genio sopra l’armatura da bimbo prodigio. C’era sempre, non la potevi toccare – guai a te! –, ma la vedevi e la vedevi bene: la vampa scura a ruggire feroce nei suoi globi muti; la ruga verticale tra l’arco delle sopracciglia e sopra le falangi lussate in un sigillo; la ritrosia da corvo pronto a volare via, e non senza averti defecato sulla zucca prima di sparire lontano.
__Sapeva cosa era successo, tutti lo sapevano: l’ultimo a foce di una violenza intestina e consanguinea, leucemica – sangue che attacca sangue. Sapeva, ma capiva? Si era mai sforzato di comprendere cosa questo volesse significare, e significare rispetto a lui e rapportato all’altro?
__Naruto e Sasuke erano sì soli, ugualmente soli, eppure le loro solitudini non potevano dirsi altrettanto uguali. Per quanto crudele da esternare, Naruto era sempre stato solo: mai avuto nessuno e, pertanto, mai neanche perso nessuno. Nessuno di cui serbasse memoria, almeno. Sasuke, viceversa, non era sempre stato solo. Non era nato solo. Aveva avuto due genitori, un fratello, una famiglia, un intero clan, e li aveva avuti da sempre. Aveva avuto tante cose, lui, cose che non si è mai pronti a lasciar andare. Eppure… Come ti separi da un braccio? Come, senza sanguinare?
__Discriminazione, sedizione, ragion di Stato: prima ancora di saper reggere un carico del genere, tutte, tutte quelle cose… via. Strappate via, in un unico fendente di tuono. Così si era estinto il Ventaglio: presso una luna gravida, sopra un rione mietuto prima dell’alba. E a lui restava un corpo senza radici e senza rami, solo.
__Questo, Naruto lo sapeva. Quanto invece ignorava, nei suoi dodici anni scarsi, era come perdere qualcosa – qualcuno – non fosse precisamente identico a non averla avuta mai. Non si trattava di misure, d’inferiore o maggiore, di più o meno brutto o doloroso. Era sottilmente discorde e maledettamente indefinibile, indicibile forse – muto e senza nome nel silenzio tributato al lutto.
__Era la meccanica a distanziarli – a separarli –, per sempre e dall’inizio – nella sostanza. Li poneva uno di fronte all’altro, specchio e riflesso del proprio opposto: il reietto che mai aveva avuto niente, da una parte; il superstite che tanto aveva avuto e che troppo aveva perso, dall’altra. Il dolore dell’assenza, e quello della perdita.
__Aridità. E falciatura.
__Due deformità per la medesima catastrofe.
__Orfani entrambi, sì. E no. No, perché Naruto, solo, lo era sempre stato; no, perché Sasuke, solo, lo era diventato. In questo, Uzumaki aveva un grande e crudele, drammatico vantaggio: il tempo. L’abitudine e la pratica alla solitudine. Uchiha, invece, aveva dovuto arrangiarsi come meglio aveva potuto: quando ormai era troppo grande e troppo tardi per dimenticare, ma non abbastanza per sopportare e resistere. Non aveva armi per fronteggiare il carcinoma senza sfociare nella degenerazione cellulare; senza mutare, gradualmente, con quel male. In quel male.
__Sasuke lo sapeva, lo sentiva scorrergli viscido e lento nelle vene; nel sangue rosso, cupo, marchiato da una lugubre triade di tomoe. Uchiha. Era più di una maledizione a Konoha. Eppure era quel sangue, quel suo sangue, la via, la sola via: avrebbe ricondotto il mostro al suo creatore e lui, al suo dio. Itachi. Lo Sharingan era la via per Itachi. E Itachi, Itachi era, era… l’approdo. Chiudere il cerchio e liberarsi, liberarsi finalmente; esorcizzare i fantasmi della notte: spettri di ragnatela e suono, voci, che lo seguivano anche di giorno; là, nelle ombre allungate dal taglio del sole.
__Aveva sempre pensato lui e Sasuke fossero soli, tristi e perennemente incazzati con tutto e tutti per la medesima ragione, analoghe vicende e, in un certo senso, vicino stampo caratteriale. Non aveva mai inteso quanto fosse differente, lontano ed estraneo il loro dolore. Non maggiore o minore, solo diverso e, quindi, sconosciuto. Come una cultura autoctona di cui non padroneggiava caratteri e costumi e, pertanto, aliena e incomprensibile: non la capiva. E non poteva.
__Non esiste confronto tra il mio e il tuo dolore. Esiste solo il dolore, diverso – personale – e identico – reale – per ognuno. E lui, questo, non lo aveva capito. Come uno stupido, non vi ha badato; senza la spinta a volersi avvicinare e, così, afferrare.
__Probabile fosse già abbastanza il suo, di dolore, da non poterlo o volerlo ingigantire con un altro. Due valanghe d’acqua e fango in collisione: rischiava realmente di annegare. Egoismo, ottusità, paura anche; restava però il non averlo afferrato.

