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Autore: Acquiesce    15/03/2012    2 recensioni
Sulle note di She di Charles Aznavour lui farà un viaggio verso casa, un viaggio tra i ricordi, i ricordi del periodo più brutto della sua vita. Un periodo tormentato in cui Noel trovò la sua "lei", la donna che lo aiutò ad uscire dal tenebroso tunnel in cui era entrato, fatto di anni bui, dipendenza dalle droghe e perdita della sua magica creatività.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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She who always seems so happy in a crowd
Whose eyes can be so private and so proud
No-one's allowed to see them
When they cry
She maybe the love that cannot hope to last
May come to me from shadows of the past
That I remember till
The day I die

She maybe the reason I survive
The why and wherefore I'm alive
The one I'll care for through the
Rough and rainy years

Me I'll take her laughter and her tears
And make them all my souvenirs
For where she goes I've got to be
The meaning of my life is she she

 
 
Sbircio tra i sedili anteriori e scorro lo sguardo sulle case che sfilano ai lati della strada bramoso di vedere la mia. Ad aspettarmi ci saranno Sara, i bambini e forse anche Anais. Non vedo l’ora di arrivare a casa!
Ci fermiamo davanti a un edificio e scendiamo dall’auto. Casa dolce casa! Scully apre il bagagliaio per scaricare le mie cose: io prendo un borsone lasciando le due valige più pesanti ai ragazzi. Mentre salgo le scale velocemente e impaziente dico ai ragazzi di lasciare i miei bagagli fuori dall’appartamento, ci penserò io stesso più tardi a portarli dentro. Ora ho altro che mi preme.
Infilo la chiave nella serratura e nel frattempo sento gli sbuffi affannosi dei due e il leggero tonfo delle pesanti valigie poggiate a terra. –Ci vediamo Noel!- mi saluta Scully, e io rispondo con un cenno della mano mentre giro la chiave. Apro la porta e finalmente entro mettendo giù il borsone e chiudo la porta alle mie spalle con una leggera spinta del piede. Donovan e Sonny sono i primi a corrermi incontro felici e ad attaccarsi alle mie gambe. -I miei bambini sono diventati molto forti in questi ultimi mesi- penso, -a giudicare da come mi stringono.- . In quella posizione sono completamente bloccato: non posso abbassarmi per prenderli tra le braccia e tantomeno provare a camminare! Ma un attimo dopo ecco che spunta Anais dall’altra stanza che sembra distrarre per un attimo i fratelli, almeno per quell’istante necessario per far loro allentare la presa e consentirmi di prenderli in braccio e dirigermi verso di lei. Mi abbasso di nuovo mettendo giù i piccoli e tiro verso di me la mia bambina che si atteggia a dura, credendo di essere già grande; come se ciò comportasse non avere sentimenti o non abbracciare tuo padre che non vedi da mesi. Ma si scioglie subito e ricambia il caloroso abbraccio. È una brava bambina.
Alzo lo sguardo e mi ritrovo davanti lei. Sara se ne sta lì con il suo sorriso e aspetta che le vada incontro. Mi metto in piedi e cammino verso di lei, a un metro da me. La mia amorevole moglie su di me esercita lo stesso effetto che esercitavano le sirene verso i marinai. Non canta, non ne ha bisogno, mi basta guardarla per farmi dimenticare tutto ciò che mi circonda.
