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Autore: Valentina Viglione    16/10/2012    4 recensioni
I suoi occhi sono color nocciola, un intenso nocciola che ora mi fissa accusandomi. So benissimo che quegli occhi, come tutti gli occhi che ho visto guardarmi mentre morivano,mi perseguiteranno negli incubi. Continueranno a guardarmi e ad accusarmi di un atto orribile che compio ogni giorno. Il suo corpo cade a terra e io avvolgo la lama in un tovagliolo tutto di fretta. Mi dispiace. Non immagini quanto. Chissà cosa sta pensando tua madre non vedendoti rientrare. Chissà cosa penserà il tuo ragazzo. Chissà se ne avevi uno. Se avevi una persona da amare. Io non ne ho, non ne ho mai avuta una. E poi, chi mai potrebbe amare una persona che toglie la vita? Io devo rimanere freddo con le mie vittime. Ma non preoccuparti. Ora andrai in un posto migliore di questa vita ingiusta e crudele. Tu andrai in paradiso. Io invece sono destinato ad un inferno eterno. Un inferno che in parte, sto già vivendo.
Genere: Romantico, Drammatico, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo n° 7

 

 

Fuori è buio.

Controllo l’ora sull’orologio appoggiato al comodino. Sono le 11 di sera.

Una delle giornate più strane della mia vita si sta per concludere.

E’ buffo in un certo senso. Io, una persona che generalmente non ha mai una giornata “normale”, come si suol dire, trova strana una giornata che per qualsiasi altra persona sarebbe noiosa, monotona, normale.

In fondo cosa ho fatto di così strano? Sono andato a scuola. Spacciandomi per un diciassettenne.

Qual è la cosa strana in tutto questo?

Forse il fatto che lo fai con l’obbiettivo di uccidere gente genio!

Si, probabilmente è proprio questo ultimo punto a farmi sembrare tutto sbagliato. Come al solito.

Non esiste una giornata normale per me.

Per un uomo non dovrebbe mai considerarsi normale vivere, fare qualsiasi cosa durante la sua giornata, con l’unico scopo di ammazzare.

Ma io… io vivo per questo.

Io vivo di questo.

Sospiro profondamente. Sono nel mio appartamento, e di regola dovrei andare a dormire, ma fa troppo caldo per riuscirci.

Passo un braccio sulla fronte trovandola impregnata di sudore.

Non capisco se la temperatura sia veramente calda oppure se dipenda da me, dai miei pensieri agitati se sono così sudato.

Batto un po’ di volte le mani sulle ginocchia e poi mi alzo velocemente dirigendomi fuori dalla porta. Prima di uscire prendo dall’attaccapanni la mia felpa nera. Anche se ho caldo, ovunque vado devo passare inosservato.

Fuori l’aria è molto più fresca e c’è anche un po’ di vento che subito mi asciuga il sudore e mi calma.

Inizio a camminare senza una vera meta, lentamente, cercando comunque di ricordarmi la strada per poi riuscire a tornare all’appartamento senza troppi problemi.

In strada non c’è quasi nessuno. Sono passate solo 3 macchine da quando sono fuori ed una bicicletta guidata da un ragazzino che si divertiva a fare acrobazie.

Sarebbe stato investito prima o poi, ma non mi preoccupai neanche di sgridarlo. Lo lasciai passare davanti a me, davanti alla mia esistenza come se fosse stato solo un grumo di polvere invisibile e veloce come il vento. Non mi vede ed io non faccio caso a lui, non ha importanza per me, niente ha veramente importanza. Non per me.

Niente e nessuno.

L’unico a cui farei notare un pericolo, sarebbe Edoardo, poiché solo di lui mi importa veramente.

Lui è il mio migliore amico, non che l’unico. Gli altri non sono niente.

Arrivo in piazza. Non c’ero mai stato, non ci avevo mai messo piede prima, e l’unico motivo per cui riconosco che è la piazza è perché noto, il grande, importante, maestoso edificio che si para davanti a me.

La Chiesa.

Il posto in cui all’orfanotrofio ci costringevano ad andare ogni domenica.

Il posto in cui non ho mai più messo piede dopo che ero finalmente uscito dall’orfanotrofio.

Il posto in cui io non meriterei di entrare anche se volessi farlo.

Sbuffo, metto le mani in tasca e do un calcio ad una lattina.

Il rumore metallico della lattina è l’unico suono udibile in questo momento. Oltre ad un paio di tacchi.

Alzo lo sguardo per identificare la donna, perché un uomo con i tacchi è difficile trovarlo in giro, che gira da sola a quest’ora.

Cammina nella via opposta alla mia, ed è di fretta.

Guardo il viso e mi sorprendo quando riconosco in quella donna coi tacchi la mia professoressa.

La professoressa… Fredin? No forse Fridam… Bah non ha importanza.

Prendo una decisione su due piedi.

Tornare a casa, al caldo e provare a dormire, o togliersi subito il pensiero?

La parte più umana di me sceglie la prima opzione, ma il killer prende il sopravvento.

Perché aspettare? Tanto prima o poi dovrai farlo lo stesso.

Con sguardo basso,scuro, oserei dire persino mortificato seguo la donna.

Controllo nelle tasche dei pantaloni. Dovrei averlo portato con me come al solito. Ed infatti eccolo qui.

Il mio coltellino.

 

La mia professoressa è brava a camminare coi tacchi, e non si fa scrupoli nel camminare velocemente.

Ad un tratto si ferma, tira qualcosa fuori dalla tasca e si dirige vicino ad un secchio della spazzatura, probabilmente ha qualche cartaccia inutile da buttare.

Il tempo di guardarmi in torno in cerca di telecamere, di mettere il cappuccio della felpa, di constatare che vicino al secchio dell’immondizia c’è un vicolo buio e di impugnare saldamente il coltellino è di pochi secondi.

Così appena la donna ha buttato la spazzatura fa per riprendere il passo verso caso.

Fa due passi. Gli ultimi.

Ed è un attimo.

Un attimo in cui scollego il cervello.

Un attimo in cui non penso per far si che la ragione non fermi il mio braccio.

Un attimo in cui sul collo della donna viene segnata una riga.

Una riga di sangue. E la donna non fa in tempo a riconoscermi neppure, che è già a terra.

Gli occhi spalancati.

 

Nessuna parte del mio corpo l’ha sfiorata, solo il coltellino ha avuto contatto con lei.

Lei che non c’è più.

Meno uno dalla lista, dovrei dire.

Ma chiudo gli occhi cercando di non posare più lo sguardo sul corpo ormai senza vita e me ne vado.

Direi proprio che è ora di tornare a provare a dormire.

Ma la cosa strana, di questo assurdo giorno, è che non sogno la donna appena uccisa.

I fantasmi delle mie vittime non vengono ad accusarmi come ogni notte.

No.

Sogno invece una ragazza dal viso dolce, dai capelli chiari e lisci, e con la lingua biforcuta.

   
 
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