__Non aveva mai capito Sas’ke.

__Né a sei, né a dodici, né a sedici anni.
__E questo lo faceva sentire di merda.
__Lo fa sentire di merda.
__Una vera merda.
__Come pensava: giornata di merda.
__Ah, meglio non pensare! A che pro, poi? Pensare e ripensare, perdersi nel riflusso delle seghe mentali, non dà in mano granché. Se ne vien fuori più incazzati di prima, in genere, con un mal di testa micidiale, le palle agghindate a mo’ di gozzo e il bisogno fisico di prendere a craniate il muro. Aprirla in due, quella testa di cazzo lassù, e vedere cosa possa esserci dentro per far ammattire così, dalla sera alla mattina: ci alloggeranno davvero delle scimmie urlatrici – come sospetta più di qualcuno, eroe o non eroe che sia? O riesumeranno invece il cadavere di un qualche neurone – ultimo, desolato fanalino di coda del Quarto?
__Poche storie, comunque! Non pensare! Detto, fatto. Smettere subito, stop, fine. Ciao, ciao. Tante e care cose, eh! Che ci vuole? Non. Pensare. A nulla. Di nulla. A niente. Di niente. A-niente-di-niente-di-nient-, ma porc-! Oh, e dai! Pure l’emicrania, adesso? Ma vaffan-… Merda.
__Giornata di merda.
__Periodo di merda.
__Si massaggia le tempie per un grappolo di secondi, poi caccia le mani nelle tasche. Dentro la zucca, gli occhi fanno male; a terra, anche gli scheletri della Foglia fanno male. A dispetto loro, però, non c’è troppo campo d’azione: fare, non fare, cambia qualcosa? Che pensi o non pensi; che si alleni o non si alleni; che vendichi il maestro o si levi oltre il vile regolamento di conti; che si adoperi per farsi accettare o quasi si faccia ammazzare; che lo talloni sin dentro il Ferro, quello là, o con la neve che cade, aliti di cieli autunnali lei… Che accidenti di differenza fa?
__Ansa corrucciato.
__Devono prenderlo davvero per cretino, un autentico idiota, se questi sono i mezzi di persuasione: lo raggirano come un cane, quando ondeggi l’osso per assestargli poi, in stoccata, il guinzaglio. Ai loro occhi, un povero, povero coglione; il delinquentello con la latta di vernice; una bestia bizzosa con cui è impossibile ragionare… Quattro anni e il contentino di eroe, ma è ciò che vedono ancora.
__I molari stridono, mentre le tasche ringhiano.
__Eh già, cosa vuoi che ne capisca lui? Non si ferma certo a chiedersi: riportare indietro Sasuke e riabilitare il suo nome? Un’impresa più ardua ogni giorno, ciclo lunare e lembo di calendario che cade. Fargli intendere la portata del casino in cui si stia – li stia – cacciando – tutti? Forse troppo, persino per lui. Rimpatriare ai vecchi capitoli del team sette, delle giornate bruciate a recuperare felini isterici alla marcia di Sakura-chan, Kakashi-sensei e testa quadra? Solo un maledetto miraggio.
__Ma sì, son cose che non lo sfiorano. Ha un ottimismo inguaribile lui – neanche fosse una malattia. Spensierato, esuberante e fracassone, basta quello a far da cuscinetto ai calci in culo della vita. Guardatelo un po’: è solo Naruto Uzumaki! Il somaro della classe! Sfottete, sfottete pure. E ricordate di andare ’affanculo, dopo, grazie.
__Gorgoglia e vibra, fermenta forse: il maremoto ha focolaio nello stomaco ed estuario nei polpacci.
