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Autore: Ryo13    25/09/2012    7 recensioni
Erin Knight ha un solo obiettivo nella sua vita: da quando ha perso lo zio Klaus, ucciso dall'uomo che amava, non vive che per trovare colui il quale possiede il potere complementare al suo, ovvero quello di manovrare il tempo. Tuttavia la sua missione è ostacolata da Samuel Lex — adesso capo dei ribelli e conosciuto col nome di 'Falco' — e dai capi dell'esercito reale che la osteggiano, minacciando la sua carica di Luogotenente. Unica donna in un mondo di uomini e senza alleati, sarà costretta a forgiare nuove alleanze in luoghi inaspettati...
❈❈❈Storia in revisione ❈❈❈
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Vi ringrazio di avere atteso così a lungo! Finalmente ho avuto il tempo per scrivere e postare il seguito! ^O^
In questo capitolo c'è un po' più di azione e di combattimenti che spero gradirete U.U Non mi sono soffermata troppo su ogni singola battaglia perché personalmente mi stanco a leggere le descrizioni troppo dettagliate dei duelli. Quindi spero che anche per voi, come per me, le cose che ho tralasciato di descrivere non siano una gran perdita ^^
Oh! Inoltre in questo capitolo, si comprende un po' meglio come funziona il potere di Erin! Spero che sia interessante per tutti! <3
Tutti i punti che sono stati lasciati in sospeso qua, verranno colmati nel capitolo seguente, che racconterà del "dopo battaglia" XD
Ringrazio con tutto il cuore le persone che hanno commentato nel capitolo scorso, ovvero:

Damhia, Aelle Amazon, Amy_, Artemis Black e Bullet
Sono grata anche a tutti gli altri che seguono la mia storia! Spero di poter leggere numerosi commenti!
Vi lascio alla lettura!
Alla prossima!


Rita <3


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Capitolo 09 - Campione assoluto


Dietro gli spalti che davano sul campo di battaglia dell’arena, ogni Signore aveva una tenda privata, dove di solito si rilassavano tra uno scontro e l’altro, lontano dagli sguardi indiscreti degli spettatori. Dopo che Mesame aveva concesso a tutti una mezz’ora per organizzare l’inizio della Sfida in cui avevamo trascinato con successo il riluttante Stenton, mi ci ero diretta ed ora sedevo su una panca reidratandomi con lunghe sorsate di fresca acqua. Avevo terso il leggero sudore con una tovaglietta di lino candida e tolto il fastidioso velo che nascondeva alla vista i miei capelli e gran parte del mio volto. Poco prima avevo temuto, per un momento, che Stenton, scaltro e nevrotico com’era, avesse riconosciuto nella figura della combattente quella di Erin Knight, la graziosa gentildonna che aveva cercato di comprare, quasi una settimana prima, il suo Campione. Alla fine mi ero rilassata, dicendomi che non poteva già essersene accorto: dopotutto, la mossa maestra non era ancora stata messa a punto.
Questo mi fece pensare che non rimaneva molto tempo per mettere in moto il nuovo giro di ruota in cui stavo imbarcando tutti quanti noi. Mi guardai attorno e domandai a Calis, che era al mio fianco e contava del denaro: «Rob dov’è?»
Per tutta risposta questi mormorò senza alzare gli occhi dal suo bottino: «Credo che stia arrivando.»
«Non c’è più molto tempo. Doveva già essere qua.»
«Vedrai che non tarderà molto» mi rassicurò.
«Lo spero per lui!»
«Calma, calma. Rilassati, ragazza… stai per affrontare un'orda di uomini inferociti, non sarebbe meglio mantenere la lucidità?»
«E chi la perde? Non è quella che mi manca, credimi.»
«Allora la pazienza? Un po’ di controllo? Anche se non dovesse farcela prima che tu cominci a combattere, posso sempre spedirlo io a compiere la sua missione, no?»
Mi resi conto di essere davvero nervosa e risposi con un sospiro: «Hai ragione, ma preferirei accertarmi di persona che vada tutto per il meglio.»
«Beh… non puoi certo occuparti di persona della faccenda di cui hai incaricato me ed il ragazzo, ti pare?»
«Sì, lo so.»
Ebbi appena il tempo di finire la frase che le tende di smossero ed entrò furtiva una figura ammantata. Io e Calis ci irrigidimmo per un istante, ma ci rilassammo non appena scorgemmo la capigliatura di fuoco. Era arrivato Rob.
«Ehi, era ora! Che fine avevi fatto?» quasi lo aggredii.
«Mi dispiace, Erin, ho dovuto evitare un gruppo di schiavi di Stenton che mi conosce. Sono sgattaiolato qui non appena è stato possibile.»
Assentii frettolosa. Era meglio non perdere altro tempo in chiacchiere.
«Allora?», lo incalzai.
«È tutto tranquillo. Ci sono poche guardie nell’avamposto: sono quasi tutte qua per tenere a bada gli schiavi in vista degli imminenti combattimenti.»
«Perfetto! Ti ricordi cosa devi fare, non è vero?»
Fece cenno di sì con espressione solenne.
«Molto bene. Calis ti accompagnerà in caso tu abbia bisogno di aiuto con le guardie. Dovrete muovervi in fretta, però; sarebbe raccomandabile che Calis non manchi troppo a lungo: qualcuno potrebbe notare la sua assenza.»
I due uomini convennero e si prepararono ad andare. Prima che uscissero dalla tenda, però, bloccai Rob per un braccio.
«Come va la ferita?»
«Sto bene.»
«Fammi vedere» gli ordinai.
Rob, abituato a ricevere ordini e ad eseguirli, scostò il mantello e sollevò senza protestare la tunica.
La ferita era ormai una sottile linea rosata, del tutto rimarginata. Non c’era più pericolo che tornasse ad aprirsi o gli facesse troppo male per combattere.
Sospirai. «Ok, ora è meglio se andate.» Gli lasciai il braccio.
