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Autore: Elos    18/03/2012    8 recensioni
La guerra è finita. Mentre il Mondo Magico cerca di rimettersi in piedi dopo cinque anni di battaglie e morti, i sopravvissuti sono lasciati a convivere con il peso di tutte le cose che sono andate irrimediabilmente perdute.
Da Londra ad Hogwarts, ha inizio un viaggio attraverso lo spazio e la memoria per rimettere insieme i pezzi di una storia d'amore mai iniziata.
Prima classificata all'[Auror Contest]Rabbits on the run indetto da patronustrip.
Genere: Drammatico, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Luna Lovegood, Ron Weasley, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Undici giorni verso Hogwarts' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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7. flicker of radiance
02.07
11:25:41 A.M.


“Sei sicuro di non volere un passaggio fino ad Edimburgo, figliolo?” Gli occhi del vecchio si fissarono per un attimo nei suoi ed Harry non ebbe quasi bisogno della Legilimanzia per leggervi dentro una punta di ansia, due di incertezza, un po' d'umanissima curiosità e molta compassione. Il vecchio non sapeva bene chi lui fosse, ma lo vedeva giovane, lo vedeva zoppo. Non se la sentiva di abbandonarlo in mezzo ad una strada. “Potrei accompagnarti fin lì. Non c'è da allungare poi tanto, per me...”
Considerando che Glasgow – dove il vecchio era diretto – era nella direzione opposta, pensò Harry, doveva essere proprio un brav'uomo. Una brava persona, una di quella per le quali ne sarebbe valsa la pena di restare morti sul selciato di Diagon Alley. L'aveva caricato senza fargli domande, e dopo cinque anni durante i quali i Mangiamorte avevano portato avanti i loro piccoli massacri su e giù per la Gran Bretagna, senza troppa cura dello Statuto di Segretezza, caricarsi in macchina uno sconosciuto era uno sfoggio di fiducia notevole. L'aveva portato fin lì. Gli aveva anche offerto un po' del caffè lungo che aveva con sé, conservato in un piccolo thermos di plastica: Harry, che non aveva mandato giù nulla dalla sera prima, ne aveva preso un lungo sorso, ricco e zuccherato e ancora tiepido, e gli era sembrata la cosa migliore del mondo.
Il vecchio era una brava persona, ed aveva ancora tanta strada da fare.
Harry scosse la testa.
“Mi ha risparmiato una bella camminata,” gli disse. “Se non fosse per lei, starei ancora cercando di raggiungere Jedburgh.”
Il vecchio scosse la testa, dubbioso:
“Con quella gamba non dovresti fare troppi sforzi, figliolo.”
Harry riuscì persino a sorridergli:
“Sono quasi arrivato.”
“Da dov'è che vieni, poi?”
“Da Londra. Sono partito da Londra.”
Il vecchio emise un basso fischio di stupore, gli occhi sgranati, prima di inclinare il capo da una parte e adocchiarlo con vago sospetto:
“Devi aver fatto un giro ben strano, figliolo, per esserti trovato a passare da queste parti.”
Harry controllò le cinghie dello zaino, per assicurarsi di averle chiuse bene, dandosi del tempo prima di rispondere quietamente:
“Non ho fretta di arrivare.”
“Sei in vacanza, figliolo?”
Harry esitò:
“Una specie.”
Gli occhi del vecchio parvero farsi più acuti: Harry vi lesse dietro tutto una vena di pensieri cauti e prudenti, certo, ma più profondi e più forti erano quelli che riguardavano lui stesso, quelli inondati di pena e di preoccupazione per un perfetto sconosciuto. Si vide di nuovo attraverso gli occhi dell'uomo, un ragazzo pallido e troppo magro, troppo basso, tanto da sembrare ancora adolescente. Si vide zoppicare su quel tratto in salita poco prima di Jedburgh dove il vecchio se l'era stato caricato in macchina.
