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Autore: HellWill    30/09/2012    1 recensioni
I ricordi possono essere una brutta bestia, e così le incomprensioni.
Salvare una vita non vuol dire solo sottrarla al pericolo, ma prendersene cura e curarsi della sua integrità, anche quando il pericolo è passato.
La vendetta non è dolce come sembra all'animo immaturo...
Genere: Angst, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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La notte era tersa, una delle poche in cui non piovesse da quando era iniziato marzo. Una nuvoletta di vapore, silenziosamente, si levò dalle chiome degli alberi in cui avevano trovato rifugio lui e la bambina.
Era incredibile quanto somigliasse ad Ann.
Ed era incredibile che passando per il villaggio per rubare qualche  pezzo di pane e una bottiglia di latte le cose potessero essere andate in quel modo.
Salvare una ragazzina.. curiosa coincidenza, dal momento che lui di mestiere faceva l’assassino.
Un sorriso amaro gli sorse spontaneo sulle labbra: salvare delle vite, cosa voleva dire questo per lui? Voleva dire uccidere un terrorista per lavoro? Certo che no. Voleva dire uccidere una madre pazza e corrotta per salvare la sua figlioletta innocente e frutto di un errore? Certo che no.
Si trattava sempre e comunque di uccidere.
Anzi, no: si trattava sempre e comunque di fare il male minore. Uccidere un ingiusto per regalare pace ai giusti. Faceva tanto Robin Hood, no?
No, si ripeté. No.
Non era giusto. Non era mai giusto, uccidere.
E allora perché lo faceva? Se lo chiedeva da trent’anni, ma mai un dio, un essere umano o un non-umano gli avevano dato risposta. Qualcuno, una volta, accogliendo le sue confessioni, gli aveva detto che la risposta ce l’aveva solo lui. E lui, proprio lui, aveva concluso che probabilmente quello era il suo posto nel mondo.
Perché anche quando non doveva uccidere, o non avrebbe dovuto, lo faceva, lo aveva fatto.
Era entrato nel villaggio per rubare, ne era uscito con un’arma insanguinata e una bambina sulle spalle.
Sembra ridicolo, invece nel suo animo si allargavano come macchie d’olio il rimorso e la tristezza.
Perché quella ragazzina senza nome non sarebbe mai potuta essere Ann. Mai.
E allora perché?
Si accorse che era la domanda che più si ripeteva spesso, quella notte, e che confusamente in testa gli si rimescolava con altri pensieri, con le emozioni, il rimpianto.. ed i ricordi.
Lentamente, il viso nascosto da una maschera di tristezza, si volse verso la bambina dormiente.
I capelli castani lunghi oltre la spalla erano sparsi sul tappeto di foglie che le aveva approntato velocemente, alla meglio, prima di depositarcela sopra; gli occhi azzurri che aveva visto prima che svenisse erano ora chiusi, e il Mezzelfo temeva il momento in cui si sarebbero riaperti.
Assomigliava totalmente ad Ann. La forma del viso, quel suo modo di sfidare la morte quando le aveva detto di non volerle fare del male, gli occhi e il loro colore limpido nonostante tutto ciò che avevano visto, e i capelli né lisci né ricci, di quella forma strana che a volte stava in piedi sfidando le forze della natura.
Kame sospirò e si accorse con una rabbia appena accennata che una lacrima gli era sfuggita sulla guancia.
Così, si concesse il ricordo come un diabetico si concede un pasticcino.
Ann era una bambina, all’epoca; aveva il cipiglio allegro della madre unito al suo carattere solitario e leggermente misterioso, così che la malizia sul suo viso, crescendo, aveva preso una piega sempre più divertente e quasi tenera.
I capelli castani le arrivavano al sedere quando entrò in casa senza fiato e, nonostante questo, urlò «VOGLIO ESSERE UN MASCHIO!».
Loren si era presa un colpo e si era avvicinata a lei, tremando, mentre lui scivolava giù dal letto e osservava la scena, divertito. Sua figlia trovava sempre modi strani di svegliarlo, e quel pomeriggio si era inventata quella piccola messinscena?
«Cosa vai dicendo, Ann? Cosa dici?» chiese Loren, pallida e vagamente divertita. Lui si appoggiò alla balaustra delle scale, incrociando le braccia con un sorriso bonario sul volto, e Ann quasi con un sesto senso si volse verso di lui, un sorriso enorme ad illuminarle il visino.
«PAPÀ!».
Si era domandato più volte se Ann riuscisse a parlare con un tono di voce normale, anziché urlare, e con un guizzo di pensiero si era detto che in guerra sarebbe stata un comandante coi fiocchi.
«Piccolann» disse, tutto attaccato perché era così che parlavano loro, era affetto, tutto affetto. Lei era la sua figlioletta prediletta, l’unica.