Quando mi allontano credo di aver lasciato in leggero disappunto i piccoli, pazienza, mi rifarò più tardi con loro, ora ho voglia di passare un po’ di tempo con la loro mamma. La stringo tra le braccia e la sollevo da terra, felice di rivederla. Lei può essere la ragione per cui sopravvivo, il perché io sono vivo, lei fu una manna dal cielo, un angelo venuto a salvarmi. La vidi per la prima volta una decina di anni fa, quando arrivai ad Ibiza: lei era al bancone di uno di quei bar all’aperto, sorseggiava uno di quegli stupidi drink con l’ombrellino e fronzoli vari. Quella sera avevo intenzione di stare alla larga da qualunque locale in cui servissero alcolici, ma a quella vista decisi di fare un’eccezione, così mi sedetti a un tavolo ad osservarla, in attesa che mi venisse in mente la frase meno stupida da dirle per rompere il ghiaccio. Non mi ero mai sentito così in soggezione davanti ad una donna. Finalmente mi feci coraggio: vidi che tentava di accendersi una sigaretta ma la brezza umida della sera le rendeva difficile il compito, così mi alzai, tirai fuori il mio accendino e mi avvicinai. Misi una mano a mo’ di cucchiaio di fronte alla sua e azionai l’accendino. Mi guardò negli occhi sorpresa mentre tirava una boccata in modo tale che la sigaretta si accendesse. Misi via l’accendino mentre quella donna soffiava via il fumo, poi mi ringraziò gentilmente. Mi sedetti sullo sgabello di fronte a lei e la osservai, lasciando che fosse lei a parlare per prima. Fece un altro tiro, guardandomi con l’aria di chi la sa lunga; sembrava stesse per dire un frase del tipo “io ti conosco.. tu sei…” ma non lo fece, disse solo:-Chi devo ringraziare?-. Lo fece con un’aria gentile ma non troppo affabile. Sorrisi e mi accesi una Benson & Edges, poi risposi.
Mi apparse subito intelligente, leggeva di sicuro i giornali, sapeva benissimo chi fossi e sapeva anche che ero un gran testa di cazzo con un aspirapolvere al posto del naso, soprattutto secondo i giornali scandalistici, e questo la metteva in guardia, lo sentivo. Era intrigata da ciò che ero, la rockstar del momento, ma i miei problemi con le droghe e i superalcolici la intimorivano, la mettevano in guardia: avrei potuto trascinarla a fondo con me, temeva. Proprio per questi motivi dovetti faticare un po’ per conquistarla, cambiai addirittura marca di sigarette per lei! Addio alle mie amate Benson & Edges… ma il gioco valeva la candela ed ero contento lo stesso, anche se stavo soffrendo come un cane a causa di quel brutto periodo. Non riuscii a nasconderglielo a lungo, ben presto dovetti parlarle del mio problema e dei miei sforzi per superarlo e lei si offrì di aiutarmi. Venne addirittura a passare un po’ di tempo nella mia casa ad Ibiza per controllarmi e assicurarsi che non toccassi niente. E così fu, ma il mio corpo non era d’accordo, voleva anche solo mezzo grammo di qualsiasi cosa e me lo faceva capire facendomi stare sempre più male. Prima di conoscerla cercavo di tenere il problema sotto controllo fumando erba o ingoiando tranquillanti, per placare gli attacchi causati dall’astinenza dalla cocaina, quando diventavano davvero forti. Ma Sara comprensibilmente non era d’accordo con i miei metodi: se dovevo disintossicarmi dovevo restare completamente pulito, sempre. Ciò comportava che stessi molto ma molto male: ai sudori freddi notturni si aggiunsero anche le sempre più frequenti crisi di panico. Spesso mi svegliavo nel cuore della notte, improvvisamente, con la terribile sensazione di soffocamento, il cuore che martellava nel petto e un senso di disorientamento. Per fortuna in quelle occasioni c’era Sara lì con me a calmarmi o semplicemente a starmi vicino finché non fosse sparito l’attacco. Erano uno più terribile dell’altro, più andavo avanti più il mio corpo si ribellava, lottava contro di me reclamando una qualsiasi sostanza stupefacente che lo placasse. Credevo di non farcela, qualche volta pensavo che sarei morto andando avanti così. Qualche volta ero quasi tentato di mandarla via, di arrendermi, ma Sara faceva del suo meglio per tenermi tranquillo. Si occupava di me, delle mie medicine per gli attacchi di panico, si assicurava che rimanessi pulito. Dal momento che non volevo finire in una fottuta