Harry pensò che avrebbe dovuto ringraziare in fretta, scendere dall'auto ed allontanarsi alla svelta, prima di causare altre domande inopportune: ma le persone che si erano attivamente preoccupate per la sua salute erano state, nel corso della sua vita, tanto poche da poter essere contate sulla punta delle dita. Non se la sentiva di respingerne una, così, adesso.
“Ho degli amici che mi aspettano dopo Aberdeen,” spiegò al vecchio, gentilmente. “Vado a fare una visita alla mia vecchia scuola.”
Il viso dell'uomo parve rasserenarsi istantaneamente:
“Capisco, capisco. Un saluto ai vecchi tempi prima di incominciare un lavoro nuovo, eh?”
Harry non aveva un lavoro, e forse non ne avrebbe avuto mai uno: tutti avrebbero avuto paura di lui, pensò, perché aveva in petto il grumo di potere che era stato di Voldemort, perché l'aveva sconfitto, perché era morto e rinato. Perché aveva aperto un cratere in Diagon Alley. L'avrebbero tenuto a distanza. L'avrebbero accusato delle cose che erano andate storte – perché non aveva vinto prima, perché non aveva fatto abbastanza in fretta, perché non li aveva salvati tutti.
Non c'era un lavoro nuovo ad aspettarlo, ma forse un pezzo di vita sì. Vita sua. Avrebbe sempre avuto un anima in due parti, ma forse poteva vivere anche così. Forse poteva andarsene lontano, lontanissimo, in un posto dove non avrebbe avuto più importanza.
“Qualcosa del genere,” replicò. Protese la mano verso il vecchio, dopo un attimo di esitazione, affermando con un tono carico della più assoluta sincerità: “Grazie di tutto.”
Il vecchio gliela strinse:
“Siamo tutti su questa terra per aiutarci, figliolo. Se non lo facciamo noi, chi altri?”

Fermo sul ciglio della strada, Harry aspettò che il vecchio rimettesse in moto, prima di alzare la mano e salutarlo. Vide gli occhi dell'uomo fissarlo attraverso lo specchietto, il suo viso piegarsi in un sorriso. Se non noi, chi altri?
La strada verso nord si stendeva attraverso una distesa d'erba verde pallido dove i soffioni si schiudevano come minuscole nuvole bianche; laddove i fiori erano ancora aperti li si vedeva sparpagliati a manciate, di un giallo vivissimo e umile, sempre più fitti nella direzione delle colline. Ai bordi della strada un ciuffo di papaveri ondeggiava al vento, i petali delicati aggrappati allo stelo con tutte le loro forze per non farsi trascinare via: badando bene a non calpestarlo, Harry scavalcò la barriera e si incamminò verso nord.
C'era tanta strada da fare, ancora, prima di arrivare ad Hogwarts.



Per tutto il giorno cercò di procedere in linea retta verso nord: tenne il sole alla sua sinistra finché non fu all'apice, poi si fermò, riprese fiato. All'ombra di un alto frassino, tirò fuori dallo zaino una scatola di tonno e fagioli, l'aprì con un sasso e ne svuotò metodicamente il contenuto, usando un dito, alla fine, per ripulire il fondo dalla salsa. Non riuscì a riempircisi lo stomaco, ma stava ancora razionando le sterline rimastegli, e le provviste d'emergenza che era riuscito a ficcare nello zaino dopo aver fatto spese a Newcastle avrebbero dovuto durargli fino ad Edimburgo.
Per un attimo pensò alla sua camera blindata alla Gringott, traboccante di monete d'oro e d'argento che si potevano spendere al Paiolo Magico, dove Tom gli avrebbe riempito fino all'orlo una ciotola di stufato di carne ed Harry avrebbe potuto mangiare fino ad averne la nausea. Pensò che i Galeoni si potevano convertire in sterline, e con le sterline si poteva entrare in un supermercato e svuotare gli scaffali. Pensò alle cucine di Hogwarts, e il ricordo del banchetto di inizio anno gli fece gorgogliare lo stomaco.
