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Autore: Msstellina001    31/10/2012    5 recensioni
Vi siete mai chiesti cosa accadde ad Arizona Robbins durante i suoi primi mesi al Seattle Grace Hospital, tutto quello che le accadde sin dal suo primo giorno e che negli episodi televisivi non hanno fatto vedere, ma hanno solo accennato? Ho pensato un po' e mi sono fatta una mia idea!
Ammetto però, che è la prima volta che scrivo, quindi non aspettatevi chissà cosa!
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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Vi chiedo umilmente scusa per tutto questo ritardo. Ma sono stata veramente impegnata tra famiglia e università e non ce l’ho fatta ad aggiornare prima. Scusate veramente.
Ora, ringrazio veramente tanto, tutti coloro che hanno recensito e messo la storia tra le preferite o le seguite o chi ha semplicemente letto!
Vi ringrazio veramente molto.
Questo, è di nuovo un capitolo un po’ particolare e forse non sarà l’unico, credo che anche il prossimo sarà dello stesso genere, dipende dall’ispirazione e da quanto Shonda mi farà impazzire tra pause e tragedie varie!
Che altro dire … buona lettura e spero vi piaccia!

 

PALLOTTOLE, VISIONI, AEREI 
 
Mi precipitai verso il corridoio da cui la chiamata veniva, cercando di aggiustarmi al meglio il camice.
”Sono sveglia, sono qui, che succede?” Chiesi alla Bailey, mentre svoltavo nel corridoio da cui mi aveva chiamato.
 ”Salve, la pressione di Jackson è un po’ scesa rispetto a ieri, niente di preoccupante, ma, con qualche telefonata e insistendo, magari potremmo farlo salire di qualche posto nella lista dei trapianti.” La sua voce era incerta.
Mi venne incontro a metà del corridoio allontanandosi dalla camera che stava guardando fino a due secondi prima.
“Dottoressa Bailey! Mi ha convocata d’urgenza alle due e mezza di mattina, per chiacchierare?” Chiesi alterandomi, ma sempre con una nota simpatica nel tono.
“A lei piace chiacchierare! E’ una chiacchierona!”
“Non alle due e mezza di mattina! Senta, è piccolo, è quasi in cima alla lista, l’UNOS  gli troverà gli organi quando saranno disponibili, stare svegli tutta la notte a parlarne, non servirà a niente.” Sospirai, e mi allontanai un po’ da lei.
 “Vado a dormire un po’, faccia altrettanto!” Le dissi nel tono più tranquillo che potessi trovare.
“Gli resta poco tempo.” Il suo sguardo passò dalla finestra della camera di Jackson a me in una frazione di secondo, tutta la sua insicurezza era impressa nel tono della sua voce.
“E’ sempre così, benvenuta in pediatria.”
Mi girai, alzando le spalle, ormai ero abituata a questi drammi, con i bambini ci si fa l’abitudine. Non che non provassi emozioni, ma bene o male, le riuscivo a tenere sottocontrollo, almeno in apparenza.
La Bailey mi aveva svegliato proprio sul più bello, dannazione!
E per l’ansia che quella chiamata, nel cuore della notte, mi aveva messo, il sonno era scomparso.
Dovevo riuscire a chiudere gli occhi un altro poco.
Mi avviai nuovamente verso la stanza del medico di guardia, ma non potei neanche aprire la porta, perché dagli eloquenti rumori, si capiva benissimo che qualcuno là dentro, non stava assolutamente dormendo!
Mi voltai e andai al bancone, sbuffando.
Ormai ero sveglia e anche se avevo detto alla Bailey che era inutile agitarsi, decisi di fare qualche telefonata all’UNOS, per cercare di smuovere qualcosa per Jackson, giacché si stava molto aggravando.
"Qui UNOS, desidera?" mi rispose una voce di uomo, profonda e molto sveglia, nonostante l’ora.