__Bah, di quest’andazzo, fulminerà in un’unica vampata le ultime sinapsi rimastegli dopo una vita di stronzate, e col cavolo morrà insieme a Sas’ke: schiatterà oggi! Proprio lì, in mezzo ai rottami della passata Konoha, e con una ridicola espressione costipata a grattargli il grugno.
__Porta una mano al collo e, distratto, alza lo sguardo.
__Chissà, forse converrebbe salvaguardare la testa e guardare le nuvole, come Shikamaru. Ci investe il novanta per cento buono della sua capacità intellettuale e del suo tempo materiale, Duecento-punti-di-QI-kun: non potrà essere certo male…
__Peccato quel venerdì non vi sia nemmeno uno sfilacciato brandello di nuvola, lassù. Solo una campata immensa, impataccata di giallo e arancio dal tramonto. Tanto spazio sopra la testa, così tanto da pesare addosso, e neanche il cumulo nomade di una massa aerea.
__Pare proprio un soffitto dipinto, il cielo: tutto grosse strisce orizzontali, granulose come i kanji di Iruka-sensei sulla lavagna.
__In effetti, è così da un po’. Almeno, così a Konoha. Bah, Konoha, poi… Ha proprio un bel dire: occorre un enorme sforzo d’immaginazione per volercela ancora trovare, Konoha, là in mezzo! Un buco polveroso, raspato nel polmone verde del Fuoco come lo scavo di un cane: questo c’è. Eppure, la fossa sembra sguarnita di cadavere: no no, abbiate pazienza, c’è stato un errore! Vi paio morto io? Si deve credere ancora vivo, il povero diavolo. Sai cosa, però, compare? Quando il resto del mondo ti dice una cosa, e la voce è forte e una sola, chiediti questo: sono loro? Ve lo giuro, non lo sapevo! Oppure sono io? Quello che accedeva fuori, io non lo sapevo! Ignorante e vigliacco, tu guarda! E ti sorprende avere i piedi in una fossa?
__Tremano le gambe, ora.
__Merda, che pensieri va a fare? Non portano a nulla di buono, lo sa bene; non portano da nessuna parte, solo terra sulle scarpe.
__Non che lo faccia certo di proposito, comunque: non vorrebbe, non vorrebbe proprio ingarbugliarsi in tante idee storte, immagini di buche, cadaveri, morti che non sono morti e giuliva combriccola. Che diamine, non si chiama certo Sasuke, principe di Danimarca, Uchiha! E mai stato un tipo depresso o meditabondo, nemmeno quando la vita l’ha preso a sprangate sui denti; quindi cosa cavolo gli prende?
__È solo che non c’è neanche lo straccio di una maledetta nuvola, in quello schifo di cielo aranciastro. Che poi, a lui l’arancione in genere piace, eh. Eccome se piace: l’ha indossato consecutivamente per sedici anni, scardinando ogni decenza cromatica e principio di mimetismo ninja. Tuttavia, l’arancio di quel giorno, quella crosta ridanciana di ocra, sabbia e ruggine, lo sta pigramente infastidendo.
__Ci fosse poi qualcosa da guardare, qualcosa, una qualunque cosa! Un battaglione di uccelli, lo scintillio di un astro, un’eruzione intergalattica: perfino il marchio di quella creatura sessualmente e umanamente ambigua di Orochimaru sarebbe ben accetto. Tutto, pur di distrarsi, di fare e fare in concreto, nell’immediato, non sulla lunga distanza: è così stanco, stufo marcio di sfasciarsi la schiena e farsi il culo… Per cosa? Intravedere il luccichio di una conquista dopo distanze siderali di lavoro? Questo?
__Perché, porco demonio porco, avesse avuto almeno un motivo per bighellonare naso all'insù, forse, schiantarsi come un rincoglionito contro il primo palo sarebbe parso un filo meno imbarazzante. E ridicolo. E dolorante. Ma giusto un filo meno.