Ma per entrare alla Gringott avrebbe dovuto attraversare Diagon Alley – ed Harry ancora non voleva doverlo fare, quello – e ad Hogwarts ci stava andando, davvero. Si avvicinava un po' alla volta. Quando camminava si sentiva meno vuoto, il grumo dentro di lui era meno nero, meno denso. Respirare era più facile. Camminare era una cosa da Babbani, una cosa da Harry, nulla che Voldemort avrebbe mai fatto: Voldemort si sarebbe Smaterializzato dritto dritto ai margini della Foresta Proibita o non si sarebbe mosso affatto, non attraverso tutta l'Inghilterra, da un cimitero all'altro, solo per andare a salutare i morti.
Il pomeriggio Harry lo trascorse cercando di tenere il sole alla sua destra. Provò a muoversi diritto, a non fare deviazioni, scavalcando bassi muretti di pietra grigia e saltando oltre i piccoli, stretti ruscelli che tagliavano i prati per non rischiare di perdere l'orientamento.
Le Morfoot Hills si alzarono davanti a lui a metà pomeriggio. Il vecchio l'aveva lasciato dalle parti di Peebles, ed Harry aveva pensato che, tenendo un buon passo e senza troppe soste, avrebbe potuto arrivare a Peniculk in giornata: ma doveva essere finito leggermente fuori strada, perché – apparentemente – per andare a nord ora doveva tagliare dritto attraverso le colline. Il piano originale prevedeva che lui le aggirasse, che prendesse la strada facile, tutta in pianura. Le Morfoot Hills non erano montagne, non erano ripide, i sentieri erano bianchi viottoli di pietre tutto sommato in buono stato; ma la gamba danneggiata gli doleva, la schiena gli faceva male. Certe volte respirava e gli sembrava che a venire giù insieme al fiato ci fosse del fuoco, della brace.
Dovette fare una sosta verso le due del pomeriggio, una poco dopo le quattro; da quel momento in poi divenne una specie di ritmo, mezz'ora, una pausa, mezz'ora, una pausa. Controllava spesso la mappa della zona – ne aveva presa una ad Otterbum, dove il pullman aveva fatto sosta – ma era una mappa da turista, grossolana, con poche indicazioni scarne tutte concentrate attorno alle strade principali.
I giorni dell'estate inglese erano lunghissimi, come dilatati, con il sole che si allargava all'orizzonte e diveniva un ovale di fuoco rosso prima di scomparire dall'altra parte delle colline tra la spuma delle nuvole calde; approfittando delle ore di luce, Harry riuscì a risalire fino alla cima di una delle colline, a scendere giù per la vallata e a riprendere il cammino sul fianco di un'altra prima che facesse buio. Mentre il crepuscolo allungava ombre sempre più lunghe da ovest ad est, l'erba come un manto di velluto verde scuro sotto i suoi passi, Harry raggiunse nuovamente il punto più alto del sentiero e lì, ansante, si fermò.
Nel tramonto le colline ai suoi piedi erano un mare tutto pallidi soffioni e denti di leone dal colore d'oro polveroso, l'erba nel sole, come in fiamme, drappeggiata sopra di esse in un basso, folto manto. C'erano pochi alberi, pochi cespugli; i sentieri erano intervallati da lastre grigie che riportavano l'altitudine ed altri piccoli numeri che Harry non riuscì a decifrare. C'era una tana di talpa a pochi passi da lui, tutta montagnette di terra franata e friabile alzate nel mezzo della liscia distesa erbosa.
Non ce l'avrebbe mai fatta ad arrivare a Peniculk, men che meno ad Edimburgo, prima che facesse buio; proprio mentre lo pensava l'ultima fetta di sole scivolò oltre l'orizzonte e l'oro delle nuvole prese a tingersi di porpora. Attorno a sé Harry non riusciva a vedere niente che non fossero prati e fiori ed un cielo rosato troppo umido per essere veramente limpido. Faceva ancora caldo – ma, ora che il sole era scomparso ai piedi delle colline, la temperatura sarebbe scesa in fretta. Lì non c'erano case in vista, nessuna chiesa vuota nella quale trascorrere la notte.