"Salve sono la dottoressa Robbins, la chiamo dal reparto di pediatria chirurgica del Seattle Grace. Senta io, qui, ho un bambino, Jackson Prescott, è stato messo in lista per un trapianto di fegato e intestino. Siccome è quasi in cima alla lista, mi chiedevo se, se per caso, ci fossero delle novità riguardo gli organi?" cercai di usare una voce sicura e autoritaria, ma non credo avessi fatto del mio meglio, visto che mi sentii rispondere con una voce al quanto alterata.
"Senta, lo sa quante volte al giorno, riceviamo telefonate del genere? Voi chirurghi credete che gli organi crescano sugli alberi? Le persone muoiono e voi chiedete, chiedete e chiedete. Non sapete fare altro? Gli organi arriveranno quando saranno disponibili."
"Come si permette di giudicarmi, io sto facendo il mio lavoro, lei veda di fare il suo, e mi trovi questi maledetti organi".
Riagganciai la cornetta in malo modo, e mi accorsi di essere osservata.
"Arizona, stavo per venirti a chiamare. Va tutto bene?" Aggiunse guardando il mio volto arrossato, forse perché avevo urlato un po’ troppo al telefono.
"Noeel!” Esclamai sorridendo.“Tutto ok, solo un guaio con l’UNOS, si sistemerà tutto, speriamo. Mi volevi chiamare per?"
"Va bene, se vuoi, li richiamo io a quelli dell’UNOS, sai che mi conoscono bene là!" Mi sorrise facendomi l'occhiolino.
"Sì, me le ricordo le tue conoscenze maschili, molto approfondite! Dai adesso dimmi qual è il problema?" Dissi sorridendo.
"Giusto, ci ha avvertito l’ambulanza che ci sta trasportando un bambino che è rimasto coinvolto in una sparatoria, il proiettile è rimasto in sede, è stato colpito ad un braccio, puoi venire anche tu, te la senti?”
“Sì, me la sento, perché non dovrei sentirmela, sono reperibile, perché non dovrei sentirmela?!” Dissi, con la voce che mi tremava, tanto che ne rimasi sorpresa.
Noeel mi guardò sospettosa:
“Mi ricordo che le sparatorie ti hanno sempre fatto un brutto effetto da quando …” Si bloccò improvvisamente, come se avesse un rospo in gola, che non riuscisse a mandare né su né giù.
La guardai, sapevo perché si fosse bloccata, in fondo, quello che era successo, aveva toccato anche lei, era da poco, ma lei era la sua ragazza.
 
La luce filtrava dalla finestra, le tende tirate.
Ero seduta sul divano, il libro di chirurgia in mano, una pila di appunti accanto a me.
Mia madre e mio padre parlavano a bassa voce in cucina per non disturbarmi. Potevo vedere il pulviscolo che vagava per la stanza, indorato dalla flebile luce del sole che riusciva a passare attraverso la coltre spessa delle tende.
Il campanello suonò.
Aprii la porta.
Un ufficiale dell’esercito apparve davanti a me, una lettera in mano, chiese di mio padre.
Lui era già alle mie spalle, afferrò la lettera che l’ufficiale gli stava porgendo, vidi mia madre mettersi le mani davanti alla bocca, il militare si tolse il cappello.
La lettera cadde dalle mani di mio padre, la afferrai da terra, riuscii a leggere solo poche parole:
Timothy Robbins, durante una sparatoria, cercava di salvare i compagni rimasti intrappolati, è saltato in aria con una granata, le nostre più sentite condoglianze.
 
Il ricordo di quel giorno mi assalì improvviso.
Un terremoto scatenatosi nel più profondo del mio cuore.
Mi aggrovigliò i visceri, facendomi del male.
Sentii le gambe cedermi, le gocce di sudore scendermi, fredde, lungo la schiena.
Poi delle mani mi presero, sentii delle mani appoggiarsi sulle mie spalle e scuotermi.
