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Autore: GibsonGirl51    01/10/2012    3 recensioni
Agosto duemila. Una donna piuttosto anziana è in una stanza d’ospedale, dormiente. Accanto a lei una bambina che le accarezza la mano, io. Questa è la storia più difficile da scrivere, perché vissuta sulla pelle. Come ho visto il cancro in questi sedici anni, come ci ho convissuto indirettamente. Questo è per te Umi, mi manchi.
Genere: Fluff, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Come tutto cominciò.

Questa è una storia vera, la storia della mia vita fino al diciassette febbraio di quest'anno. Ho trovato la forza di scriverla solo ora, passato il compleanno di quella persona meravigliosa che era la mia migliore amica, la cosa più bella che potessi mai avere, mia nonna. Nella storia faccio spesso errori scrivendo l'articolo davanti al  suo soprannome, ma è voluto, per me è sempre stato così e sempre lo sarà. Non so se vi piacerà come scrivo, ma a prescindere la continuerò, perchè è anche a scopo psicologico, perchè a sedici anni, non si può tenere tutto dentro. Perciò.. buona lettura. Chi è stato nella mia situazione mi capirà benissimo.
 
Ero solo una bambina, lo ricordo a malapena, ma ho molti dettagli ancora in mente. I capelli ricci di mia nonna color grigio topo, il pancione di mia madre e il trasloco da un paese all’altro. Andavo ancora all’asilo, il nonno aveva ancora il mitico camper, e mi veniva a prendere ogni mercoledì e venerdì alla scuola dell’infanzia. Tutti i miei compagni erano gelosi, lo volevano pure loro un nonno come il mio. Non sapevano che la mia famiglia aveva appena passato il peggior periodo fino a quel momento. Non è facile raccontare ad una bambina di cinque anni che la sua nonna preferita, quella materna, tedesca, ha il cancro. In quell’anno Nonno si era dato all’alcoolismo, improvvisamente era sempre allegro e beveva molto più vino del solito, così come nonna aveva qualcosa di strano, ma ero una bambina, non mi rendevo conto di quello che succedeva intorno a me.

Mi ricordo quando Mamma mi disse che avrei avuto un fratellino: finalmente qualcuno con cui giocare! Ma purtroppo il nostro appartamento era troppo piccolo per quattro più un gatto. E fu così che ci trasferimmo nel paese accanto. Fare un trasloco con il pancione non è mai facile, soprattutto se bisogna pure ristrutturare la casa in cui si va ad abitare. Mamma ce la fece benissimo quell’anno, mi chiedo ancora oggi come ce l’abbia fatta. Quell’anno passavo davvero tanto tempo a casa di mia nonna e di nonno, che erano felicissimi di avere la loro unica nipotina a casa. Vivevano in un’appartamento di tre locali e mezzo, davvero piccolo, ma ci stavamo tutti. Adoravo andare sul letto della Umi (dal tedesco “Oma”, nonna), a guardare le foto delle zie e le mie da poppante. Non le vedevo spesso le zie, che in realtà erano prozie, nonostante una abitasse in un paese abbastanza vicino al nostro. Succedeva poche volte l’anno che le vedessi tutte insieme, Umi, Tante Margot, Zio Horst e  Tante Hannelore. Ma era stupendo quando eravamo tutti insieme. Mi riempivano di regali e mi coccolavano di continuo. Ero la loro bimba, e nonostante Margot parlasse solo tedesco c’era sempre Zio Horst a tradurre per me. Tutto era stupendo, ero la principessa di tutti e stavo un sacco di tempo con i miei nonni, mentre i miei genitori si spaccavano la schiena a fare il trasloco, decidere i colori per la nuova casa ed altre mille cose che non mi ricordo. 
Poi arrivò quel giorno. Quel giorno in cui mi risvegliai a casa mia, non sul letto del nonno, con mamma che mi guardava preoccupata. Qualcosa era successa, io non dovevo essere nel nostro appartamento, io dovevo essere dalla Umi. Guardai mia madre confusa e lei si girò verso mio padre. “Ciopys si è svegliata, andiamo.” Mi vestì e venni caricata in macchina con loro. Non capivo che succedesse, mi ero appena svegliata e iniziai a lamentarmi per la fame. Loro mi porsero delle caramelle, che io tutta contenta mi gustai fino all’ultima. Arrivammo all’ospedale, mia mamma corse di sopra e io rimasi in macchina con mio padre che fece un lungo sospiro. “Cosa c’è Papi?” Chiesi. Lui rimase un attimo in silenzio per poi guardarmi serio. “La umi è malata.” Lo guardai confusa. “E cosa ha?” Volevo delle spiegazioni, tutto qui. Ero solo una bambina, non sapevo che sarebbe stata così difficile per lui dirmi cosa aveva. “Una brutta malattia piccola, il cancro.”  “Cosa è il cancro?” “È come un mostro che ti mangia dall’interno, una brutta cosa.” “Ma si può uccidere questo mostro?” Eravamo nel duemila, ricordatevelo, la chemioterapia era ancora sperimentale. “Forse. Non lo sappiamo.” Annuì e scoppiai in lacrime. “Ma questo mostro si mangerà la mia Umi! Devono ucciderlo!” Dopo questo episodio non mi ricordo molto, a parte la nonna in ospedale, piena di tubi, le accarezzavo le mani e piangevo in silenzio mentre dormiva. Poco a poco perse i capelli, ma guarì. Undici anni dopo, la stessa scena, ma con un finale diverso.
E presto vi racconterò come ho passato il mio ultimo anno e mezzo, tra difficoltà e piccoli momenti felici.

   
 
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