La bimba corse su per le scale, ignorando la madre, e si aggrappò alla gamba del padre.
«Voglio essere un maschio!» disse, ridendo, e l’uomo ridacchiò.
«E per quale motivo, sentiamo?» chiese, iniziando a scendere le scale con la bimba appoggiata al suo piede.
«Voglio fare la pipì in piedi!» disse, più seria, e l’uomo aggrottò la fronte, fermandosi. La scrutò serio, mentre lei sosteneva il suo sguardo un metro e mezzo più su, e poi scoppiò a ridere.
La bambina balzò in piedi, qualche scalino più in là dal padre, come fosse stata respinta da una scossa elettrica.
Lo guardò improvvisamente come se fosse uno sconosciuto, e per due giorni si chiuse nel silenzio, finché lui non si scusò per la risata e le spiegò che essere uomo era molto, molto di più che fare la pipì in piedi.
Gli anni erano passati in fretta, sereni, poi era scoppiata la guerra.
Lui era stato reclutato insieme alla maggior parte degli uomini abili del villaggio, e combattere per portare la pelle a casa era diventato obbligatorio. Nessun altro motivo gli interessava, non era una guerra che gli apparteneva, gli apparteneva solo lottare e gridare «Ann!» e «Loren!» dopo essere stato al fronte per due mesi.
Andò avanti un anno.
Dopodiché, la mazzata sulla testa.
«Papà, io vengo con te».
Aveva 14 anni e la voglia di cambiare il mondo nelle braccia, lui lo sapeva, eppure la sua espressione si indurì e si ritrovò ad urlarle contro. Urlare arrabbiato, mentre dentro gli montava la disperazione e una sola parola si ripeteva all’infinito. No.
Il giorno dopo Ann non venne a salutarlo mentre partiva per il fronte. Lui le urlò che le voleva bene e poi montò sul carro dei commilitoni, e scrutò le facce già conosciute e quelle nuove, dei cadetti appena reclutati, i ragazzini di quindici anni e più.
Non si rese conto di nulla fin quando ad uno dei cadetti non cadde l’elmo di testa e rivelò una folta capigliatura castana, che le forbici dei commilitoni non erano riuscite a domare.
La disperazione montò di nuovo e tanto rivoltò l’accampamento che la fece rinchiudere in una delle celle per i prigionieri.
Ma lei trovò lo stesso il modo di scappare, di combattere, di essere uomo come avrebbe voluto da sempre, di dimostrare a suo padre che valeva come donna e come uomo, lui valeva entrambi insieme.
Ma non sapeva che lui se ne era reso conto già quando Loren, piangendo, gli aveva annunciato: «È una femminuccia».
Ann non sapeva che lui, Kame, sapeva. Sapeva che lei valeva dieci persone e più, cinque maschi e cinque femmine, forse di più di entrambi. Lei valeva tutto. E aveva scelto di dimostrarlo in quella maniera: morendo.
Il Mezzelfo si passò una mano sul viso e il guanto nero di seta assorbì le lacrime che lo imperlavano, leggere e pesanti al tempo stesso.
Il ricordo era, a volte, un’espiazione. Non riusciva a non pensare alla sua bambina, la sua bambina che era stata sacrificata per i capricci di signori che si muovevano guerra a vicenda sulle spalle dei propri popoli.
Quello che aveva smesso di fare prima della nascita di Ann, l’assassino, riemerse con prepotenza nel suo animo distrutto dal dolore.
La freddezza lo invase e lui la accolse come una vecchia amica troppo a lungo lasciata da parte, assorbito com’era dalla sua nuova vita.
E così l’uomo che si era finto con Loren svanì, si rintanò nella parte più nascosta di lui, per lasciare il posto al freddo e spietato assassino che era sempre stato.
Così lui aveva perso ogni umanità, si era gettato nella pura e semplice sopravvivenza animale. Chiedendosi il perché.
Perché Ann, perché lui, perché l’assassino, perché la guerra, perché il rubare, perché il cacciare, perché l’uccidere, perché il salvare quella bambina sconosciuta.
Perché.
Perché?
Le foglie attorno a lui ondeggiarono leggere alla brezza primaverile, e Kame sospirò lasciandosi scivolare nella piccola radura dove dormiva la bambina, sopraffatta da tutti gli eventi della serata.
E d’improvviso ripensò al nome, quel nome che nessuno aveva mai sentito pronunciare dalle sue labbra.
Nimel. Mi chiamo Nimel.
Si ripassò il suo nome nella testa, per non dimenticarlo, per non lasciarlo fuggire nell’oblio.
Perché quando nessuno ti chiama per nome, la realtà sfuma e perde significato, facendoti credere che nulla sia reale, e che tutto sia lecito.
   
 
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