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Autore: Il Romanticismo Perduto    14/03/2012    1 recensioni
Nelle lontane terre dell'Ovest, la Casta Reggente degli Elfi sta per fronteggiare il suo declino, richiamato dalla politica scellerata di uno dei figli di Avenor. Ad intrecciarsi con queste vicende, una storia fuori dal comune vedrà un'umana e un'elfa, Sam e Loole, accavallare le proprie esistenze.
Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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I Signori delle Terre dell’Ovest

 

2.     Il nome di una maledizione

 

Il vero sta nel bianco, la menzogna nel rosso e nel nero l’essenza della vita stessa.

 

Come se la vita fosse lì, a una spanna dalla mano tremante sul tavolo di legno, illuminata da quella fiamma magica balbettante che calore non donava. La magia ancora la ingannava. Distolse lo sguardo.

Per tutta la vita aveva vissuto così e ora, a pochi passi dalla libertà del corpo, si ritrova imprigionata in una guerra che non è sua.

 

Vola, ragazza, vola.

Sì, ma da quale paradiso? Non esistono dei, santi o martiri che ti possano salvare.

L’unico che rimane sulla terra bruciata sei tu.

E ci rimani pure fregato.

Perché non scriveranno il tuo nome sulla tua lapide.

 

Un nome che non è suo, che non è sulla sua pelle, né nel suo cuore. Un nome dato a un’ombra che cade nel buio e vola nel vento. Un nome dato a un guanto che uccide e ad un mantello che nasconde.

«Il nome di un sicario è come i suo biglietto da visita.» affermò il capo, in uno dei suoi alquanto noiosi e pomposi monologhi.

«Dimmi, ragazza...qual è il tuo?» sogghignò, aspettandosi un nome altisonante e difficile da pronunciare.

Lo sguardo freddo, lontano dal buio e dalla verità del mondo. Solo aperti. Solo vivi. Lo disse come se fosse il tempo, atona. Piove. Nevica. Notte. Luna piena.

«Sam.».

 

La mano che ancora trema, gli occhi fissi. Una goccia di inchiostro che cade sulla carta.

 

E fu così che diedi un nome alla mia maledizione.

Una maledizione che scende dall’alto senza pietà e ti fredda lì, mandandoti al primo Dio creatore che passa per i cieli.

Faccio solo ciò che mi viene detto, la mia anima ha un prezzo, come quella di tutti.

L’unica cosa che desidero è poter ritornare a sentire ancora una cosa sulla pelle...

 

Si fermò, rileggendo le ultime parole. Assaporandole il gusto sulla carta.

Strinse la mano, sospirando e scrivendo la verità. Dopotutto...a chi importava?

 

...il dolce profumo, la carezza notturna e lieve della vita che ti scorre nelle viscere del tuo corpo peccatore di vita.

 

Imprimendo il punto alla fine della frase lasciò la penna sul foglio, prese un mantello appeso dietro di lei e indossandolo uscì, calandosi il cappuccio sul viso. La giornata era appena iniziata, i primi bagliori della vita del nuovo giorno stavano venendo al mondo con un silenzio soffocante ma luminoso.

Le strida della città uscivano dal boccaporto in cima al muro di fianco a lei.

La vita incomincia.

La ruota della fortuna gira.

Tu devi solo sperare di avere la fortuna che arrivi a fine giornata con il numero fortunato.

Aprì un rotolo sul tavolo, osservando un ritratto disegnato a matita. Il prossimo obbiettivo da eliminare, non importava perché, andava fatto. Sospirò, di nuovo.

Afferrò il rotolo e lo introdusse in una tasca all’interno del corpetto.

La vita incomincia...già.

 

L’unica che le dà un termine però, o sono io o la morte. E nei casi più disperati, le due cose coincidono.

 

 

Un’ombra silente, con cappuccio calato, scivola nella gente senza nemmeno sfiorar vesti. Le braccia nascoste sotto la mantellina scura che arrivava all’altezza del ginocchio. Produce un suono di tessuto dolce, ovattato e misto all’odore e rumore puzzolente del mercato locale.

