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Autore: Hikari93    01/06/2012    3 recensioni
[Seto X Jono]
«Ti va un’offerta di lavoro?»
«Cosa?» spalancai ridicolmente la bocca.
Lui scosse il capo. «L’avevo detto che avevi problemi di udito… ti serve un lavoro sì o no?»
La domanda era diretta e la risposta anche. Era indubbio che avessi bisogno di soldi. Il mio ultimo lavoro, ovvero consegnare i giornali, era finito nel momento esatto in cui avevo mandato in malora la maggior parte dei quotidiani, dato che ero caduto rovinosamente dalla bicicletta. Il mio ego mi diceva di rifiutare, ma quel minimo di coscienza mi consigliava di accettare. «Di che si tratta?» Sempre meglio informarsi, prima.
«Niente che ti ammazzerà Katsuya, lo scoprirai a tempo debito. Ma voglio una risposta adesso. Accetti?» Mi porse la mano.
Ci riflettei su, ma mi pareva di avere una sola possibilità, anziché due, almeno se volevo sopravvivere dignitosamente. Strinsi la mano al mio peggior nemico, preparandomi al peggio.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Joey Wheeler/Jounouchi Kazuya, Seto Kaiba
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6: Discorsetti illuminanti
 





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Okay, teoricamente era piuttosto semplice come cosa. Dovevo trovare il piccoletto, salutarlo affettuosamente, inscenare una normalissima chiacchierata e cercare di trarre quante più informazioni fosse possibile. Era un pallino fisso il mio, ormai, e la foto vista in camera di Seto non aveva fatto altro che accendere in me una curiosità ancora più grande.
Jonouchi, quando imparerai a farti gli affaracci tuoi e a non ficcare il naso nelle questioni altrui – specialmente di un certo soggetto di nostra conoscenza – allora sarà tutto perfetto.
Ma la mia coscienza, che mi ripeteva assiduamente di starmene al mio posto (mmm… sembrava quasi Seto, altro che la mia coscienza!), non capiva di trovarsi in presenza di un bravo ragazzo. E, come da copione, i bravi ragazzi aiutano sempre i cattivi ragazzi, magari con l’aiuto di qualche magico folletto. Sì, Mokuba era il magico folletto.
«Jonouchi… che cosa stai facendo?»
Per la serie: se Maometto non va alla montagna, allora sarà la montagna ad andare da Maometto. Eccola là: Mokuba si ergeva in tutto il suo metro e un mandarino marcio davanti a me, e mi stava squadrando dall’alto – che battuta! – in basso con occhi perplessi.
«Che c’è, non hai mai visto gente che pensa?» domandai con una punta di fastidio.
«Gente che pensa sì, ma proprio tu… no, non me lo aspettavo.» Scosse la testa, accentuando la sua scontata frase.
Tutti ripetitivi ‘sti Kaiba.
Pazienza, pazienza… chissà che tipo di incantesimo – no, mi ero superato, a un Seto fattucchiero sotto mentite spoglie, magari vestito da nonnina, o nonnino se preferiva, non ci avevo ancora pensato – era stato scagliato all’alba dei tempi in quella casa/palazzo/reggia. I presenti – esclusi i camerieri, quindi dire Seto e Mokuba era più che sufficiente – venivano uniformati tipo robot, tutti a seguire spasmodicamente le orme di mamma – o mammo? –  orso. Mammo Kaiba.
«Tralasciamo, mocciosetto, tralasciamo» concessi con una sventolata di mano, «c’è un’altra cosa che mi interessa sapere da te, adesso.»
«Che vuoi?»
A giudicare dall’espressione di Mokuba, il mio tono doveva essere stato troppo… ehm… troppo cattivello. E’ vero che avevo voluto provare a spaventarlo, ma quell’aria di timore, misto a “ahò, ma questo è uscito di matto!” mi fece pensare di non aver esattamente raggiunto il mio scopo. Oh, beh, poche chiacchiere e più fatti, meglio lasciar perdere.
«Non pensare a chissà cosa, tieni a freno la fantasia… ma ti va di parlare di te e tuo fratello?» buttai lì, e il suo viso confuso mi indusse a chiarirmi meglio: «che c’è di male, no? Poi io e te siamo amici, e anche io e tuo fratello lo siamo a modo nostro! Lui, però, è… boh, molto cinico, no… antip… ecco, è molto chiuso» di mentalità «per questo non chiedo direttamente a lui» conclusi sbrigativo, cercando di essere quanto più credibile possibile.
Ehi, era difficile trovare un aggettivo non vagamente offensivo per Seto Kaiba!
«E perché ti interessa?» mi domandò.
«Non vorrai costringermi a ripetere tutto quello che ho già detto, spero!»
«Ah» sospirò, «chiamale motivazioni quelle. Che vuoi sapere, su?»
