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Autore: Lady Snape    09/06/2012    1 recensioni
Un amico immaginario è spesso l'unica "persona" con la quale riusciamo a rapportarci davvero. E' il prodotto della nostra mente e lo immaginiamo come più ci piacerebbe fosse un nostro amico o magari come vorremmo essere noi stessi. E' una parte di noi, è intimamente legato a noi, vive dentro di noi e Riley vive dentro Spencer.
Nei meandri della sua mente sta scrivendo un diario.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spencer Reid
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Invidia

 

            Nei meandri della mente di Spencer c’è un po’ di polvere, almeno in questa zona. Raramente lo vedo rovistare tra questi schedari della sua memoria, tra quei ricordi sotto la voce ‘Papà’, per esempio. Ci sono eventi che non vuole rivivere in nessuna maniera. Spencer è fatto così. Eppure ho trovato della tenerezza infinita che lui, chissà perché, ha preferito relegare in scatoloni impolverati. Non capisco per quale ragione, ma è lui a decidere e io posso solo obbedire … più o meno.

            So per certo che leggere di Cecily e di quel momento speciale con lei, triste, ma pur sempre qualcosa di esclusivo, ha stuzzicato la fantasia di molti. Lo so, ha il suo fascino, ma no, non è come pensate. Passarono ancora molti anni prima che la rivedesse e no, non c’è stata nessuna tenerezza, solo invidia.

            E’ strano associare questo tipo di sentimento a Spencer, ma anche lui è soggetto a quelle cadute di stile che lo rendono decisamente umano. Avrà anche un’intelligenza fuori dal comune, ma, per certe questioni, è un ragazzo come tutti gli altri e questo piccolo dettaglio sono veramente in pochi a capirlo. Difficile accettare come un genio possa cadere in questa maniera così rovinosa, ma io trovo che sia un sistema efficace per mettere in ordine le  cose.

            Spencer era nell’FBI. Ce l’aveva fatta e tutti erano sicuri che ci sarebbe riuscito. Aveva qualche problema con la pistola. Non era molto bravo nell’utilizzarla, si impegnava, credeva di farlo bene, ma non gli riusciva come avrebbe voluto. Ogni esame di tiro era una specie di tortura, anche se alla fine la spuntava. Era entrato nell’Unità Analisi Comportamentale già da un anno. Era stato il migliore del suo corso e Jason Gideon lo aveva preso sotto la sua ala protettiva. Era nella sua squadra, capitanata da Aaron Hochner. Ormai viveva a Quantico ed era decisamente contento di come la sua vita fosse cambiata.    

            Ogni tanto tornava con la mente a certi momenti particolari del suo passato, ma se n’era fatto una ragione. La sua vita non era mai stata come quella degli altri ragazzi della sua età e, con la scelta lavorativa che aveva fatto, non lo sarebbe mai diventata.

Una sola cosa lo tormentava in quel periodo e non riusciva a decidere come fare; si trattava di andare a trovare sua madre in clinica; non riusciva a  guardarla in faccia ed era per questo che aveva scelto di scriverle ogni giorno, raccontarle della sua vita, di quello che faceva durante le sue giornate, dei libri che leggeva e dei casi a cui lavorava. Cercava di non tralasciare nulla per alleviare il senso di colpa che serpeggiava infido nei sotterranei della sua anima. Non era fiero di sé in questo caso, ma si era abituato anche a questo. Siamo capaci di abituarci a qualunque cosa, anche la peggiore.

             Capitava raramente a Las Vegas. Qualche volta doveva risolvere qualche piccola questione burocratica per sua madre o per la casa di famiglia che aveva deciso di affittare. Tutto ciò che una volta era al suo interno era finito in scatoloni pesanti che, a loro volta, erano stati lasciati in un deposito. Faceva del suo meglio per far in modo che tutto fosse conservato a dovere, magari per quando sua madre si fosse ripresa, anche solo un po’, magari per quando qualcuno avesse trovato una vera cura per la sua malattia. Aveva provato lui stesso, studiando Chimica, a cercare una combinazione per mitigare gli effetti di quel terribile flagello, ma non esisteva niente per poter risolvere un problema del genere. Tutto quello che aveva ricavato era la consapevolezza terribile della trasmissione genetica della schizofrenia, che, qualche anno dopo sarebbe emersa prepotente (la consapevolezza, non la malattia) e ogni mal di testa veniva associato all’insorgere della patologia.