Harry prese in considerazione l'ipotesi di Smaterializzarsi e, di nuovo, la respinse.
Uno stormo di anatre passò a volo radente proprio sulla sua testa. Harry le osservò dirigersi verso sud, le loro ali screziate di verde splendente, ed aspettò che fossero scomparse ai piedi della collina prima di sedersi per terra.
Dallo zaino estrasse tutte le maglie che poté, la sua felpa pesante, il cappotto, perché presto avrebbe fatto molto freddo, lassù. Aveva dei fiammiferi in una tasca dello zaino: erano vecchi, vecchissimi cerini, probabilmente qualcosa che aveva sgraffignato ai Dursley. Considerò la possibilità di accendere un fuoco, ma non c'era nessuna legna da usare ed anche troppe esche a disposizione. Sarebbe stato sgradevole causare un incendio proprio sulla cima delle Morfoot, con tutta quell'erba ben asciutta...
Prima che diventasse troppo buio per poter vedere quel che faceva, aprì un altro barattolo di fagioli. Il cucchiaio era ancora un po' appiccicoso, dopo averlo usato quella mattina, ed era la terza porzione di tonno e fagioli in due giorni, ma lui aveva fame, la camminata era stata lunga. Di nuovo, usò le dita per ripulire anche il fondo della scatola, leccandosi i polpastrelli per essere sicuro di aver finito tutto.
I tramonti della Gran Bretagna erano infiniti, ma il crepuscolo durava solo un attimo. Quando Harry ripose nello zaino la scatola tristemente vuota, il cielo aveva già assunto una sfumatura di blu profondissima: c'erano ancora linee pallide verso ovest, ma ad est l'orizzonte era nero, uniforme, vellutato. Le stelle erano come manciate di cristalli sparpagliati sopra la sua testa, e ce n'erano tantissime, innumerevoli. La luna pallida tingeva d'argento la base delle colline.
Si vedeva la strada, in lontananza, e le luci intermittenti delle macchine di passaggio, e più in basso ancora si scorgeva qualche casa, qualche lampione: ma il mondo lì in alto era nero e blu e argento. Harry ricordò il soffitto della Sala Grande durante la cena e sollevò una mano verso il cielo. Aveva l'impressione, se avesse stretto le dita, di poter serrare una manciata di stelle nel palmo.
Era stanco, stanchissimo. Si prese un attimo per controllare di avere la bacchetta ancora nascosta nella manica destra, al sicuro e pronta ad essere impugnata in un attimo se ci fossero stati problemi, e poi rotolò su un fianco: sotto al peso confortante della giacca e dei maglioni non faceva poi così freddo, e in nessun riparo, in nessuna casa, avrebbe mai avuto una vista come quella che si aveva da lì.
Chiuse gli occhi, sognò.
Nel sogno vide Hogwarts e vide la torre, vide il sole d'oro dietro le vetrate: e sul vetro di tutte le finestre si stagliava la sagoma di una ragazza dal collo sottile e dal naso diritto e dai capelli ricci, ricci, ricci.



Si sveglia, e non saprebbe dire perché si è svegliato. Aprendo gli occhi si trova davanti solo il cielo nero e una fetta di luna più alta verso nord: devono essere passate molte ore dal momento in cui si è addormentato, ma ha ancora sonno, è ancora buio. E' sul punto di rotolare sull'altro fianco e tornare a dormire, quando lo attraversa l'improvvisa, fulminante consapevolezza che a svegliarlo è stata quella parte di lui che ha contribuito a tenerlo vivo ed integro negli anni della guerra, quando i Mangiamorte erano sulle sue tracce e tutta l'Inghilterra pareva un unico, sterminato terreno di caccia che non conosceva stagioni di chiusura.
