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Autore: Lilmon    26/04/2012    3 recensioni
-La conosci quella strana sensazione, quando guardi in alto, al cielo? Vertigini...-
Genere: Avventura, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I
Apocalisse

“C’è chi pensa che ogni tragedia sia in realtà solo il grado più infimo del bene”


Era un giorno come gli altri, nuvoloso e fresco. L'estate stava giungendo ormai al termine cedendo il proprio posto al variopinto autunno, in tutte le strade si potevano già notare alcune foglie che, abbandonando i propri rami, erano cadute in terra fluttuando dolcemente. I riccioli dorati di Samuel si agitavano vorticosamente in tutte le direzioni a causa della brezza che in cima al One Liberty Plaza quel giorno sembrava soffiare più potente che mai. Le sue dolci gote rosse erano rigate da alcune lacrime che, scaturite dai suoi occhi tutti arrossati, percorrevano il suo intero viso sino al mento per infine distaccarsi e precipitare in strada. Samuel poteva scorgere dal cornicione di quell'edificio tutte le auto, ammassarsi in file interminabili lungo la Liberty. Non badava minimamente a tutto quel trambusto, a tutti quei rumori disordinati, era in un mondo tutto suo, in un mondo in cui alla dura realtà non era concesso di entrare; un mondo fantastico dove le sofferenze della sua esistenza sembravano occupare un posto minimo, irrisorio, quasi nullo. Stava là, a braccia aperte, cercava di respirare con calma, cercava di placare l'inarrestabile battito del suo cuore, che pareva quasi voler uscire dal suo petto; ma non ci riusciva, singhiozzava e singhiozzava, ripensando a tutte le sue esperienze più brutte, a tutti i soprusi, rivalutando ogni minimo fatto accaduto durante la sua vita. Forti e violenti colpi provenivano dalla porta che, dalle scale, dava l'accesso al tetto dell'edificio. Come un ariete infuriato qualcosa, o piuttosto qualcuno, stava percuotendo il metallo verde del portoncino, bloccato da un tubo di ferro. Una voce stava urlando a squarcia gola -Samuel non farlo! Non farlo ti prego! Fermati!-.

Come ogni domenica sera era tornato dall'abitazione di suo padre; sceso dall'auto si era ritrovato di fronte a casa sua, una palazzina di tre piani nel Bronx. Il suo alloggio, dove viveva con la madre, era al piano terra, rialzato rispetto al suolo di tre o quattro metri. Samuel aveva sulle spalle uno zainetto dell'Eastpak rosso con delle macchie nere, contenenva i libri di scuola, sui quali il giorno precedente aveva sottolineato i concetti da memorizzare; un piccolo pupazzetto penzolava da una delle due cerniere che richiudevano la tasca principale. Nella mano destra portava un sacchettino di plastica bianca, in cui v'erano caramelle che quella stessa mattina la sua anziana nonna gli aveva regalato. Saliva così i quindici gradini di finto marmo bianco, fermandosi a metà per poter suonare il citofono. Premuto il pulsante, un suono sgradevole risuonò in tutto il condominio. Pochi secondi dopo dal citofono provenne una voce metallica che domandava -Chi è?-. Il ragazzo rispose -Sono io...-. Il cancelletto in cima alle scale si aprì improvvisamente e dalla porta, subito dietro ad esso, giunse un rumore meccanico. Sbloccata la serratura, una piccola donna sbucò dalla porta numero 1 che in quel momento si era aperta, mostrando una fessura sottile da cui proveniva una lama di luce giallastra. La donna disse -Ciao Sam-, ed il ragazzo, richiuso il cancelletto metallico alle proprie spalle, entrò in casa.
L'alloggio non era ampio, ma piuttosto piccolo, contava infatti solo sei stanze. La porta d'ingresso, in legno dipinto di un azzurrino spento, s'affacciava su un corridoio lungo una decina di metri. Esso concedeva d'accedere a cinque stanze. Le due stanze sul lato sinistro erano due camere da letto, mentre le due stanze sul lato destro erano un piccolissimo sgabuzzino ed un altrettanto ristretto bagno. Dall'ultima porta, al fondo del corridoio, si poteva sbucare in un piccolo salottino, che era tutt'uno con una microscopica cucinetta. Il ragazzo attraversò il corridoio, e svoltò a sinistra verso la sua camera da letto. Era ristretta, sulla sinistra un enorme armadio in legno scuro occupava poco meno di metà della stanza, sul fondo invece v'era una scrivania in castagno, con sopra una piccola televisione grigia. Il letto, ad una piazza, era a sinistra contro il muro bianco, su cui erano state attaccate centinaia di piccole stelle od altri strani adesivi fosforescenti. Infine dietro al letto una libreria in finto legno conteneva dozzine di libri e quaderni di scuola buttati alla rinfusa sugli scaffali.
Samuel lanciò lo zaino sul letto, si tolse le scarpe da ginnastica bianche e corse in salotto buttandosi sul divano blu. Alla sinistra d'esso, nel salotto v'erano una poltrona (anch'essa blu) ed un tavolino nero, su cui erano appoggiati vari attrezzi elettronici quali telecomandi e cellulari. Dietro a tutto ciò stavano tre librerie nere che, oltre ad offrire ricovero a vari volumi più o meno impolverati, conservavano vari CD o DVD. Di fronte al divano v'era un tavolo con quattro sedie, due credenze piene di bicchieri, piatti e posate ed un secondo mobiletto nero su cui stavano un grande televisore nero a schermo piatto, un modem per la linea internet e varie console munite ognuna dei propri joystick.
Il cuscino del divano era già quasi tutto completamente bagnato, quando sua madre si sedette al suo fianco, appoggiando la sua mano sinistra sulla schiena del figlio. -Ti ha detto ancora qualcosa?- chiese la donna tutta mesta e preoccupata. -Mamma, non ne voglio parlare!-. Lei rispose -Samuel..-, ma fu interrotta bruscamente dal ragazzino che, alzatosi di scatto, corse nella sua stanza richiudendo violentemente la porta; un tonfo echeggiò in tutta la casa, e solo due orecchie molto attente avrebbero potuto sentire il lieve sospiro che scaturì dalla bocca della donna.