Non voglio parlare di questo ora.

            Quel periodo era a Las Vegas, dicevo. Non prendeva mai giorni di ferie al lavoro, ma quell’anno decise che qualche giorno poteva concederselo. Ethan lo aveva chiamato, avrebbe passato un paio di settimane a casa dei suoi, quindi gli chiedeva di raggiungerlo, come ai vecchi tempi, esattamente come quando erano bambini. Spencer accettò immediatamente e ottenere il permesso per le ferie fu molto facile.

            Casa Cooper era rimasta esattamente come la ricordava. Non era stato spostato nulla, non era cambiato nessun mobile, ma le suppellettili sì. C’erano nuove fotografie nelle cornici sul caminetto, che si erano aggiunte a quelle che Spencer conosceva benissimo. Erano cambiati i cuscini del divano e c’era una nuova coperta patchwork posata sulla spalliera. La signora Cooper gli offrì un bicchiere di tè freddo alla pesca e passò un po’ di tempo a chiacchierare del più e del meno. Non mancarono le ormai famose statistiche di Spencer, sciorinate qui è là per le questioni più svariate, ma sotto sotto cominciò a covare un sentimento che si sforzava di ricacciare indietro. Era l’invidia per quella normalità a lui negata.

Invidiò il sorriso tranquillo della Signora Cooper, invidiò la serenità di Ethan quando scherzava con lei e invidiò quell’atmosfera familiare che aveva perso molto presto.

            La madre di Ethan li lasciò alle loro chiacchiere dopo qualche tempo. Disse che doveva aiutare Cecily con un vestito.

Lo scetticismo di Spencer riguardo l’affermazione della Signora Cooper portò Ethan a chiarire cosa stava succedendo in quella casa quel giorno. Sua madre era sembrata parecchio su di giri e non solo per la visita di Spencer, ma anche perché quella sera ci sarebbe stato il ballo di fine anno di Cecily. Come la migliore tradizione americana voleva, quella sera presso la scuola superiore del quartiere ci sarebbe stata la festa più attesa dell’anno, realizzata direttamente in palestra.

Spencer non era andato alla sua, come era chiaro. A dodici anni era decisamente fuori luogo recarsi in un posto dove la maggior parte dei ragazzi avrebbe ballato e si sarebbe lasciata andare ad effusioni nei bagni e, perché no, anche sui sedili posteriori delle auto nel parcheggio. Lui avrebbe fatto da tappezzeria sicuramente, nessuna lo aveva invitato e, dopo quello che gli era successo durante gli anni scolastici, preferiva non vivere sulla propria pelle cattiverie simili a quelle di Carrie nel film di Brian De Palma.

In quel momento si accorse quanti anni erano passati in realtà e calcolò velocemente l’età di Cecily. Molto spesso, quando si è a scuola, si tende a calcolare il passare del tempo grazie al cambio di classe, ai livelli di istruzione a cui si accede, mentre per Spencer questo non era mai stato possibile. Aveva saltato troppe classi quando era a scuola e all’università era tutto molto diverso, la sua vita era diversa. Aveva perso il contatto con delle realtà normali e Cecily lo avevano riportato con i piedi per terra.

Ripensò all’ultima volta che l’aveva vista e provò un certo imbarazzo per la situazione particolare che li aveva visti protagonisti e per la vergogna di non averla mai cercata, nemmeno per sapere come stesse, se fosse tutto a posto.

«Avrebbe potuto saltare uno o due anni di scuola.» esordì Ethan, quasi leggendo i suoi pensieri «Ha preferito non farlo. Penso che avesse troppo bene in mente quello che succede ad essere troppo diversi dagli altri.» e lanciò uno sguardo carico di comprensione per sé e per Spencer molto eloquente.