Bravo Mokuba, bravo bambino.
Forse era meglio essere sinceri, mah… magari non troppo, giusto evitare di dire bugie non addentrandomi in ambiti che non avrei voluto tirare in ballo, ecco.
Prima, però, che potessi aprire bocca, Mokuba mi acchiappò per il braccio e mi trascinò con sé.
«Andiamo in salotto, almeno ci sediamo!»
Giusto! A casa Kaiba le cose andavano fatte con comodo, mica “alla pezzotta”! Parlare in piedi, puff, era superata come cosa! Se capitava per strada, tipo, non dubitavo che avrebbero tirato fuori da chissà dove una sedia portatile, smontabile e rimontabile in tre decimi di secondo senza un minimo margino di errore.
Qualcosa, forse la coscienza di cui sopra, mi stava accusando di essere troppo cattivo nonché lamentoso senza motivo, visto che quella di Mokuba era solo gentilezza.
No, Jonouchi, che cosa abbiamo detto prima, eh? Tu fai parte de buoni! Le considerazioni lasciale agli altri!
Arrivammo.
Come ogni altro anfratto della dimora dei monsignor Kaiba, anche il salotto rispondeva a tutti i canoni di esagerazione, bellezza, maestosità. Superlativa.
Mokuba si accomodò su una poltroncina di un rosso accesso – che, per chi fosse interessato, continuava a rispondere a tutti i canoni già nominati in precedenza – e, poggiata la guancia sul pugno chiuso, gesto degno di un Kaiba qual era, mi fissava, aspettando, immaginai, che parlassi, che chiedessi.
«Embé?» rimbeccò, infatti.
«Embé niente, no?» sbottai, guardandomi ancora intorno e fossilizzandomi alla vista del mastodontico lampadario in stile Reggia Versailles di Lady Oscar. Infine, la testa ancora girata alle mie spalle in direzione del tanto lussuoso oggetto, mi accomodai su un altro divanetto, di fronte a Mokuba.
Non avevo mai visto quella stanza: beh, non che avessi pensato di arrivare a vederle tutte in quelle due settimane scarse che avevamo di vacanza, era ovvio; inoltre, immischiarsi e arrischiarmi in quel dedalo di trappole e chissà che altro – come i già citati robot Drago Bianco occhi Blu – era l’ultimo dei miei pensieri.
«Mah, raccontami qualcosa di voi, qualsiasi cosa» proposi poi, distogliendo l’attenzione da qualsiasi altro pensiero.
Mokuba fece spallucce. «Non c’è niente da dire, siamo così come ci vedi.»
Accipicchia, allora la mia opinione sui Kaiba – su Seto – era destinata a rimanere di poco al di sotto del pessimo!
«Anzi no. Per me è così, per mio fratello non proprio. Tu non potresti capirlo.»
«Ah… io non potrei capirlo?» Bello passare da vittima a colpevole. «Perdonami, ma non ho notato tanti sforzi da parte del tuo fratellone…»
«Seto non è come pensi! Seto ha lavorato tanto per arrivare fino a questo punto. Giorno e notte, una fatica immane per un ragazzo della sua età!»
Calma, calma, non ci alteriamo.
Mamma mia, come andava in fiamme il piccolo Kaiba a una minima parola semi storta su suo fratello.
«Sarà come dici, ma permettimi un’osservazione: fatica fino a un certo punto e non nel senso fisico del termine. Lavorare sodo è un’altra cosa. Partire con la strada spianata è tutto un altro discorso. Sì, capisco, non si ottiene niente senza un po’ di impegno, però guadagnare una certa cifra quando si ha già un gruzzoletto da parte, come base, è più semplice che partire dalla polvere del salvadanaio» obiettai, forse alzando un po’ troppo la voce.
In effetti, quell’argomento mi stava abbastanza a cuore, vista la mia situazione familiare ed economica, che non era un granché, anzi.
«Tu non capisci!»
«E allora spiegami, è questo che sto aspettando» replicai.
Mokuba allora si guardò intorno, quasi volesse essere sicuro che non ci fosse nessuno oltre noi lì dentro – anche se dovevano esserci teleschermi dovunque per tener d’occhio che nemmeno gli acari disubbidissero al Sommo. Pareva voler dire qualcosa, lo capivo persino io – persona alquanto distratta e rimbambita – che c’era altro che voleva dirmi, quasi desiderasse confidarsi con qualcuno. Eh, beh, io ero proprio quel qualcuno.
«Mokuba, ho visto una foto in camera di Seto recentemente. Eravate voi due da piccoli» confessai infine. «Sembrava esserci un altro clima, ma forse mi sbaglio. E’ successo qualcosa che non so?»