Quel lunedì passò veloce. La mattina Samuel si alzò come ogni giorno, andò a scuola come ogni giorno, tornò a casa per mangiare come ogni giorno e passò il resto della giornata come ogni giorno. Ma qualcosa differiva da tutti gli altri giorni della sua vita, quel lunedì, quel preciso giorno, Samuel sentiva il suo cuore cedere, per la prima volta dopo 17 anni sentiva il suo cuore soffocato, intrappolato in una pressa mortale. Quella notte, coperto da uno spesso strato di coperte, il cuscino del ragazzo assorbì tutte le sue lacrime, come una spugna.

Così l'indomani, martedì, Samuel prese una decisione; Samuel saltò scuola, salì sul bus numero 113 ed in mezz'oretta fu dinanzi al grande grattacielo dove suo padre si recava a lavorare come capufficio di un'importante azienda di trasporti. Entrato attraverso le grandi porte di vetro limpido e rilucente, si ritrovò nel trafficato atrio della struttura. Il portiere lo riconobbe subito, sorpreso gli urlò un saluto e lo fece passare; Samuel camminava a testa bassa, non badando a niente, a nessuno. Premendo un bottoncino rosso, chiamò l'ascensore ed, apertesi le porte metalliche, entrò nella cabina. Salì sino al 26° piano, poi entrò in una porta e si ritrovò in un ufficio disordinato e pieno di impiegati. Una bella ed appariscente signora gli si avvicinò e gli disse -Ehi cosa ci fai qua Sam? Vuoi vedere tuo padre?-. Annuì. La segretaria lo accompagnò davanti ad una porta e l'aprì. Un uomo stava seduto su una poltrona di pelle nera, dietro ad una scrivania in noce. Era sulla cinquantina, alcuni capelli già bianchi al di sopra delle orecchie, aveva dei baffoni neri ed era vestito con un completo nero molto elegante. Nel taschino della giacca un fazzoletto rosso. Era indaffarato a spostare con la mano sinistra delle carte, nella destra un sigaro e la testa, premuta contro la spalla, gli permetteva di reggere la cornetta del telefono grazie alla quale stava parlando di affari con qualche suo socio. Rivolta un'occhiata veloce al figlio, riprese a guardare i documenti. Samuel si avvicinò lentamente alla scrivania del padre, quando fu in sua prossimità, sbattette violentemente entrambe le mani sui fogli che suo padre stava maneggiando. Il padre alzò gli occhi sbalordito, chiuse bruscamente la chiamata, scattò fulmineo in piedi ed urlò -Cosa credi di fare tu? Venire qua senza avvisare e piantare casino così? Ma come ti permetti? Io sto lavorando Samuel!-. -Stai zitto verme!-. L'ufficio intero s'era ammutolito, tutti guardavano quella singolare scena, la segretaria aveva persino la bocca spalancata.