“Arizona? Arizona? Riprenditi, smettila di pensare a Tim. Arizona è passato, lascia stare, lascia andare i pensieri. Smettila e reagisci.”
Sentii la voce di Noeel farsi sempre più chiara, prima sembrava ovattata, poi sempre più forte. Finché non rimbombò quasi dentro il mio orecchio.
Mi stava abbracciando, io ero lì, le gambe mi reggevano quasi per miracolo.
Scossi la testa, cercando di scacciare quei ricordi.
Noeel mi fissava, cercando di capire se fossi scoppiata a piangere o fosse tutto passato.
Sentivo il cuore che mi pulsava nelle orecchie, piano, piano riuscii a mettere a fuoco la stanza, i colori tornarono alla normalità.
Erano anni ormai che non rivivevo quel momento, l’avevo sognato qualche volta, ma mai mi era successo di rivederlo davanti ai miei occhi.
“Sì, sto bene, scusami, non so cosa mi sia preso.” Dissi con la voce un po’ più sicura.
Respirai profondamente.
“Ok, andiamo da questo bambino, basta perdere tempo.” Il mio tono era tornato quello di sempre, calmo e tranquillo, ora sapevo che niente mi avrebbe impedito di aiutare il bambino.
Arrivammo al pronto soccorso appena in tempo per assistere all’arrivo dell’ambulanza.
Il reparto era affollatissimo, molte persone erano rimaste coinvolte nella sparatoria e il bambino sembrava essere quello meno grave.
 Feci una rapida ma accurata visita al bambino, il proiettile aveva attraversato il braccio in obliquo dall’alto verso il basso, fermandosi quasi in superficie. Fortunatamente non aveva fatto grossi danni, avevo già liberato una sala operatoria e ce lo portammo di corsa.
L'intervento fu pressoché rapido.
Dovetti allargare un po’ la fessura delle ferite per rendermi conto dei reali danni causati dal proiettile. Trovai il proiettile incastrato nella mano, insieme al dottor Small di traumatologia, lo estrassi.
Ricucii i tessuti lacerati, decidemmo che il gesso per tenergli fermo il braccio durante la convalescenza, glielo avremmo messo dopo, prima di svegliarlo.
Lo feci portare in terapia intensiva, per tenerlo sotto controllo nel post operatorio. Per vedere se il proiettile aveva già causato un’infezione.
Rimasi un po’ accanto al letto del bambino, non volevo che stesse da solo, anche se era ferito solo lievemente. Così aspettai con lui l’arrivo dei suoi genitori.
Gli stringevo la mano, quei capelli biondi corti erano illuminati dalla luce al neon della stanza, non so perché, ma mi ero affezionata a quel bambino più del dovuto.
Forse perché mi ricordava Tim.
Sentii dei passi alle mie spalle, vidi arrivare due persone accompagnate da Noeel.
Erano i genitori di Francesco.
Vidi la madre precipitarsi al letto del bambino, strinse la mano del figlio, bisbigliava parole dolci passando una mano delicatamente sul viso del piccolo, la voce le tremava, e vidi delle lacrime scenderle, erano lacrime di paura, ma anche di gioia, alla fine il suo bambino si era salvato.
Il padre rimase un po’ indietro una mano sulla spalla della moglie, per farle sentire la sua presenza, la paura che spariva lentamente dagli occhi, Lo sguardo immobile, a fissare quel tubo che usciva dalla gola del figlio.
 
L’hangar era grande.
La luce entrava dalle porte spalancate.
Si vedeva la sagoma di un grande aereo, fermo là fuori.
Un gruppo di militari portava in spalla una bara, con sopra la bandiera americana, facevano da ala, altri militari, molti ufficiali. Stavano sull’attenti, immobili.
Un grido mi riempì le orecchie.
Vidi mia madre accasciarsi a terra, Noeel cercava di sostenerla, la prese sottobraccio e la portò fuori.
L’eco delle sue grida riempirono quell’hangar, grigio e freddo.