Il ragazzo si trattenne e mi fissò negli occhi con uno sguardo intenso. «Non so cosa tu mi abbia fatto, ma mi hai salvato la vita. Ti ringrazio.»
Accettai quelle parole e lo incoraggiai di nuovo ad andare.
«Calis, affido tutto nelle tue mani.»
L’omone mi rispose con un sorriso e disse: «Stai tranquilla e pensa solo alla gara. Al resto ci penso io. Considera il lavoro già fatto.»
E così, rapidamente, abbandonarono la tenda e mi lasciarono sola con i miei pensieri.

 

Cinque giorni prima


«Non migliora.»
La voce di Vasil era cupa mentre scrutava intento la ferita sul petto del ragazzo, riverso nel mio letto. Avevo trascinato Rob nella casa del vecchio Signore ormai da un paio d’ore, durante le quali gli era salita alta la febbre e non era cosciente. Respirava affannosamente, il corpo tutto sudato. Il vecchio, dopo avergli lavato e fasciato strettamente la ferita, aveva decretato che non avremmo potuto fare molto altro, se non aspettare che la febbre calasse da sola e sperare che non gli fosse fatale, senza chiamare un medico. Tuttavia quella possibilità era rischiosa dal momento che ciò avrebbe portato a domande pericolose, soprattutto a causa del fatto che Rob non era uno degli schiavi di Vasil.
Trassi un sospiro e gli rinfrescai, con una pezza bagnata, la zona del collo e del volto. «Pensi che morirà?» gli chiesi sottilmente.
«Se non gli scende presto questa febbre, è possibile di sì. Ha perso molto sangue ed è pallido… dovremmo anche fargli mangiare qualcosa. Così è troppo debole.»
Annuii. Vasil aveva ragione. «Se la ferita si richiudesse…»
«Andremmo molto meglio ma il punto è che rischia di morire prima che il taglio si rimargini. Forse sarebbe meglio cucirlo per evitare che la ferita si riapra…»
Mi sentii combattuta: avevo dato la mia parola a Chev e non volevo iniziare un rapporto di lavoro, come quello che mi proponevo di stabilire tra di noi, infrangendo così la mia parola. Se Rob fosse morto dopo essere stato affidato alle mie cure, che speranze c’erano che si fidasse per la faccenda delicata del ragazzino, Finn?
«Vasil, ho bisogno di acqua in un catino, di alcune pezze, di cibo e zuppe liquide e altra acqua potabile in una brocca. Quando pensi che possa avere pronte le zuppe?»
«Non ci vorrà molto, suppongo, mando subito qualcuno a prepararne. Ma… Violet, sei sicura di riuscire a farlo mangiare? È a malapena cosciente e forse troppo debole.»
«Devo tentare, ma ho bisogno di rimanere sola e di concentrarmi. Nessuno deve disturbarmi finché non vi chiamo, siamo intesi?»
La fronte rugosa di Vasil si contrasse impercettibilmente. Borbottò qualcosa a proposito delle donne che danno degli ordini e uscì dalla stanza in cerca di ciò che avevo chiesto. Quando tutto fu pronto, si fece da parte e disse agli altri servi che non dovevo essere disturbata per nessun motivo.
Una volta rimasta sola tirai un sospiro di sollievo. Quello che mi apprestavo a fare non aveva garanzie di riuscita e non avere altra gente che mi girava attorno, curiosa di ciò che avrei fatto, avrebbe aiutato a migliorare un po’ la difficile situazione.
Guardai il ragazzo, ancora steso sul letto nella medesima posizione di pochi istanti prima: muoveva leggermente le labbra come se stesse mormorando qualcosa ma non emetteva alcun suono.
Con movimenti svelti, e quanto più delicati possibili, scostai i lembi della camicia sgualcita e sciolsi la fasciatura che proteggeva la parte lesa del petto. La ferita era gonfia e pregna di sangue. Qualche goccia sfuggì dalla carne per scivolare sulla pelle pallida e macchiare le coperte sottostanti. Dopo una lunga occhiata, raccolsi il coraggio e posi le mani a pochi centimetri dal taglio, sopra il cuore.
Mi concentrai, escludendo ogni suono, fino a quando non ebbi le orecchie piene del ronzio del silenzio. Attinsi al mio potere, limitando facilmente la zona di azione a racchiudere solo la figura del malato. Non avevo mai tentato una cosa del genere con una ferita così estesa e profonda, ma era doveroso fare un tentativo.
Ogni volta che usavo il mio potere, aprendomi alla dimensione del tempo, c’era una condizione che dovevo soddisfare prima di poter imbrigliare e guidare il medesimo nella direzione che mi serviva, ovvero verso un’accelerazione od un rallentamento: dovevo determinare lo spazio entro il quale il tempo avrebbe subìto il mutamento.
Le mie capacità, infatti, non erano tali da poter controllare tutto il tempo ma solo quello compreso in spazi determinati: gli spazi d’azione. La mia forza e la mia capacità di resistenza erano inversamente proporzionali alla quantità di spazio che coinvolgevo nel cambiamento: più grande era la zona in cui fermavo il tempo, per esempio, meno avrei resistito allo sforzo e più velocemente avrei esaurito le energie. Con Rob privo di sensi steso sul giaciglio pregno del suo sudore, era molto facile controllare il mio potere, limitandolo solo allo spazio che occupava il suo corpo inerme: il mio obiettivo ero quello di accelerare il tempo quel tanto che bastava affinché la ferita si rimarginasse prima che perdesse una quantità fatale di sangue o che potesse infettarsi. Stavo, in sostanza, accelerando le funzioni del suo corpo come se stessero passando giorni, anziché minuti. Per questo mi serviva una grande quantità di minestra, da somministragli ad intervalli regolari durante tutto il mio lavoro: il fisico, così accelerato, consumava velocemente le energie spese nella guarigione ed era fondamentale continuare a rifornirlo con costanza.