Già, essere speciale poteva essere scomodo, se non tragico, e in cuor suo Spencer pensò che la ragazza aveva fatto la scelta giusta. Era meglio vivere la propria vita normalmente, se era possibile. Ecco, lui pensava che, per quanto gli riguardava, era difficilissimo riuscirci, proprio per la sua natura troppo particolare e insolita dalla norma, ma Cecily era sempre stata diversa da lui, una vita normale poteva averla e lui voleva che l’avesse.

            Il mio racconto fin qui non fa presagire nulla di così forte e devastante per quel sentimento che è l’invidia. E’ vero, sembra tutto normale, tranquillo, carico di una consapevolezza che mai farebbe sorgere dal suo seno la bestia verde, quel serpente orribile e aggressivo, che manda in malora tutti i buoni sentimenti.

Eppure io non mi sbaglio e riguardando quei ricordi so che Spencer la provò.

            Avvenne più tardi. Con il suo amico si era perso in discorsi che non è importante rinvangare, riguardo alcuni dei suoi studi, riguardo l’ennesima laurea che aveva deciso di conseguire, quando il campanello della casa fu premuto da qualcuno. Ethan fu sollecito nell’aprire, sapendo già chi fosse dietro la porta.

Si trattava di James Wood, un ragazzo con la sindrome di Down che frequentava la stessa scuola di Cecily. Era in smoking e questo fu notato immediatamente da Spencer. La madre del ragazzo si accomodò insieme al figlio in salotto e Ethan fece le dovute presentazioni. La Signora Wood si ricordava di lui, Spencer Reid, e fece le classiche domande di rito, alle quali si risponde per pura gentilezza. Indubbiamente qualcosa non tornava a Spencer, ma i suoi dubbi per quella strana situazione e per quelle presenze in casa di Ethan furono dipanate da James stesso, che tenne molto a chiarire che era stato bravo a invitare per primo Cecily al ballo di fine anno e lo aveva fatto a settembre, quando l’anno scolastico era appena iniziato. Ecco, James era il cavaliere di Cecily. Il ragazzo giustificò il proprio invito dicendo che la ragazza era sempre stata gentile con lui e di conseguenza aveva scelto lei per quell’evento importante, anche se Cecily aveva chiarito fin da subito che ci sarebbero andati solo da amici, niente di più. Con rammarico James aveva accettato, ma era decisamente felice della sua impresa.

No, nemmeno in questo momento l’invidia lo colse; fu solo qualche minuto dopo, quando Cecily scese le scale di casa, con indosso il famoso vestito che era stato annunciato precedentemente da sua madre, che provò un brivido che non avrebbe mai ben identificato.

            Erano passati anni dall’ultima volta che l’aveva vista ed era stato già difficile sostituire l’immagine di una ragazzina con due codini storti sulla testa con quella di una quattordicenne dalle curve appena accennate e uno sguardo più adulto. Adesso era davvero strano convincersi che quella che aveva davanti era Cecily, ormai una donna, che quella che forse per qualche tempo aveva immaginato come una sorta di sorella minore fosse diventata altro, che non corrispondesse più a ciò che gli era caro ricordare. Si sentì avvampare improvvisamente e poi sì, invidiò terribilmente James.

Invidiò un ragazzo, considerato handicappato dagli standard della medicina, che era riuscito in qualcosa che lui, un ragazzo dal quoziente intellettivo superiore alla norma, non aveva mai nemmeno preso in considerazione.

Il suo intelletto vacillò per un po’, la classificazione sociale che aveva imparato nei suoi studi di sociologia e psicologia tremò per qualche minuto, confusa e disorientata. La bestia verde dell’invidia strisciò fredda e terribile nel suo animo e tagliò corto con quella scena, avvalendosi di una delle scuse più antiche del mondo, un impegno improvviso a quell’ora di sera, che nessuno, nemmeno James (ne era sicuro) presero per vero.