Venditori di lame, di pesce, di ortaggi vari dalla dubbia freschezza e chincaglierie per signore non più giovani.

«Vuole una mela, signore? Le mie sono le più gustose del mercato!» l’ombra si voltò, dirigendo l’apparente sguardo all’oggetto offertogli, e con lieve fretta si allontanò, negando con una mano ricoperta da un guanto. Si diresse direttamente alla bancarella interessata, lievemente nascosta in un vicolo, che mostrava un arsenale di armi dal più piccolo coltellino a qualche spada ben affilata.

«Cosa desidera?» domandò il mercante, giocando con le mani pregustando la pesantezza dell’oro prossimo alle sue tasche.

L’ombra, muovendosi con calma, indicò un pugnale di delicata fattura, da lancio.

L’uomo, senza decantarne gli onori né la storia com’era solito fare, lo afferrò, lo introdusse in un fodero non suo, e glielo porse con una mano, attendendo nell’altra il sacco di denari richiesto.

L’uomo afferrò il prodotto, lasciando sul balcone un sacchettino che, a contatto con il legno, produsse un suono tintinnante di denaro sporco.

«Grazie mille!» fece il mercante, sorridendo affabile. Ma quando si alzò, per guardare il compratore generoso, era già svanito nei corridoi della città, dove il cielo si colorava lentamente di rosso al tramonto dell’astro.

 

La luce, già svanita dal cielo, si nascondeva ora nelle case, piccoli rifugi di quella gente immonda dalle mani sporche di inganni.

L’ombra, in cima alle mura, osservava con il cappuccio teso sul volto i rumori silenziosi e le luci soffocate nelle case. Lo sguardo fisso in una locanda, osservare un uomo dalle vesti pregiate entrare, pronto per un giro di sbornia e divertimento locale.

Chiusasi la porta pesante di legno, l’ombra era già scivolata nel suo stesso colore di città.

 

«Oggi offro da bere a tutti! Sono diventato ricco!» disse l’uomo, con un paio di baffi arricciati e i capelli lievemente bianchi, la pelle decadente. Attorniata da giovani bellezze del locale, adibite a far divertire i più ricchi di tasche, sorridevano affabili e si facevano toccare senza dispiaceri, nel cuore aride come nelle loro vesti.

L’uomo, considerandosi un pascià, all’ennesimo bicchiere di birra proruppe in un rutto da far tremare i vetri sporchi di quella locanda di second’ordine.

Non si accorse nemmeno che, lontano dai suoi sguardi e dai suoi immediati interessi, uno sguardo oscuro lo osservava nascosto nell’angolo più remoto della locanda.

«Vuole qualcosa?» domandò un garzone giovane, pieno di pustole gialle sul viso.

L’ombra, quasi sprofondata nel suo mantello da cui non si era separata né accingeva a rivelare il suo volto, lo osservò e parlando con voce bassa ordinò del pane e del formaggio. Il ragazzo svanì, e lo sguardo ritornò al panciuto mercante, dagli occhi dilatati e le vesti strette.

«Signorina, le va di venir di sopra con me?» domandò poi l’ubriaco mercante, ormai gonfio di birra e di desiderio. La donna, sempre con occhi spenti, annuì convinta, sorridendo all’ennesimo cliente e guardando il locandiere con sguardo d’intesa.

La mano del locandiere indicò il numero quattro.

Il garzone intanto si diresse verso il tavolo dell’ombra che, assimilando l’informazione offertagli senza cautela dal proprietario della locanda, prese al volo pane e formaggio avvolgendole in un panno, lasciando sul tavolo una manciata di monete d’argento per poi uscire dalla porta principale.

Tutte le finestre della locanda, adibite a stanze di pernottamento, quella notte erano spente, tranne una.

La camera più grande d’un tratto si illuminò, e al suo interno si potevano udire suoni di risate della prostituta e la voce squillante del mercante ubriaco. L’ombra appiattita contro le tegole del tetto spiovente di fronte ad essa, il cappuccio calato, la mano guantata intorno alla lama da lancio, la presa forte e ferma. Le finestre, aperte in quei giorni di calura estiva, davano l’occasione perfetta.