__Merda…

__In rinculo all’impatto, le mani sbucano leste dalla tana dei calzoni, e lui s’irrigidisce come il bucato lavato, lasciato inaridire alla fornace del sole. La schiena è incurvata, gobba, attorno la testa scarmigliata dalla botta e dalla fusione neurale; i capelli biondi, corona di paglia del buffone che è, ritti come un qualche felino indemoniato: ohi ohi, quante code intendi tirar fuori, oggi?
__I polpastrelli vanno d’istinto al naso, fuoco della collisione; ma il tatto in lui è sempre stato poco, quindi impreca senza rimorsi perché, miseria, fa un male cane! C’è del rosso e dell’ira sulla faccia; c’è pure un bel bitorzolo, da poco, insieme a tanta, tanta stanchezza. Quella, però, è lì da molto prima.
__Giusto il setto nasale tumefatto mancava… E poi, che altro in quel fantastico pomeriggio di merda?! Una nuova incursione di Akatsuki, o quanto ne rimane? Sasuke che passa a terminare il lavoro di Pain? O che so: un’invasione di locuste? L’acqua che trasmuta in sangue? La ressurrezione di quel mattacchione di Orochimaru? Magari direttamente Madara, sì, a recuperare dal canile Uzumaki il suo animaletto da eccidio di massa! Di quale morte deve morire, si può sapere?!
__Peggio di così, maledizione, può forse andare? Sasuke decorato del titolo di nukenin e braccato come un randagio idrofobo. Nonna Tsunade che entra ed esce dal coma senza tante cerimonie o crisantemi. I suoi amici che, comprensibilmente, si organizzano per arginare il morbo Uchiha. Kakashi-sensei e Sakura-chan che, invece, si coalizzano per debellare lo stesso morbo di cui sopra. E ricordiamoci! Il medesimo, secondo sacrale liturgia ninja, a ricambiar loro la cortesia con un kunai puntato alla gola della ragazza che, a dodici anni, si è erosa nelle lacrime – per fermarlo – e nell’umiliazione – implorando il compagno di riportarlo indietro.
__Attenzione, però, il bello arriva poi: i duellanti che, dopo i dieci passi, si voltano e gagliardi sparano. La sparano. Grossa. Tu sei mio amico, che suona dolente e malinconico, mi dispiace, come una promessa e una minaccia, ma basta con le cazzate. Suona come una strada, il nindō, che non ha uscita.
__L’impegnativa? Delle più classiche: ammazzarsi. A vicenda.
__Onestamente, dunque: potrebbe andar peggio? Potrebbe esser rosso di chioma, in effetti, e avere due trecce…
__Corruga le sopracciglia e una ruga si scava sulla fronte: non si vedrà perché sopra vi va la banda, ma c’è; fregature da ninja, le conosce bene. Il colore, negli occhi, si mischia al riverbero lontano di un cielo terreo e itterico, malandato, che d’azzurro non ha più niente; e lui resta fermo, tra le zolle sotto i piedi, e il riso di Eolo sopra la testa. Fermo, tra il sereno disinteresse dell’etere, e l’egoismo di chi quaggiù deve sopravvivere, poco importa come.
__Errabondo fra due piani, non sa dove andare: ancora troppo umano per l’Olimpo degli eroi; non abbastanza per la mediocrità dei figli d’Adamo. Troppo e non abbastanza, insieme: si elidono a vicenda, insieme; lo bloccano, insieme. Fermo non può avanzare.
__Cosa rimane? Andare e venire, ancora e ancora, per trovare spazio?
__Nessuno ti vuole, Naruto Uzumaki, nessuno.
__La sua strada e la sua via, il suo…
__Tu non ce l’hai.