Dopo i primi minuti di lavoro, con la ferita che aveva smesso di sanguinare, riuscii a destare il ragazzo per il tempo sufficiente a nutrirlo prima di continuare col mio compito. Man mano che passava il tempo e la piaga migliorava, Rob era sempre più presente a sé stesso e gli veniva facile ingerire il pasto. Ad intervalli frequenti, dovevo arrestare il processo per permettergli di espellere i fluidi ed il cibo ingerito.
Tuttavia, anche quando la febbre scomparve, non fece domande per cercare di capire cosa gli stesse succedendo, o meglio, cosa gli stavo facendo. Mi guardava con le mani imposte sopra di lui soffuse si una leggera luce violetta, ma questo era tutto ciò che poteva percepire, a parte alcune contrazioni dei muscoli che si ricostruivano e il veloce consumo di energia del suo organismo. Spesso si appisolava, recuperando anche il sonno di cui avrebbe goduto nella durata di più giorni.
L’unico commento che fece, a parte le prime domande farfugliate e confuse di quando aveva ripreso sufficiente coscienza da rendersi conto di ciò che accadeva, fu il seguente: «Non avevo mai pisciato tanto in così poco tempo». Mi fece ridere.
Riuscii a mantenere il controllo per circa sette ore, alle fine delle quali, dell’orrenda ferita che lo aveva deturpato era rimasta solo una lunga linea rosa un po’ frastagliata e sensibile. Ero affaticata e sudata ma contenta del risultato.
Rimisi a posto le bende, usandone di pulite, e lasciai Rob con l’ordine di riposarsi e lo affidai alle cure delle domestiche di Vasil, le quali rimasero stupite del grande miglioramento del ragazzo nonostante non avessero capito che la lesione era ormai guarita. Avevo preferito fasciargli il petto per evitare di dare adito alle chiacchiere, anche se probabilmente avevo solo ottenuto di rinviare l’inevitabile: prima o poi, qualcuna avrebbe preteso di sostituire le bende, credendo fosse necessario far prendere aria alla ferita, e si sarebbe accorta della guarigione avvenuta. Ma a quel punto ero troppo stanca per pensare alle conseguenze: avevo ottenuto di salvare la vita al ragazzo ed ora, forse, avrei avuto la fiducia di Chev. E tanto mi bastava.


Sussultai quando il movimento della tenda mi annunciò la presenza di un nuovo vivitatore. Presi velocemente in mano il velo, pronta a coprirmi la faccia, ma la voce di Vasil mi indusse a lasciar perdere.
«Sei pronta, ragazza?»
«Lo sono, per quanto lo possa essere.»
Un grugnito commentò le mie parole. «Non sarà facile. Lì fuori sono tutti esagitati, impazienti di vederti combattere contro gli uomini più forti. C’è già una bella fila di sfidanti.» Aveva l’espressione contratta e sembrava pensieroso.
Gli versai un po’ di vino su un calice e glielo resi. «Rilassati, vecchio. Prendi un po’ di questo vino, è buono.»
«Puà!» esclamò, agitando come sua abitudine una mano. «Il vino offerto qui al Surdesangr raramente è decente, figurarsi buono!»
«Perché allora non avete proposto al consiglio dei Signori di comprarne di migliore?»
Sbuffò. «Nessuno degli altri vuole uscire il denaro sufficiente! Tiresio era quello più propenso, ma sai quanto è taccagno Stenton... non se n’è fatto nulla.»
Rimescolai il vino dentro al calice che Vasil non aveva accettato, gli diedi un’occhiata e, con un’alzata di spalle poco signorile, lo ingollai fino in fondo.
«Beh, anche se avesse un saporaccio non avrebbe importanza al momento» commentai. «Tra quanto si comincia?»
«È ora. Ero appunto venuto a chiamarti.»
Con un cenno del capo gli feci capire di precedermi. Lasciò la tenda e presi una boccata d’aria a pieni polmoni prima di tornare a soffocarmi col velo.
Uscii dalla tenda sapendo cosa avrei trovato: l’arena era un vespaio di uomini mal vestiti ed unti, molti dei quali avevano alzato troppo il gomito. Qua e là faceva capolino qualche forma femminile, a mala pena celata da un vestiario che ne denunciava il mestiere. C’era un gran vociare che quasi assordava chiunque si avvicinasse agli spalti. L’odore di vino e birra, misto a quello di sudore e urina mi spinsero a benedire silenziosamente la stoffa che proteggeva il mio anonimato ed il mio olfatto.
I Signori erano di nuovo tutti nelle proprie postazioni. Il nervosismo di Stenton si percepiva fin dove mi trovavo io. Nervosismo e rabbia. Continuava a sbuffare come se non credesse ai suoi occhi. Maltrattava i servi che si era portato appresso per occuparsi di versargli da bere ed esaudire ogni sua richiesta. Il suo stato fu un balsamo per il mio umore che migliorò notevolmente. Ero ormai decisa e sapevo che non potevo permettermi di sbagliare: un errore avrebbe potuto essermi fatale.
Drogart si occupò di annunciare l’inizio dei duelli. I primi schiavi a farsi avanti furono i suoi, capeggiati da un tipo tozzo con un orrendo volto sfigurato. Ghignava estatico, pregustando il momento in cui mi avrebbe infilzata come uno spiedino e costretta a togliermi la maschera. Non mi diede fastidio quel suo atteggiamento, non c’era più tempo per frivolezze del genere; velocità e risolutezza erano le mie sole alleate in uno scontro che si preannunciava lungo ed estenuante. Fino a quel momento, infatti, non mi ero dovuta preoccupare di fare sul serio perché quasi tutti gli schiavi di Vasil avevano acconsentito a lasciarmi facilmente vincere. Ora, non solo avrei dovuto reggere all’assalto di molti altri più agguerriti, ma avrei dovuto anche dosare per bene le energie per averne a sufficienza nel momento in cui avrei affrontato gli altri Campioni. Loro, dopotutto, erano più temibili rispetto a tutti gli altri. Perciò smisi di parlare: non risposi più agli insulti ed ai motteggi. Ero completamente concentrata sul mio compito.