            Scappò, letteralmente. Non si voltò indietro, non chiese scusa per il suo comportamento e a malapena guardò Cecily. Si sentiva tradito da lei. Forse era una di quelle persone che aveva bisogno di prendersi cura di qualcuno più debole, che si trovasse in difficoltà per affermare il proprio io. Sì, lo pensò seriamente; pensò che Cecily fosse una persona che amasse circondarsi di gente che la ritenesse superiore per qualche sua caratteristica e che godesse di questo. La disprezzò e volle convincersi di pensare davvero quelle cose.

Spencer non poteva e non riusciva a trovare del marcio in James, perché conosceva fin troppo bene i limiti che la sua patologia cromosomica gli poneva davanti agli occhi, ma era sorpreso di quello che, nonostante tutto, era riuscito a ottenere, ma, no, lui non poteva essere cattivo, gli mancava la malizia per esserlo.

Era tutta colpa di Cecily. Era tutta colpa sua.

            La strada verso l’albergo finì troppo in fretta. I sentimenti contrastanti che provava lo avevano fatto camminare a passo svelto, molto più svelto di quello che avesse pensato, tanto che si era trovato quasi all’improvviso davanti al portone della struttura. Salì in camera senza salutare nessuno, perso com’era nelle sue elucubrazioni mentali.

Si lasciò cadere sul letto e rimirò il soffitto, dove faceva bella vista di sé una plafoniera in vetro satinato, con un motivo a spirali. Lo sguardo si appannò e due lacrime morirono sulla coperta. Che stupido che era per provare quel sentimento verso un ragazzo così! Che idiota a pensare certe cose di Cecily!

Si diede dello stupido più e più volte e comprese che quella era invidia. Ci mise un po’ di tempo a comprendere i suoi sentimenti, gli succedeva sempre. Dare un nome a quello che provava era veramente difficile per lui, ma quei sentimenti li provava, specie quando erano così devastanti da offuscargli la capacità di riflettere seriamente su quello che gli accadeva intorno e capire che i fatti non erano per niente tragici.

Nessuno aveva messo in atto un comportamento tale da danneggiare la vita altrui. Nessuno aveva danneggiato lui, almeno non intenzionalmente. Ma, allora, perché si sentiva derubato di qualcosa? Cosa credeva gli fosse stata sottratta?

Ci pensò a lungo e giunse a una risposta semplice quanto ingenua. La stabilità della famiglia Cooper era qualcosa sulla quale in un certo senso aveva sempre puntato. Non avendo qualcosa di simile per le mani nella sua vita, aveva assunto quella del suo amico come fosse la propria stabilità. Come un bambino voleva che niente cambiasse, che tutto rimanesse fedele a sé stesso, ma era assurdo chiedere a Cecily di non crescere, di restare quella bambina che aveva conosciuto lui. Ora tutto era diverso, tutto sarebbe cambiato ancora e lui non si sentiva pronto ad accettarlo. Invidiava chi rendeva possibile questo cambiamento e lo detestava perché lo tagliava fuori. Ormai lui non faceva più parte di quel meccanismo che aveva amato, forse non ne aveva mai fatto parte e si era illuso, aveva fantasticato su di esso e si era convinto che i suoi desideri fossero anche i desideri degli altri.

Si girò su un fianco e si pentì del suo comportamento imbecille. Avrebbe voluto chiedere scusa, ma non sapeva da che parte cominciare.

            Il giorno dopo lasciò Las Vegas. Dall’aeroporto telefonò Ethan e lo salutò. L’amico non accennò nulla sul suo comportamento della sera prima e lui chiuse nel profondo dei suoi ricordi anche quello legato a questo avvenimento. Lo infilò a forza nel cassetto di quei momenti imbarazzanti o difficili che non voleva tornassero alla memoria. Fece finta di niente, eppure il suo animo dovette guarire in silenzio da questa piccola cicatrice.

 

 

 

Nota dell’Autrice:

Associare dei sentimenti negativi a Spencer fa semrpe un certo effetto. Sembra quasi che per sua natura non possa essere “cattivo”, eppure è un essere umano come tutti noi. Mi piaceva questo contrasto e ho deciso che scrivere sull’invidia, tra l’altro uno dei peccati capitali, mi sembrava una buona idea.

Grazie a chi legge e segue questa storia!

 

Lady Snape

   
 
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