Scivola in ginocchio senza quasi accorgersene: la gamba debole protesta per la posizione, ma tutti i suoi nervi sono svegli e in allerta, adesso, tesi a cogliere i cambiamenti.
Respira profondamente – c'è una strana qualità di silenzio, quella che è il preludio alle peggiori situazioni. Aguzza le orecchie, e la bacchetta gli compare in mano come per magia; Harry fa per alzarla, per puntarla avanti a sé.
E poi sente le grida.
Sono grida attutite: paiono provenire da un luogo infinitamente distante, dal sottosuolo, da un altro mondo. E' una donna a gridare, e la sua voce rotta dall'orrore strappa ad Harry un gemito e un brivido: l'ha sentita tante e tante e tante volte, quella voce, quando era ragazzo e poi durante gli anni della guerra, ed è l'unico vero ricordo che conserva di sua madre.
Lily Evans Potter prega Voldemort di non far del male ad Harry, non a lui, non a lui, per piacere, di prendere lei, di uccidere lei, non il bambino. Harry la sente implorare e piangere, sente Voldemort ridere. Nel buio di una notte fattasi improvvisamente gelida e pesta, esclama:
Expecto Patronum!”
Il cervo bianchissimo scaturisce dalla punta della sua bacchetta in un fiume di luce: galoppa in circolo attorno a lui e, rischiarate dal suo chiarore, Harry finalmente le vede – l'orlo dei mantelli neri sospeso appena al di sopra dell'erba bassa – le sagome da incubo nero dei Dissennatori. Il cuore gli balza in gola per il terrore e l'orrore, e quasi avrebbe preferito non vederle, perché ce ne sono tante, tantissime, una marea di fantasmi più bui del buio, un circolo di terrore che porta con sé il panico e il gelo e il ricordo di tutti i momenti privi di luce. Dissennatori. Decine, centinaia di Dissennatori.
Stridono quando il Patronus passa in mezzo a loro, caricandoli, e si disperdono in fuga in tutte le direzioni: ma poi ritornano, riformano il circolo, e stringono Harry nel centro. La morte di Voldemort deve averli delusi, pensa lui confusamente, deve averli lasciati senza nessuno da seguire, senza il premio promesso loro – la libertà di fare quel che avrebbero voluto con gli sconfitti, di divorarne l'anima e la gioia. L'Ordine ne ha distrutti molti a Diagon Alley, durante l'ultima battaglia, ma tutti gli altri devono essere qui, adesso. Forse cercano vendetta. Forse è il grumo nero in Harry ad attirarli: è un pensiero orribile, ma i Dissennatori hanno seguito Voldemort per il potere, per la magia, e adesso tutto quel che Voldemort è stato è passato in Harry.
Lui cerca di mettersi in piedi. Uno dei Dissennatori allunga una mano viscida e ossuta per cercare d'afferrarlo ed Harry gli punta la bacchetta contro:
RESPICIO!”
Un lampo di luce viola e il Dissennatore si allontana. Un altro prende il suo posto e di nuovo Harry lo respinge. Il Patronus gli galoppa accanto. Per un attimo la voce di Lily si stempera e si spegne, ma quando il Patronus passa oltre ad emergere dal silenzio è il suono ovattato di urla ed esplosioni ed il rumore soffice di un corpo che cade per terra.
Harry boccheggia.
“No!”
Nella sua testa, gridano tutti. Ron urla dal fondo della strada ed Hermione sta correndo verso Harry, verso Voldemort: sdraiato sul selciato, il respiro ancora mozzo e la testa che gli gira dopo la sua non-del-tutto-morte, Harry la vede rovesciata nel suo campo visivo, vede i suoi capelli ondeggiare e la sua espressione disperata e sconvolta. Non vede Peter Minus fino a quando non è troppo tardi – e poi c'è quell'aurora verde che riempie Diagon Alley, Hermione che si mette tra lui e Peter, tra lui e l'aurora, e che poi cade.