In quel momento mi sentii molto un membro effettivo di casa Kaiba e la cosa mi fece uno strano effetto. Mah, da un lato non volevo ammettere di desiderare di conoscere quella faccenda e, nel caso ci fosse stato un qualsiasi problema, di volerlo risolvere, o almeno provarci. E poi, mi ero imposto di cercare di capire meglio Seto: quella foto non poteva essere qualcosa di falso e distorto; mi sembrava vera, lo era davvero. Avevo letto sul viso di Seto e Mokuba la stessa innocenza mia e di Shizuka, un’innocenza mista a dolore e sofferenza.
O forse stavo soltanto viaggiando troppo di fantasia, chissà.
«Jonouchi, perché vuoi saperlo?»
Decisi che era necessario essere sincero e schietto fin dall’inizio per ottenere qualcosa in cambio. Chiarezza in cambio di chiarezza, equo.
«Vedi, ho avuto una situazione familiare… particolare» accennai, non mi piaceva parlarne, evitavo di tirare fuori il discorso persino coi miei amici, figurarsi, «quindi… no, e poi sono sensibile a queste cose, nonché curioso di personaggi misteriosi come te e tuo fratello!» E la buttai sul ridere, incapace sia di andare avanti con la storia della mia vita che di continuare a essere troppo serio.
Mokuba abbassò la testa e fissò il pavimento. Aprì la bocca una prima volta ma non emise parola, infine si decise: «Jonouchi, mi prometti che non lo dirai a nessuno?»
Alzai simbolicamente le braccia al cielo. «Promesso.»
«Io e Seto…» cominciò titubante, «non siamo dei veri Kaiba, insomma, non figli di Gozaburo Kaiba.»
«Figli illegittimi?» scherzai, cercando di metterlo a suo agio – poteva sembrare strano per uno come me, visto come mi comportavo di solito, eppure diventava sempre più difficile gestire una situazione di tale tensione. Mokuba aveva stretto i pugni tanto che, a breve, secondo me si sarebbe fatto male.
«Figli adottivi, Jonouchi. E’ stato Seto a far sì che accadesse.»
E mi raccontò in breve cos’era accaduto a lui e a Seto ai tempi dell’orfanotrofio in cui erano cresciuti dopo la morte dei genitori, della loro sofferenza e della loro solitudine. Del disagio e del senso di inadeguatezza che il ritrovarsi in un luogo diverso con persone diverse e senza legami aveva portato in loro. Vidi chiaramente, poi, grande gioia ed entusiasmo, nonché fierezza, mentre Mokuba narrava del suo rapporto con Seto, di come questi lo difendesse dai bambini anche più grandi di lui stesso, di come sapesse sorridere prima e di come, secondo lui, sapeva ancora fare, solo che ci riusciva in modi alternativi.
Percepii il mio stesso legame con Shizuka. Anche la nostra era stata una situazione complicata, anche noi avevamo sofferto; mi sentii terribilmente vicino a Seto.
«Sai Mokuba, ho una sorellina anch’io. Si chiama Shizuka.»
«Davvero? Non l’ho mai vista!»
Sorrisi; il ricordo di mia sorella non solo mi metteva di ottimo umore, ma anche se fossi stato terribilmente arrabbiato, mi avrebbe messo subito a mio agio, facendomi raggiungere una fantastica calma interiore.
«Lei vive con nostra madre. Sai, quando i miei hanno divorziato ci hanno separati. Lei con nostra madre, io con nostro padre.»
Lui scattò in piedi. «Io… io senza Seto non ce l’avrei fatta, ne sono certo» mormorò. «Mi spiace, Jonouchi.»
Alzai le spalle, ormai… il passato apparteneva al passato, e lì doveva rimanere.
Guardai l’orologio: era proprio ora di sbrigarsi che la festicciola aspettava solo di essere preparata, e anche se non era sembrato avevamo perso un sacco di tempo. Inoltre, nonostante Mokuba fosse stato di un’onestà disarmante, io ancora non me la sentivo di parlare di mio padre; era un argomento, un capitolo della mia vita che preferivo tenere solo per me, per il momento. O comunque limitare di discuterlo, sia con me stesso che con altri.
«E’ tardi Mokuba, devo andare. Continueremo a parlare un altro giorno, se ti va. Ci vediamo più tardi, alla festa!»
«Mi raccomando, acqua in bocca» sussurrò lui, «se ci sente Seto è la fine.»
Poggiai un dito sulle labbra sorridenti, poi mi voltai, salutai con la mano e me ne andai, destinazione casa di Yugi.
C’erano molte cose da fare, parecchie da sistemare.
Mi avviai, perciò, svelto, desideroso anche di abbandonare almeno per un po’ la vista e la presenza opprimente di quelle mura che ogni giorno, man mano che scoprivo qualcosa su chi le abitava e comandava, diventavano più strette, diverse, più pensati e soffocanti.
Mi stavo accorgendo che Seto, checché se ne potesse dire, da un lato mi somigliava.
E non sapevo quanto la cosa mi piacesse o meno.
 