__Posto?

__Munge palpebre, muscoli e scorza; mugugna, mentre la carne sulla fronte si raggruma. Evidentemente non pago, preme sul volume gonfio del naso e lì insiste: si strapperebbe il cervello, potendo, con quelle stesse mani! Vorrebbe aver fra le mani la realtà là fuori; una realtà che, per quanto nuda, sventrata nella sua cruda evidenza, non rimane nei palmi. Rotola, rotola via come scampoli di terra secca; come la superficie crepata e rimossa sotto i sandali… Ogni tanto lo tradiscono ancora, quei sandali: lo fanno incespicare come il dodicenne che si affannava dietro cose non sue, divine, quali la marcia sull’acqua.
__La realtà, di recente e mai come ora, sembra ansiosa, vogliosa quasi, di schiaffeggiarlo per l’insolenza nel sindacare; per quella sciocca presunzione di poterla afferrare o addirittura capire. Gli lecca sfrontata la faccia, nel sole, ed espira lasciva all’orecchio che lui, Naruto Uzumaki, eroe del Fuoco e progenie del santo Quarto Hokage, non ha mai capito un emerito cazzo di niente, nella vita: dei suoi compagni, dell’esser ninja e di come gira il mondo. Niente quindi gli spetta, niente.
__Sbuffa, e una mano va ai capelli, sconvolti dal caldo e dalla giornata. Giornata di merda, per inciso.
__Giornata, periodo, vita.
__Venerdì di merda.






I would break down at your feet__
And beg forgiveness__
Plead with you__
But I know that it’s too late__
And now there’s nothing I can do__

Now I would do most anything__
To get you back by my side__
But I just keep on laughing__
Hiding the tears in my eyes__
Because boys don’t cry__
Boys don’t cry__

“Boys Don’t Cry”, The Cure__




[Boys Don’t Cry]











• • •

• Angolo dell’autrice •

__Ohi, eccoci! Ciao ancora, chiunque o qualunque cosa/persona/animale/vegetale/minerale/categoria-a-piacere-qua-non-si-fa-torto-a-nessuno-tranne-ai-cavalli-ché-i-cavalli-si-sa-sono-persone-orribili tu sia. Grazie mille per esserti trattenuto e aver proseguito, gentilerrimo davvero.
__Bene, passo ai doverosi riconoscimenti: titolo! È un omaggio all’omonimo brano dei Cure, che dà anche il nome all’intero trabiccolo. Potrebbe pure esserne l’ispirazione e colonna sonora, ben o male… ma sono cose trascurabili. Altro titolo! Del capitolo, questa volta! E altra canzone dei sopraccitati Cure; sempre loro la paternità degli estratti infilati ad apice e pendice. In tutta franchezza, padre, ho molto peccato ancora; perché ci sarebbe pure un riferimento a “Che cosa sono le nuvole?”, cantata da Modugno su testi del sommo Pier Paolo Pasolini. Vale a dire, quando si parla del derubato che, ridendo, ruba qualcosa al ladro; tuttavia quasi mi vergognavo a riportarlo, e non per irriconoscenza: per appropriazione indebita più che altro. In ogni caso mi scuso per l’uso improprio di tutte le citazioni impiegate.
__Che altro? Ah, che scema: la frase riportata ad apertura del capitolo appartiene a Boris Vian. Più o meno, è tutto. Grazie infinite per aver letto questa roba, piaciuta o non piaciuta, va bene in ogni caso. Grazie ancora e alla prossima, se vi va eh. Ci si spera ma, oh, se vi va. Insomma… Capito, me ne vò.

Grazie.

__Disclaimer: personaggi, fatti e luoghi citati appartengono a Masashi Kishimoto, cui vanno tutti i diritti circa il loro uso. Non c’è scopo di lucro.


  
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