“No...” bisbiglia ancora Harry. Ha cercato di alzarsi in piedi, ma adesso si ritrova in ginocchio. Sente i Dissennatori accalcarsi attorno a lui, stringersi, nutrendosi del suo dolore e della sua disperazione, del suono sordo del corpo di Hermione che crolla sul selciato e che non respira più, non ha respirato più, dopo.
Non ci sarà più nessuna Hermione su questa terra, più nessuna ragazza dai capelli ricci a tenergli la mano nel buio, come una fiaccola, una luce, più splendente del Lumos. Nessuna Hermione che sapeva tutto, curiosa ed entusiasta ed amabile, nessuna Hermione magnifica e meravigliosa a coprirgli le spalle, e la terra sembra così fredda, adesso, così vuota.
Hermione non c'è più. Anche la speranza sembra essersene andata.
Di nuovo Diagon Alley, di nuovo Hermione corre verso di lui e di nuovo Harry la vede, nel suo mondo alla rovescia, barcollare e cadere. No, no, no, pensa, e vorrebbe dirlo, ma gli manca la voce.
I Dissennatori sono troppi. Sono così vicini che adesso ne sente l'odore sulla pelle. Il cervo bianco scintilla in un angolo del suo campo visivo, affievolendosi, scalcia un'ultima volta nel mezzo del mucchio di ombre e poi scompare.
Respicio...” ansima Harry. “Respicio!”
Tutto il potere del grumo, tutto il suo, il loro potere, non basta a tenere lontani i Dissennatori se dietro non c'è volontà, non c'è energia. Tutta la volontà sembra essere morta con Hermione ed Harry non crede che si possa guarire da quello, non crede di poter tornare sano e integro e intatto com'era quando lei era viva e camminava su quella terra insieme a lui.
Diagon Alley. Hermione corre, corre. Barcolla e cade.
Colto dalla disperazione, Harry cerca di Smaterializzarsi: ma la sua testa è piena di Diagon Alley, solo Diagon Alley, nessun altro luogo dove andare, non ha più la forza di muoversi e spostarsi perché anche Diagon Alley è solo nella sua testa. Non può fuggire da sé stesso. Diagon Alley. Hermione cade, sta cadendo. Cade per colpa sua.
Il Dissenatore più vicino si china su di lui ed Harry vede il suo cappuccio sollevarsi, la sua bocca spalancarsi e per un attimo tutto quel che riesce a provare è sollievo: basta dolore, basta ricordi, basta tutto. Ci sarà Hermione ad aspettarlo, dall'altra parte, così come sua madre lo stava aspettando l'ultima volta, e ci saranno i prati di Hogwarts per loro e lui potrà dirle che l'amava, l'ha capito quand'era troppo tardi ma l'ha sempre, sempre, sempre amata, Hermione magnifica e meravigliosa, e il lago e il cielo...
Vivremo sotto a cieli color di lavanda, gli bisbiglia la voce di Luna in un orecchio.
Harry si trova con la bacchetta alzata contro il petto del Dissennatore che ha di fronte e non sa come c'è riuscito, non sa come ha fatto a riemergere: ma il suono di Hermione che cade lo riempie solo del desiderio rabbioso e disperato di vivere e di respirare, adesso, di respirare malgrado tutto, perché se lei è morta perché lui vivesse allora... allora morire così è uno spreco, morire così è... è un insulto, è...
Le grida di Diagon Alley ronzano come i suoni di una radio malamente sintonizzata ed Harry inspira e boccheggia – è come la prima sorsata d'aria dopo la Seconda Prova, ineguagliabile – e urla:
EXPECTO PATRONUM!”