Scocciante, stancante e pure frustante, viste le ultime notizie, però il tempo trascorse molto velocemente e duramente tra una faccenda e l’altra.
Particolarmente memorabile la quasi caduta del Sig. Muto – Atem, salvatore universale, lo aveva afferrato giusto in tempo, supportato altrettanto prontamente da me e da Honda –, scivolato su un lago d’acqua generatosi dal rovesciamento del secchio a causa di una Mana che, arrivata prima con l’intenzione di dare un aiuto,  era inciampata in esso.
Nota Bene:era stato Yugi a lasciare il secchio lì, non io, come aveva subito accusato Honda.
In cucina si arrangiarono Otogi e Anzu.
Intimammo Mana, per il bene universale della somma cucina e anche dei mobili di casa Muto, a non muoversi dal divano su cui, visto che era ospite, l’avevamo gentilmente fatta accomodare. Mai che si stancasse, era un’ospite, diamine!
Le pulizie finite, le pietanze quasi pronte e presto pronte per essere servite a tavola.
Mancava solo qualcuno – tra cui Seto –, poi sarebbe stato tutto perfetto – tipica frase da favola, ma vabbé.
«Avete visto, ha cominciato anche a nevicare!» osservò Anzu, romantica.
«In perfetto pandan con il Natale» continuò Atem, piuttosto disinteressato ai cambiamenti climatici. Commentò tanto per commentare, in sostanza.
Poi il campanello suonò.
«Sono Seto e Mokuba» annunciò già Anzu, che ancora era persa a guardare fuori e, in particolare, a vedere i fiocchi di neve che cadevano.
Personalmente, non mi aspettavo che sarebbero venuti veramente…
«Su, vado io!» mi offrii volontario con fin troppo entusiasmo, cosa che stupì non poco i miei amici.
«Guarda che non vogliamo risse stasera, quindi tieni a bada i cazzotti, Jonouchi.»
Sventolai la mano in un gesto di noncuranza totale.
«Sta’ zitto, Honda.»
Bene, era ora. Se non fosse stato Seto a fare il primo passo – e potevo giurare sulla barba rifatta di Babbo Natale che lui non avrebbe nemmeno sollevato la scarpa da terra –, allora sarei stato io a mostrarmi – per davvero – più disponibile e meno arrogante – nei limiti: mica mi sarei fatto trattare a cane!
Sforzati Jonouchi! A differenza sua, non c’è niente che tu non possa fare, vedila così!
Sospirai silenziosamente per non farmi sentire, infine girai il pomello e aprii.
Sorrisi, sperando che sembrasse naturale. «Buonasera Seto, ti stavamo aspettando. Coraggio, entra pure!»

 
 
 
 
 
 




 








 
Ciao capitolo 7 di “Missione Convivenza”, sono mesi che provo a scriverti e finalmente sei nato – pure con molta facilità, la stessa che ha sempre distinto la stesura di questa storia.
Vabbé, scusate il ritardo! ^^”
E scusate pure gli errori e orrori che potrebbero esserci. Mi pareva brutto farvi aspettare ancora, e mi pareva ancora più brutto dire alla mia sensei di muoversi a betare il capitolo perché dovevo postarlo. Ù-ù
Ma penso che, più o meno, sia discretamente leggibile! XD
Grazie mille per aver letto, e se vi va lasciate pure un commento! (mi fa solo piacere! <3).
Grazie ancora! 

 

   
 
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