Muovevo la spada con la rapidità dovuta ai miei esercizi e non all’impiego del mio potere. Ogni colpo era diretto ed andava sempre a segno e non fu così difficile sbarazzarsi di molti di loro.
A sorpresa, notai che man mano che sconfiggevo sempre più uomini grossi e muscolosi, altri, che inizialmente si erano proposti per affrontarmi, si ritiravano temendo che infliggessi loro la stessa umiliazione conquistata dai compagni.
Dopo una ventina di combattimenti, mi ritrovai grondante di sudore e con soli pochi graffi su gambe e braccia laddove qualcuno degli sconfitti era riuscito a passare la mia guardia; tuttavia non avevo nessuna ferita degna di menzione.
Il primo Campione che affrontai sul campo fu il Gallo. Vasil mi aveva preparata, descrivendomi nel dettaglio le caratteristiche di combattimento di ognuno di loro, pertanto sapevo che metterlo fuori gioco non sarebbe stata una grande sfida: era decisamente il più debole fra quelli che avevano vinto il titolo. Come previsto, lo sconfissi in poche mosse: la sua armatura, più pomposa che pratica, fece quasi tutto il lavoro. Tiresio, il suo Signore, non pareva sorpreso del risultato dell’incontro. Aveva dovuto capire che ero più in gamba del suo uomo, se il numero degli schiavi che avevo sterminato prima di lui non fosse stato indicativo in tal senso.
Geoffrey fu tutt’altro paio di maniche. Mai, come in quel duello, ringraziai di avere addosso il velo che scendeva a coprirmi naso e bocca! Il tanfo tremendo del mio avversario era quasi bastevole a farmi arrendere. Emanava un puzzo così accentuato che se ne veniva investiti e ti spingeva ad arretrare barcollando. Nonostante la stoffa fosse una debole riparo contro quell’arma di distruzione di massa, riuscì a filtrare sufficiente aria da impedirmi di svenire. Il consiglio del vecchio Vasil di intingere di profumo il velo si rivelò efficace. Al di là di ciò, comunque, Geoffrey era un combattente valente. O quantomeno, non sconsiderato.
Mesame pareva compiaciuto della difficoltà che mi stava dando. La sua tecnica era meno diretta e più volta all’attesa che l’avversario facesse un passo falso, cosa che non ero disposta a fare, nemmeno per smuovere lo stato di cose. La sua tattica attendista, tuttavia, provocò il malcontento della folla che esigeva sangue e azione. Sulle prime rimanemmo a studiarci guardinghi, per poi provare qualche colpo che nessuno dei due mise a segno. Quando mi stufai dell’attesa, provai a confonderlo con una finta: fu inutile, aveva la guardia bene alzata e non gli sfuggiva nessun movimento.
Capii che avrei dovuto fare io la prima mossa, perché lui non si sarebbe mosso per venirmi incontro. Caricai un colpo e mi spinsi in avanti; il guerriero arretrò di qualche passo e parò il fendente. Fece pressione sulla lama per respingermi e approfittò del vantaggio per dirigere la spada verso il mio fianco scoperto. Fui abbastanza lesta da parare il colpo in modo che non facesse troppi danni, ma purtroppo lasciò una striscia rossa da cui sgorgò in pochi secondi del sangue caldo che mi inzuppò i vestiti.
Sbuffai impaziente, e decisi di usare un po’ di potere in un altro attacco diretto, che non si sarebbe aspettato. Con un po’ di fortuna la velocità lo avrebbe spiazzato lasciando qualche spiraglio per un colpo ben assestato. Quando mi mossi, decisa sul da farsi, gli spettatori trattennero il fiato, ugualmente sorpresi. Esplose un boato nel momento in cui ferii l’avversario alla spalla destra, dove teneva la sua arma.
Geoffrey aprì la bocca e la contrasse in un arco di sorpresa. Il suo sguardo sfrecciò dalla ferita a me che me ne stavo rannicchiata in posizione difensiva. Tentava di capire cosa fosse successo, e soprattutto come, ma per quanto cercasse di ricostruire l’azione nella sua mente, qualcosa continuava a sfuggirgli.
Ottenni di innervosirlo e ciò lo portò successivamente a commettere più errori e quindi alla sconfitta.
Mesame, sugli spalti, per nulla contento, continuava a fissare il suo Campione battuto. Sicuramente avrebbe trovato un modo per fargli pagare quell’umiliazione.
Geoffrey si allontanò dal campo piuttosto malconcio. Gli avevo procurato una brutta ferita alla gamba ed una al torace, oltre che alla spalla, e dovettero mandare qualcuno a soccorrerlo e ad aiutarlo a trascinarsi via.
Lanciai un’occhiata al seggio di Stenton ma, con mia grande sorpresa, il Signore non si trovava al suo posto. Aguzzai lo sguardo ma non ci fu nulla da fare, non era proprio nel suo padiglione. Un urlo tremendo mi costrinse a concentrare l’attenzione verso la parte del campo dove si trovava il mio prossimo avversario. Il Toro, oltre che l’aspetto, aveva anche il modo di esprimersi di un animale. Lo vidi sbuffare – quasi potesse uscirgli vapore dalle narici – e lanciarmi contro uno sguardo carico di odio. Sulla testa calva si notavano le vene gonfie che pulsavano costantemente, ad un ritmo accelerato. Il cerchio di metallo al naso era semplicemente grottesco.
Nella frazione di tempo che impiegò per avvicinarsi a me, notai che anche Drogart, il suo Signore, non si trovava al proprio posto. Dentro di me scattò un campanello d’allarme ma non avrei saputo dire cosa fosse a non andare. Era possibile che entrambi i Signori si assentassero nello stesso momento durante un evento pubblico così importante e soprattutto, ad un passo dalla fine dei combattimenti? Mi venne da pensare che non avevo visto Chev da tutta la mattina. O meglio, dopo averlo adocchiato brevemente all’inizio degli incontri per la mia gara al titolo di Campione, non lo avevo notato più. Era sempre stato lì ad osservare, chiedendosi che cosa avessi in mente? Ma se era così, ora dove si trovava? Una rapida occhiata non mi servì ad individuarlo tra la folla. Possibile che Stenton fosse fuggito con lui? Mi pareva una cosa impossibile… E dove sarebbe potuto andare, poi? La Sfida era stata lanciata ed accettata, non c’era modo di evitare l’inevitabile. Non poteva certo abbandonare il suo posto prestigioso di Signore del Sangue solo per uno schiavo!