Le corna del cervo travolgono il Dissennatore e questo si sbriciola al tocco come un castello di sabbia nera. Ramoso prende a galoppare attorno ad Harry ed è più splendente che mai, più bianco e più vivo della luna, chiarissimo come le stelle. La luce sembra restargli dietro in una scia, ed i Dissennatori arretrano, si disperdono, fuggono: Harry pensa a Sirius e alla notte in cui l'ha salvato accanto al lago di Hogwarts, e quando Sirius è morto anche quello è diventato un ricordo di orrore e dolore che gli ha lacerato l'anima. Ma Sirius gli aveva chiesto di venire a vivere con lui, Harry se lo ricorda. Gli aveva detto che voleva averlo in casa con sé, tenerlo come fosse un figlio, per amarlo come suo padre non poteva più fare. Ci sono troppe cose in quel ricordo, troppe sensazioni, e i Dissennatori sembrano non riuscire a far presa su di esso.
Harry stringe la bacchetta e si aggrappa al ricordo di Hermione. Il dolore gli spezza il cuore, è terribile e straziante e lui pensa per un attimo che sarebbe quasi meglio non aver vissuto per poterlo provare; ma poi, mentre i Dissennatori tornano a serrare le fila attorno a lui, guidati dalla sua disperazione, Harry si sforza di ricordare che le mani di Hermione portano la memoria del conforto, il sorriso di Hermione quella della speranza.
Ramoso carica a testa bassa nel mezzo delle ombre e tutto ad un tratto la luna è in terra, accecante, rischiara la cima delle Morfoot Hills come un lago di luce argentata.
I Dissennatori stridono ancora, cercano di allontanarsi: ma, quando la luce li investe, scompaiono uno dopo l'altro.
Nel buio improvviso che segue, ora quieto e privo di ombre da incubo, Harry sbatte le palpebre per cercare di schiarirsi la vista. Il cervo argentato è una macchia luminosa nella notte tornata sulle colline. Harry lo vede battere a terra lo zoccolo ed ha l'impressione di vedere una sagoma più piccola guizzare tra le zampe nervose e asciutte del maestoso animale, risalendo il vento come un pesce nell'acqua: e per un attimo, solo per un brevissimo, confuso attimo, giurerebbe che si tratti di una lontra.
“Hermione?” bisbiglia.
Ma dura solo un attimo: e poi, scompare.





Note del capitolo: La forma di questo capitolo è la narrazione al presente semplice: simile, concettualmente, al presente storico (o presente narrativo), è un escamotage piuttosto usato con il quale, scrivendo o raccontando, cerchiamo di avvicinare chi ci legge o chi ci ascolta alla scena in corso. La foto è tratta da qui, e il brano (che è il mio preferito dell'intero album) è Get Good.

Alzò la bacchetta, ma una sorda disperazione si era impadronita di lui: Fred non c'era più, Hagrid stava morendo, o forse era già morto; [...] La bacchetta gli tremava in mano, e accolse quasi con gioia l'oblio imminente, la promessa del nulla, dell'assenza di sensazioni... [...] "Forza" lo incoraggiò Luna, come se fosse ancora nella Stanza delle Necessità e quello fosse solo un allenamento dell'Esercito di Silente. "Forza, Harry... pensa a qualcosa di allegro..."
"Qualcosa di allegro?" ripeté lui, la voce spezzata.
"Siamo ancora qui" sussurrò lei, "stiamo ancora combattendo.[...]"

J.K.ROWLING, Harry Potter e i Doni della Morte, traduzione a cura di Beatrice Masini, Adriano Salani Editore, Milano, 2008, pp. 596-597


Quanti di voi non hanno pianto davanti a questo pezzo? Io (che sono notoriamente un cuor-di-frittella) ho letto le ultime 50 pagine del libro esibendomi nella passabile imitazione di una fontana, e in questo punto ho dovuto fare una pausa per andarmi a pulire gli occhiali. Senza, non vedo più in là della punta del mio naso - letteralmente.
Stiamo ancora combattendo. Cioé, Luna, sei mitica.

Di nuovo, vi chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione: ho avuto qualche difficoltà con il mio computer, e sto ancora cercando di risolverne alcune. Per tutti voi che state seguendo La strada sbagliata: l'aggiornamento è temporaneamente rimandato fino a quando non sarò in grado di scrivere il decimo (undicesimo, contando il Prologo) capitolo.
  
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