Mio padre rimase immobile, senza mostrare nulla, ma i suoi occhi parlavano per lui.
La paura di non riuscir a sopravvivere a questa perdita, era impressa nelle sue iridi e lì sarebbe rimasta per molto, molto tempo.
Fissai quella bara coperta da una bandiera, mio fratello non era lì dentro.
Di lui non era rimasto nulla.
Una bandiera era tutto quello che avevamo.
Non piansi, il mio orgoglio me lo impediva, il mio cuore batteva normale.
Non provavo più nulla, non sentivo nulla.
Una parte di me se ne era andata con lui e chissà se sarei mai tornata a sorridere.
Una mano si appoggiò sulla mia spalla, mi girai, mi ritrovai i suoi occhi davanti al viso, il volto era serio, ma dicevano che lui sarebbe rimasto, lui, la mia roccia, Nick, il nostro migliore amico, ormai solo mio.
Lui non mi avrebbe abbandonato.
 
La stanza tornò a fuoco davanti a me così all’improvviso, che strinsi gli occhi quasi accecata dalla luce, Noeel stava spiegando cosa fosse successo ai genitori e cosa avremmo fatto poi.
I suoi occhi si spostavano dai genitori a me, ogni cinque secondi.
Sentivo i battiti del mio cuore fin dentro le orecchie, lo stomaco sembrava si stesse aggrovigliando dentro di me.
Avevo bisogno di andarmene da lì, mi precipitai fuori con la scusa di un’emergenza.
Aprii la prima porta che dava sulle scale, e appoggiai la testa al vetro freddo.
Odiavo reagire in quel modo, di solito sapevo tenere sotto controllo le mie emozioni, ero brava a tenermi dentro le cose, ma avevo come la sensazione che, di lì a poco, sarebbe successo qualcosa che avrei fatto contro voglia. Poi tutte quelle visioni, non facevano altro che mettermi ancora più angoscia.
Sentii la porta aprirsi alle mie spalle, mi girai lentamente, respirando profondamente.
Noeel entrò piano, piano, strisciando attraverso la porta che aveva appena sfressurato.
“Stai bene?” Mi chiese preoccupata.
“Sì, sto bene, non so che mi è preso oggi.” Dissi continuando a respirare profondamente, e riuscendo infine a guardarla negli occhi.
Mi mise una mano sulla guancia e mi accarezzò delicatamente.
“Arizona … smettila di pensare a Timothy, non ti fa bene, hai una faccia stanchissima e siamo solo all’inizio del turno, se continui così, non ci arriverai alla fine.” Mi sussurrò con voce lieve e delicata senza togliere la mano dalla mia guancia, aveva cominciato anche a disegnare dei cerchi concentrici con il pollice.
Quel movimento regolare e senza interruzione, mi rilassava, chiusi gli occhi e respirai.
Finalmente avevo la testa libera dai pensieri, a parte quella sensazione persistente che qualcosa di poco piacevole sarebbe accaduto di lì a poco.
Riaprii gli occhi, e mi ritrovai a fissare il mio riflesso in quelli chiari di Noeel, mi avvicinai lentamente al suo viso, forse inconsapevolmente.
Lei mi bloccò ridendo.
“Arizona che fai? Non vorrai mica baciarmi?” E scoppiò in una sonora risata.
Che diavolo mi prendeva? Volevo baciare l’unica vera amica che avevo in quella città, l’unica che conosceva il mio passato e che riusciva a capirmi al primo sguardo, anche se erano anni che non ci parlavamo più?
Scossi la testa e scoppiai a ridere anch’io.
“No no per carità! Non ho nessuna intenzione di rovinare la nostra amicizia! Troverò il modo per consolarmi!” Le dissi facendole l’occhiolino.
“So io cosa ti ci vuole, un bel caffè, dalla stanza dei medici! Dai andiamo” Mi prese per mano e mi trascinò, letteralmente, per tutto il reparto di pediatria, mentre io scivolavo sui miei pattini a rotelle!