Mi diedi della stupida. Non era certo quello il momento di mettersi a fare congetture così assurde! Non certo quando un colosso alto quasi due metri ti fissava sprezzante e meditava di ucciderti, proprio lì davanti a te. No… era lui a meritare la priorità al momento. Ricambiai il suo sguardo con il più calmo che fossi in grado di mettere insieme. Mi sentii quasi distaccata da ciò che avveniva. Era persino buffo nella sua mole da gigante ad agitarsi e menar le mani per una cosetta piccola come me. La spada gli pendeva da un fianco e quando la estrasse, al segnale di inizio duello, parve, tra le sue mani, sottile come un giunco e molto meno minacciosa dei suoi muscoli gonfi. Pensai con ironia che avrebbe potuto farmi più male con un pugno che con una stoccata di lama.
Come avevo potuto notare già la settimana prima, il Toro era un ottimo lottatore in quanto a forza bruta, ma lasciava parecchio a desiderare in quanto a tecnica di combattimento.
Contro qualsiasi altro uomo – meno che il Cavaliere, probabilmente – avrebbe costituito una minaccia considerevole dati i suoi attacchi caricati che travolgevano l’avversario obbligandolo ad arretrare e a perdere l’equilibrio. Tuttavia, per una donna come me, che aveva dovuto imparare a far fronte ad avversari sempre più grandi e grossi di sé, sfruttando le leve e giocando d’equilibrio, fu nel complesso abbastanza semplice tenergli testa. Un uomo avrebbe scelto di affrontare la carica dell’avversario mastodontico per tentare, come poteva, di respingerla; io scelsi di evitarla e mi trovai, in questo modo, a danzagli intorno scansando un attacco dopo l’altro. Quando si sbilanciò in maniera quasi impossibile, pur di afferrarmi, non resistetti alla tentazione di buttarlo a terra con una pedata. Il corpo atterrò con un tonfo ed uno sbuffo di sabbia. Quando si rialzò, il Toro, assomigliava più che mai alla bestia di cui portava il nome. I suoi occhi erano iniettati di sangue e, ironia della sorte, il turbante che portavo era proprio di colore cremisi.
«Me la pagherai, maledetta!» sbraitò. Non gli diedi conto.
«Chi diavolo sei, puttana?! Solo la progenie del demonio può essere capace di sconfiggere tutti noi con quella calma impassibile!»
‘Calma impassibile’ un corno!, pensai. Ero tutta sudata ed appiccicata, quasi al limite delle mie forze. Durante tutto il tempo avevo cercato di non usare il mio potere, con la conseguenza che avevo impiegato di più a sconfiggere tutti. E ancora avevo questo stupido davanti da togliere di mezzo! Una delle molte cose che ci distingueva, peraltro, era che non mi esagitavo come una forsennata sprecando le mie energie. Lui pareva saper fare bene soltanto questo!
Alzai il mento in un gesto di sfida e lui abboccò come un allocco. Purtroppo, proprio in quell’attimo, un’ondata di magia come raramente mi capitava di sentire, mi destabilizzò e mi distrasse. Mi voltai automaticamente verso il punto da cui avevo sentito che proveniva, ma non capii di cosa si trattasse. Il momento successivo mi ritrovai inchiodata a terra, tramortita dal possente pugno che mi aveva scagliato contro il mio avversario. Sentii un dolore pulsante in tutta la parte sinistra della faccia e dietro la testa, dove avevo picchiato il pavimento quando mi aveva buttata giù.
«Ti ho preso, troietta! E ora che cosa farai? Non hai la forza di sfuggirmi e sei in mio potere!» Cacciò fuori un urlo che era quasi un guaito di soddisfazione. Prima che potessi rimettere in ordine i miei pensieri confusi e riprendermi dalla doppia botta, l’omone afferrò la stoffa sulla mia faccia e la strappò via, insieme a qualche capello.
Dalla folla sugli spalti provenne un nuovo boato di sorpresa ed eccitazione.
«Ma tu guarda, che bel bocconcino!» commentò fissandomi e stringendo tra le dita le mie guance in maniera poco delicata. «E tu saresti la donna che ha battuto tutti i concorrenti? Tutti tranne me, ovviamente! Credo proprio che ti darò una bella lezione, mocciosa!»
Gli uomini tutti intorno lo incitavano a colpire: desideravano vedere quanto potessi essere resistente, messa così alle strette. Io non dubitavo che un altro pugno come quello di prima mi avrebbe messa fuori gioco, se non mi avesse direttamente uccisa.
Feci, dunque, l’unica cosa che mi era rimasta da fare: fermai il tempo nel momento in cui sollevò il suo grosso pugno puntato nella mia direzione. Mi strappai alla sua presa e sgusciai da sotto di lui, non senza difficoltà a causa del peso che mi inchiodava le gambe. Raccolta la stoffa spiegazzata, la usai a mo’ di corda e l’avvolsi come un cappio intorno al suo collo taurino, prima di ripristinare il tempo.
Un silenzio innaturale calò allora tra tutti gli astanti prima che esplodesse il fragore: solo in quel momento venni riconosciuta per chi ero e per tutto il Surdesangr si innalzarono ovazioni. Tutti si agitavano gridando “Violet! Violet!” fino a perdere il fiato.
Il Toro, ai miei piedi, grugniva e si agitava, artigliando la stoffa che lo soffocava. Sapevo che non avrei retto a lungo, era troppo forte. E di fatti, in pochi secondi, agitandosi, riuscì a scrollarsi di dosso il mio peso e a liberarsi dalla stretta della stoffa.