clinica di disintossicazione feci del mio meglio per uscire da quella spirale. E poi glielo dovevo. Rimasi pulito per qualche giorno, poi i giorni diventarono settimane, mesi. Non appena mi sentii abbastanza pronto tornai a Londra per continuare con la mia terapia, ma non ritornai alla Supernova Heights, o meglio, non restavo lì molto a lungo: temevo che i problemi con Meg avessero potuto farmi ricadere nei miei vecchi vizi contro cui stavo lottando. Passarono alcuni mesi: la pancia di Meg cresceva ma i miei sentimenti per lei andavano svanendo; stava diventando un’estranea nonostante stesse per rendermi padre. D’altra parte il mio amore per Sara andava a intensificarsi, sentivo che avrei passato il resto dei miei giorni con lei.
Arrivò il grande giorno: una telefonata dall’ospedale mi avvisò che Anais stava per nascere. Presi il primo taxi che riuscii a fermare e mi diressi sul posto. Durate il tragitto mi accorsi che stavo tamburellando i polpastrelli sul ginocchio: ero nervoso, anche spaventato in un certo senso. Non era la tipica ansia da neo papà, piuttosto la paura di fallire, di ricadere in quella spirale qualora si fossero presentate delle difficoltà. Che padre sarei se ricominciassi a sniffare? Come potrei proteggerla se non riesco nemmeno a badare a me stesso? Queste domande mi tormentavano, avrei giurato di stare per avere un attacco di panico mentre mi dirigevo nella stanza d’ospedale di Meg, ma non appena vidi la mia bambina dimenticai tute quelle domande, i timori svanirono. Lei era lì, tra le braccia della sua mamma. Su insistenza di Meg la presi tra le braccia. Era un esserino minuscolo e delicato, un piccolo angioletto biondo. –Da chi avrà preso i capelli biondi? Da suo zio?- dissi sorpreso. Sorpreso e felice. Ero l’uomo più felice del mondo e in quei minuti tutti i timori che mi attanagliavano sparirono lasciando spazio all’esultanza.
Ero molto felice ma anche abbastanza preoccupato: non ero ancora sicuro di essermi disintossicato completamente. Sì, ero pulito da diversi mesi però avevo ancora paura di ricaderci, se non altro perché l’avevo già fatto. Sara mi diceva di non preoccuparmi, che ero forte e che non ci sarei ricaduto come un coglione. Non usò esattamente queste parole, ma il senso era quello. Aveva ragione: finalmente non ero più schiavo della droga e soprattutto ero tornato ad essere il padrone del mio corpo. Per la prima volta in dieci anni mi sentivo davvero in forma, riuscivo a dormire senza farmaci e ricominciai a fare sogni; avevo perfino dimenticato cosa fossero. Mi sentivo bene, rinato.
 Da quando ero diventato padre io e Sara decidemmo di prenderci una pausa. Ero sempre più felice di passare del tempo con Anais, mentre con sua madre le cose andavano sempre peggio. Nonostante passassimo poco tempo insieme non facevamo altro che litigare: sembravamo due cani da combattimento. La mia relazione con Meg non poteva più andare avanti, così divorziammo. Nessun rimpianto, solo un po’ di dispiacere per Anais che a nemmeno un anno di vita si ritrovava a vivere con dei genitori divisi. Con Sara cominciai una storia molto più stabile e duratura. Andammo a vivere insieme a Londra. Abbiamo vissuto giorni uno più felice dell’altro, mi ha regalato attimi indimenticabili e due figli meravigliosi. Il significato della mia vita è lei, ne sono sicuro. Ora e per sempre.
Lei è ancora tra le mie braccia quando con un battito di ciglia ritorno a guardarla con gli occhi del quarantaquattrenne vissuto quale sono. Mi scruta incuriosita e felice. –A cosa stavi pensando?- mi chiede sorridente; io sorrido e la bacio, a lungo, poi stacco le mie labbra dalle sue, la guardo amorevolmente negli occhi e le sussurro:-Che ti amo.-.
  
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