-Samuel io questa volta giuro che...-, la voce del padre si spezzò contro le urla del figlio, come un fragile spillo contro un'incudine di metallo; -Devi stare zitto! Non ci sarà nessun'altra volta papà! Tu sei uno schifoso mostro, sì, sei tu il mostro, non io! Tratti male tutti, la mamma ti ha lasciato perché sei una persona deplorevole, insulti tua madre, insulti chiunque provi un qualunque minimo affetto per te! Papà tu ti vuoi isolare! Tu ti sei sempre isolato! Mi hai sempre trattato con freddezza; avere un figlio sembrava quasi più un peso per te, che non un piacere; tu non mi hai cresciuto, tu non mi hai amato, tu non hai mai fatto nulla che mi desse anche solo una qualche minima gioia. Tu mi odiavi già da bambino papà, io ero, e sono, il simbolo del tuo fallimento, del fallimento della tua vita. Quando hai scoperto che mi piacciono i ragazzi, le persone del mio stesso sesso, ti sono sembrato un mostro. Ma io sono fatto così, non potrai cambiarmi, mai; io sono fatto così, io sono nato così! Non me ne frega nulla della tua fottuta azienda, non me ne frega più nulla nemmeno di te! Odiami pure quanto vuoi! Tanto ormai hai rovinato la mia vita; tu sei un assassino papà. Sì, un assassino, ed ora commetterai il tuo primo omicidio-.
Detto questo il padre rispose infuriato -Ma cosa c'è di così sbagliato in te? Perché non sei normale? Perché devi fare queste stronzate?-. Ma Samuel era già corso via, scoppiando a piangere. Sentiva un fuoco dentro di sé, che bruciava ogni cosa, si sentiva immortale, capace di qualunque cosa. Prese le scale il più in fretta possibile, salì sin sul tetto, richiusa la porta la bloccò con un tubo di ferro, e corse verso il cornicione.

Stava là ormai da qualche minuto, immobile. Ripensava a tutta la sua vita, ripensava a tutte le brutte parole sentite da suo padre, suo padre. -Sei un mostro!-, -Sei sbagliato!-, -Mi fai schifo!-, -Tu non sei mio figlio!-. Si passò una mano sul volto umido. Prese un lungo respiro, i suoi polmoni si gonfiarono come non mai, sembravano due otri colmi di tutti i venti del mondo. Poi mosse un piede verso il vuoto. Tremava tutto, ma non aveva più paura, nessuna preoccupazione dilagava più nella sua stanca testa. Si sentiva alleggerito, si sentiva finalmente libero, avrebbe volato, si sarebbe librato in cielo, nel suo ultimo viaggio, verso l'infinito.

Tutto accadde in un attimo, erano circa le 9 meno qualche minuto. Qualcosa attraversò il cielo, rapido come un fulmine, quasi come un meteorite inarrestabile. L'aria vibrò violentemente ed il ragazzo perse l'equilibrio. Sentì un vuoto dentro di sé, si sentì perso, si sentì precipitare. Occhi spalancati, bocca aperta, ma nessun suono, nemmeno il più debole sussulto. Intanto un botto assordante risuonò in tutta la città, quasi un'esplosione gigantesca. Polvere, fuoco e fiamme dappertutto, sino al cielo, grigiastro, infinito. Quella mattina, martedì 11 settembre 2001, morirono nella città di New York 2995 persone per alcuni attentati terroristici. Una sola persona ebbe da questa catastrofe una salvezza: Samuel Berkeley si ritrovò sbalzato dall'esplosione al di qua del cornicione, sopra il tetto di cemento del One Liberty Plaza. Davanti ai suoi occhi, fiammeggiante, l'Inferno.
  
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