«E così saresti tu la Violet di cui tutti parlano?» mugugnò al mio indirizzo. «Credevo fossero tutte fesserie, ma devo ricredermi. Però non farti illusioni, bambolina… non potrai sconfiggermi, sei solo un insetto!»
Lo fissai, continuando a non proferir parola.
«Allora, non dici niente? Per caso hai perso la lingua?» mi sfotté. Mandò fuori una risata rauca e spaventosa ed agitò le braccia per afferrarmi. Pareva del tutto dimentico della spada che aveva abbandonato sul terreno polveroso, nonché di quella che io reggevo tra le mie mani. Gli rinfrescai la memoria aprendogli un taglio piuttosto profondo nell’avambraccio.
«Stai a cuccia, scimmione.» lo blandii.
La guancia pulsava in maniera dolorosa. E ancora non capivo cosa fosse stato a distrarmi. Avevo l’impulso di voltarmi per cercare tra la folla il motivo di quello sprigionamento magico, perché avevo proprio un brutto presentimento, tuttavia non avrei commesso una seconda volta l’errore di distrarmi.
«Forza, fatti sotto, bello», lo istigai, «Ho piuttosto fretta di finire.»
«Puttana!» masticò tra i denti, ma si convinse ad agire. Raccolse la spada e mi fronteggiò. Respinsi la prima carica ed evitai la seconda. Avevo il fiatone, ma riuscivo ancora a destreggiarmi piuttosto bene. Sapevo che non potevo indurlo ad arrendersi, il suo orgoglio non gli avrebbe permesso di smettere prima di farsi troppo male. Così lo colpii con decisione e gli aprii uno squarcio tra le costole. Prese a sanguinare copiosamente, però non si fermò e continuò a contrattaccare fino a quando non perse troppo sangue e ricadde sul suo stesso peso semisvenuto.
Blaterava qualcosa come “maledetta cavalletta” e non mi restò altro che attendere che perdesse del tutto i sensi e fosse dichiarato sconfitto. Eppure, contro ogni previsione, gli rimase abbastanza forza per tentare, a sorpresa, un ultimo attacco. La spada mi penetrò la carne, facendomi scorrere un largo fiotto si sangue sulla gamba, impregnando un calzare. Caddi in ginocchio e mi protessi ricambiando il colpo per allontanare l’arma nemica. Riuscii a disarmarlo. Lo spadone ricadde con un suono metallico tra la polvere ed il braccio teso del Toro si piegò su se stesso, ricoperto di una nuova ferita superficiale.
Finalmente svenne, rimanendo del tutto immobile. Abbassai lo sguardo sulla mia gamba ferita, valutando il danno: il taglio, lungo dieci o dodici centimetri, si estendeva obliquamente.
Strappai un lembo della mia veste – nella parte meno danneggiata e meno sporca – e lo legai strettamente a fermare l’emorragia.
Qualcuno venne a raccogliere il guerriero; forse non si sarebbe salvato.
Un servo mi si avvicinò, si inginocchiò al mio fianco e mi disse: «State bene, mia signora? Mi manda Vasil, è preoccupato per la vostra incolumità.»
«Riferite al vecchio che non è nulla di grave. Posso ancora combattere.»
«In tal caso, mia signora, il padrone mi manda a dirvi che Stenton e Drogart si sono assentati durante gli ultimi duelli.»
«Sì, me n’ero accorta.»
«Sapete cosa sta succedendo?»
«Purtroppo no. Speravo potesse dirmelo Vasil.»
«Il mio padrone è perplesso quanto voi, signora.»
Feci un cenno col capo. «Allora non ci rimane altro che scoprirlo. C’è ancora un ultimo scontro, no?»
«Esatto, mia signora. Vi auguro buona fortuna. Il Cavaliere è un uomo temibile, molto più del Toro.» commentò prima di tornare ai tendaggi al margine del campo.
Purtroppo attesi qualche minuto ma di Chev o del suo Signore, non c’era nessuna traccia. La massa scalpitava in attesa dello scontro decisivo ed invocava ancora il mio nome. Sentii qualcuno ipotizzare che il Cavaliere se la fosse fatta addosso e fosse scappato per la paura; altri pensavano che Stenton avesse preferito rinunciare alla Sfida. Per quanto quest’ultima ipotesi fosse stata anche una delle mie, all’inizio, ora ero sempre più convinta che ci fosse un altro motivo per quel ritardo.
Qualcosa, della magia liberata poco prima lì da qualche parte, mi aveva messa in guardia ed ora stavo bene attenta ad ogni cosa mi circondasse. Tentai di estromettere lo schiamazzo generale per focalizzarmi sui dettagli.
All’improvviso, la tenda del padiglione di Drogart si scostò e ne emerse il Signore seguito da Stenton e da Chev. Sui volti dei più anziani aleggiava un ghigno di soddisfazione, sebbene quello di Stenton fosse misto a qualcosa di più oscuro. Chev, d’altra parte, aveva l’espressione granitica di chi tentasse in ogni modo di tenere nascosti i propri sentimenti: la sua era una maschera inespressiva calcata, però, da una profonda tensione di fondo.
Incrociai il suo sguardo, ma egli si affrettò ad abbassarlo e non riuscii a capire cosa fosse andato male.
Lì accanto, Stenton, mandò fuori un’imprecazione. Si era infine soffermato a guardami e mi aveva potuta vedere bene in viso, ora che non portavo più il mio travestimento. Compresi dalla sua smorfia che si era ricordato di me ed al momento era impegnato a maledirmi.
Drogart non fu per niente contento di scoprire che il suo Campione era quasi in fin di vita. Nonostante ciò, racimolò la calma necessaria per il suo discorso.