Aspettò che l’uomo desse le spalle alle finestre, per avvicinarsi di più, scivolando sulle tegole marce con sicurezza.

La luna, ricoperta da strati e strati di nuvole cariche di pioggia, negava la luce per individuare l’ombra, con fisico asciutto e agilità di un gatto, mentre si avvicinava sempre più.

L’uomo aveva spento la luce, entrando nel covo di finto amore che stava costruendo ora. I rumori che provenivano dal suo interno si intuivano di che natura fossero.

L’ombra, sotto il cappuccio terso, sorrise all’oscurità, abbracciandone ogni sua forma e mistero, sentendosi come un felino nella propria radura. Acquattata, entrare dalla finestra con un balzo, facendosi intenzionalmente scoprire.

«Chi va là?» intimò l’uomo con voce squillante.

La lama interruppe lo sguardo irato, trasformandolo in panico, poi in paura, e infine in morte.

La donna, raggelata, scostò il corpo con disgusto, facendolo cadere con un tonfo sordo a terra, osservandolo attonita per poi guardare l’ombra, rischiarata dalla luna, apparsa per un poco nella piccola stanza della locanda.

Il cappuccio ancora teso sul volto, si avvicinò alle vesti dell’uomo, frugando tra le tasche e prendere il sacchetto di monete tintinnanti tra le mani.

La donna, ancora nuda nel letto, non smise un secondo di guardare quell’assassino muoversi senza vederla. Trovato il denaro e un oggetto indistinto avvolto in un panno, infine l’ombra passò il suo sguardo su di essa.

L’odore di sangue scivolava sulla pietra del pavimento, il cadavere osservato da entrambi come se fosse polvere.

La mano frugò nel sacchetto, lanciando sul letto una manata di sonanti monete d’oro, facendo sussultare la donna.

Si voltò l’assassino, e uscì da dove era entrato. Nella stanza, ora, c’era solo odore di morte e di soldi.

 

Entrando dalla guardiola di un edificio apparentemente abbandonato scese verso le fondamenta di esse, bussando tre volte e mormorare una parola. La porta si aprì, e l’ombra scivolò lesta, sparendo.

Si diresse alla porta interessata, nemmeno guardata di striscio dal robusto guardiano.

Entrando, lanciò l’oggetto rubato pochi istanti prima al mercante sul tavolo, unico arredamento di quella stanza chiusa.

Una mano scura prese l’oggetto comparendo dal nulla, ma come se fosse sempre stata lì. L’oggetto scivolò come la mano nel buio e poi un sacchetto pesante atterrò sul tavolo, velocemente preso e soppesato dall’assassino.

«Ottimo lavoro, come sempre...» mormorò l’uomo, notando lo sguardo affilato dell’interlocutore, non più nascosto dal cappuccio «...Sam.» gli occhi ambrati della ragazza schioccarono fuoco, e senza mormorare parole, né gesti, si diresse alla porta, fermata dalle parole dell’uomo.

«C’è un altro lavoro per te, sempre ben remunerato...» buttò la voce sibillina. La donna si fermò, pronta ad ascoltare.

«Le informazioni le troverai nella tua stanza, se accetti il lavoro.» terminò l’uomo, soddisfatto di aver attirato l’attenzione della ragazza.

Si voltò, muovendo la testa contornata da corti capelli di un blu notte.

«Sarà fatto.» rispose schiettamente, la voce fredda, atona, dura. Uscì, e la luce di un fuoco di corridoio illuminò per pochi attimi il volto, prima di essere di nuovo celato dal cappuccio. Un tatuaggio tribale, dall’odore di magia, tagliava il volto in due parti passando sopra l’occhio destro e la base del setto nasale.

 

Un vecchio giorno è morto, la luna, la notte vivono di nuovo ora.

La vita è finita per qualcuno e continua per qualcun altro.

L’unica cosa che di sicuro non terminerà, è la mia maledizione.

 

 

   
 
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