«Dunque hai sconfitto tutti i concorrenti, giovane sfidante. Persino il mio Toro. Possiamo vedere che ti abbiamo sottovalutata, Violet, la tua fama era autentica, a quanto pare. Dopo tanti anni ci stavamo chiedendo se avessimo solo sognato di te. C’è da chiedersi, tuttavia, come sia riuscito Vasil a fare di te la sua Campionessa.» lanciò un’occhiata al suo collega ma non azzardò ipotesi. «Credo che sia arrivato il momento dell’ultima sfida: se sconfiggi il Cavaliere, egli apparterrà a Vasil, e tu avrai vinto!»
Con uno schiocco delle mani dispose un arsenale di armi davanti all’ultimo Campione e lo incitò a scegliere quella con cui battersi. Ignorò tutte le lance lunghe e corte, gli spadoni e le mazze chiodate e scelse, con mia sorpresa, una daga sottile e corta, adatta al combattimento ravvicinato. Di regola, lo sfidante doveva competere con la stessa arma scelta dal Campione sfidato, per cui mi diressi ai margini del campo, nel recinto delle armi e depositai la spada su un ripiano, dove avrebbero provveduto a ripulirla, e la sostituii con una daga più o meno della stessa lunghezza di quella di Chev. Perché aveva scelto quell’arma? Era quella che sapeva manovrare peggio? Sperava, in questo modo, di darmi un vantaggio? Scrollai le spalle, arrendendomi al pensiero che avrei potuto scoprirlo solo affrontandolo, ma non per questo più serena. Continuavo a sentire quel campanello d’allarme.
Quando tornai indietro, anche Chev stava scendendo dalla tribuna, ma prima che potesse raggiungermi, venne trattenuto per pochi secondi da Drogart che lo afferrò per un braccio e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio. Stenton non vi badò e non fece nulla per separare quello che doveva essere il suo Campione dal proprio avversario.
Chev fece un cenno e ritrasse il braccio. Tutta la sua figura pareva irradiare tensione, e per un momento scorsi una punta di disperazione tra i suoi lineamenti. Il momento successivo, però, tornò all’apatia di sempre, tanto che mi domandai se lo avessi solo immaginato.
Quando fu abbastanza vicino lo salutai. «Chev, ci si rivede.» Ero guardinga e lui non rispose.
«So che c’è qualcosa che non va. Prima ho sentito…»
Le mie parole parvero fare breccia in lui poiché sollevò di scatto il capo, guardandomi con aria interrogativa.
«Non ho capito però cosa sia successo.» continuai a spiegare. «Cosa ti hanno fatto?»
Scosse la testa, avrei detto con frustrazione.
«Dobbiamo lottare, ora, Erin. Non c’è altro modo.»
«Puoi scegliere, Chev. Ti ho detto che ti avrei reso la tua libertà se ti fossi messo al mio servizio. Io mantengo sempre la mia parola. Il ragazzo, Rob, sta bene, è guarito, proprio come ti avevo detto.»
Nei suoi occhi passò un guizzo, forse di sollievo per la buona notizia. Poi, tornò a rabbuiarsi.
«Finn…»
«Anche lui starà bene, te lo prometto.» mi affrettai a dire. Suonò il gong che segnava l’inizio del combattimento finale. Chev prese posizione, piegando le ginocchia e difendendo un fianco.
«Non deve andare per forza così, maledizione!» sibilai. «Ti basterà fingere un poco e poi arrenderti, e andrà tutto a posto!»
«Tu non capisci, Erin… non ho scelta.»
«Dimmi perché allora!»
«Non lo posso fare.»
Con quelle parole si avvicinò rapidamente sferrando un pugno con la mano libera, per proteggermi dal quale subii il colpo a sorpresa della mano armata. La stoffa si stracciò sulla spalla, lasciando un taglio poco profondo che tuttavia bruciava.
«Dannazione!» imprecai, mentre arretravo e mettevo un po’ di distanza tra noi. Era evidente che qualcosa lo costringeva ad agire contro la sua volontà, ma cosa? Che Stenton si fosse inventato un nuovo ricatto? Non poteva già essersi accorto di avere perso Finn. E comunque, in tutto il quadro, Drogart dove si posizionava? Perché era scomparso assieme a Stenton durante le gare? Dove erano andati e a fare cosa?
Mentre i pensieri si agitavano frenetici nella mia mente, cercai come potevo di resistere agli attacchi serrati del Cavaliere che non mi dava tregua. Era un combattente straordinario e mi stava mettendo parecchio in difficoltà, tanto più che cercavo di trattenermi dal ferirlo gravemente e, contemporaneamente, mi sforzavo di trovare un modo per indurlo ad arrendersi per vincere la competizione.
Ragiona, Erin!, mi dissi, Cosa può legare assieme Stenton e Chev a Drogart? E perché quel flusso potente di magia, poco prima…?
Magia…
Un pensiero spaventoso mi colpì inaspettatamente. Ma certo! Così era tutto molto più chiaro. Ed anche sensato.
Osservai con occhi nuovi il mio rivale, cercando la prova schiacciante della mia teoria… e la trovai!
Il polso destro recava su di sé una netta incisione quasi del tutto rimarginata. Sopra di essa aleggiava, come una sorta di tatuaggio, un segno a forma di stella. Lo stesso che ornava il polso del Toro.
Proprio mentre allungava un braccio ed io lo schivavo, gli afferrai il volto e lo obbligai a guardami fisso negli occhi.
«Ti hanno costretto al Giuramento di Sangue!» sussurrai ma abbastanza chiaramente da farmi udire da lui.
Sgranò gli occhi e capii di aver fatto centro. Si divincolò dalla mia presa, rispondendo: «Se hai capito, allora…»
Abbandonò la daga e con le braccia possenti mi strinse in una morsa. Ero schiacciata al suo petto, l’arma dietro la mia schiena dove erano bloccate le mani.
«…sai che non ho alternativa» concluse, in uno sbuffo. Si sforzava con tutto se stesso di ritardare di mettere in pratica il comando che gli era stato impartito, non da Stenton ma da Drogart. Il vecchio bastardo avido non avrebbe tollerato di perdere il proprio Campione e, nel momento in cui aveva compreso che avrei quasi certamente vinto tutte le gare, si era deciso a cederlo a Drogart, sicuramente in cambio di chissà quali favori, piuttosto che cederlo a Vasil, che mal sopportava.
Una volta legato in un simile vincolo, l’individuo assoggettato non aveva più scelta e, ad ogni comando diretto del suo padrone, non avrebbe potuto opporsi.
«Ti ha comandato di uccidermi.»
«È così.» confermò.
Ora capivo la tensione ed il violento tremito dei muscoli che mi imprigionavano: stava cercando di lottare contro il comando impostogli, ma presto avrebbe ceduto. Non era così forte.
Strinse ulteriormente la presa, la daga mi sfuggì di mano ed andò a raggiungere la sua al suolo. Soffocai un rantolo di dolore.
«E-Erin…» balbetto, «Io… non ho scelta, s-sento che…»
«Shh» gli intimai con voce fievole. «Non parlare… c’è un modo…»
Prima che potesse interrogarmi ulteriormente, sprecando del tempo prezioso, avvicinai il mio viso al suo e posai le mia labbra sulle sue. Lo sentii sussultare per la sorpresa e soffocare la domanda che gli sorgeva spontanea «Cosa…?!»
Le parole si trasformarono in un rantolo di dolore misto a sorpresa quando gli morsi un labbro con forza. Serrai i denti fino a sentire sgorgare un liquido caldo dalla piccola ferita che gli avevo procurato. Quando mi bagnò le labbra, succhiai avidamente quel sangue e, assieme ad esso, trassi parte del potere del nuovo legame che lo vincolava.
Non riuscii a liberarlo. Non del tutto, no. Ma feci abbastanza perché il vincolo ne fosse indebolito al punto da lasciargli spazio per altre decisioni che non fossero quelle impartite dal suo oppressore.
«Ora lasciami andare.» dissi.
Piano piano, quasi non ci credesse, allentò la presa sul mio corpo ed io scivolai in basso e mi rimisi di nuovo in equilibrio.
«Ci sono riuscito! Io… tu… cosa hai fatto?!»
«Lascia perdere, ti spiego dopo. Senti ancora l’impulso di uccidermi?»
Ci pensò un momento, poi assentì.
«Sì, lo sento. Solo che ora è molto più debole. Non devo fare molta fatica per oppormi. Tu mi hai liberato! Tu…»
«No, non del tutto. Però ti ho ridato un po’ di libero arbitrio, questo sì.»
Rifletté un momento e poi domandò: «Ora che si fa?»
«Beh, fingi di batterti con me, poi arrenditi o lasciati sconfiggere.»
«Ma Finn…» protestò testardamente.
«Uffa! A lui ho detto che ci avrei pensato io, no?» dissi spazientita. «Ora fammi il piacere e fingiti spacciato così la finiamo con questa pagliacciata! Non ne posso più! Quanto tempo ho perso…!» Blaterai un altro po’, giusto per sfogarmi.
Poi mi accorsi che gli spettatori erano perplessi: avevano assistito ad un combattimento feroce, poi a quello che – almeno dal loro punto di vista – doveva essere stato un bacio appassionato, mentre ora ci vedevano nuovamente imbracciare le armi e fronteggiarci. Da qualche parte partirono dei fischi e udii delle battute dirette alla virilità di Chev. Mi sentii arrossire ma non c’era nulla che potevo fare, non per questo.
Chev lo notò e rise di gusto. Aveva una risata bassa e roca, molto… sensuale. Mi sorpresi a pensare che dava l’impressione che non ridesse molto spesso, il che era un vero peccato…
Poi mi diedi uno schiaffo mentale e tentati di riportarmi al qui e ora, visto che non era il caso di lasciarsi andare a pensieri inopportuni proprio nel mezzo di un combattimento.
Successivamente quasi mi divertii. Quello che era diventato un finto combattimento tra me e Chev, non sembrava affatto tale: sapevo che non stava cercando di essere letale, e nemmeno io stavo cercando di esserlo con lui, tuttavia sembrava davvero una lotta all’ultimo sangue. Eravamo coordinati ed in perfetto tempismo: lanciavamo offensive e controffensive e saggiavamo le nostre capacità. Continuammo a dare spettacolo fino a quanto non ci demmo un segno di intesa, lui finse di inciampare su qualcosa ed io ne approfittai per puntargli la daga alla gola, intimandogli di arrendersi.
Scoppiarono applausi e ovazioni per tutta l’arena. Persino Vasil pareva più eccitato del solito. Sulle facce di Drogart e Stenton era calata una fosca espressione di incredulità e rabbia.
Finalmente mi permisi di tirare un sospiro di sollievo. Fu Tiresio a prendere la parola per annunciare ufficialmente il risultato della Sfida e mi proclamò Campionessa assoluta. Il Cavaliere venne ceduto a Vasil, come da richiesta, e al vecchio Stenton non rimase che rodersi, da solo, nella sua piattaforma.
Dopo un tempo infinito in cui vennero firmati i documenti che sancivano il passaggio di possesso di Chev da uno all’altro Signore del Sangue, finalmente fu possibile ritiraci negli appartamenti privati di Vasil.
Guardai l’uomo al mio fianco, appena un poco sporco di polvere e qua e là da macchioline di sangue. «Bene… ora seguimi, Chev. Ci meritiamo un’intera botte di birra per tutto questo!»
«Credo che sia stata tu a meritarlo. Io non ho fatto molto.»
Agitai una mano per sminuire le sue parole. «Sciocchezze! Scommetto che non deve essere stato molto piacevole farsi asservire con un giuramento magico ad uno come Drogart. Meno che mai berne il sangue.» Rabbrividii al solo pensiero.
«In effetti… non è stata la cosa più piacevole che abbia subìto negli ultimi tempi.»
Gli diedi una pacca sulla spalla e ci dirigemmo verso luoghi più tranquilli per godere di un meritato riposo.

[Continua...]

   
 
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