Entrammo nella stanza e la trovammo completamente deserta, mi fece sedere e cominciò a prepararmi il caffè, quando la porta si aprì ed entrò Coleen, l’infermiera di ortopedia.
Mi misi a fissarla con sguardo interrogativo, poiché lei sembrava non volesse pronunciare alcuna parola, ma continuava a passare lo sguardo da me a Noeel.
“Coleen?” Richiamai la sua attenzione.
Al suono della mia voce, Noeel si girò verso di lei e Coleen sussultò uscendo da quella specie di trance in cui era entrata.
“Dottoressa Robbins mi scusi, mi hanno mandato a cercarla da reparto, mi hanno detto di chiederle che, se per lei va bene, saremmo pronti a mettere il gesso a Francesco: ” Disse con una voce molto titubante.
Il suo sguardo divenne ancora più perplesso quando Coleen mi abbracciò passandomi il caffè.
“Va benissimo, pensaci tu a Francesco, portalo pure a reparto, lo verrò a controllare dopo, grazie mille di avermi avvertito!”
Sembrava che i piedi si fossero incollati al suolo, perché non accennava il minimo movimento, continuava a far passare lo sguardo da me a Noeel che ora in uno slancio di particolare affetto, aveva messo la sua mano sulla mia mentre sfogliava una rivista medica.
“Coleen qualche problema?” le chiesi allora io per sbloccarla, visto che quel fissare cominciava a darmi fastidio.
“No nessun problema, solo che mi chiedevo, se … no niente tutto a posto non volevo nulla, a parte mi chiedevo se voleva prendere un caffè … più tardi … con me … in caffetteria. Ma vedo che è già impegnata, quindi no … niente … glielo chiederò un’altra volta!” Un sorriso timido le apparve in volto.
Noeel scoppiò a ridere e senza sapere come riuscì a dire:
“Arizona … sei fantastica! Riesci a trovare il modo per consolarti anche senza cercarlo! Ok, credo di aver capito che vi devo lasciare sole!” Si alzò passando una mano sopra le mie spalle.
“Arizona ci vediamo più tardi, se non sarai impegnata! Voglio sentire come stai.” Aggiunse mettendo la mano sulla maniglia della porta e lanciando un debole sorriso a Coleen.
Noeel se ne andò, senza che mi desse il tempo di fermarla.
Coleen si girò a guardarla andare via e poi concentrò il suo sguardo su di me.
 Aveva un sorrisetto furbo, che molte volte avevo rivisto sui miei pazienti, dopo aver fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare.
Poi sul serio, aveva i lineamenti da ragazza e sicuramente aveva almeno otto anni meno di me.
“Sei una ragazzina!” mi lasciai sfuggire.
“Come scusi?” Mi chiese, molto probabilmente perché non riusciva ad afferrare, come mai lo avessi detto proprio in quel momento.
“Sei una ragazzina, avrai, non so, quanti anni meno di me? Otto, dieci?” Le ripetei, spiegandomi meglio.
“In verità dovrebbero essere undici, ma non vedo quale sia il problema!” Disse con un sorriso furbo.
“Il problema è che io son un tuo superiore e sono molto più grande di te, tu sarai al primo mese di lavoro, e magari anche alla tua prima …” La vidi avvicinarsi verso di me piano, piano, le mani in tasca, un aria di sfida in volto.
Ok era una ragazzina, ma come ci sapeva fare!
Mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio, dischiuse le labbra, sentii il suo profumo invadere le mie narici.
“Sono alla mia prima cosa?” Bisbigliò avvicinandosi ancora di più.
 
La mia stanza.
Era un pomeriggio caldo.
La luce entrava dalla finestra aperta, portando dentro quella leggera brezza primaverile.
Avevo la mano sul suo fianco, abbracciandola.
Lei mi stava sopra, aveva appoggiato la testa sul mio petto.
Stavamo leggendo un libro insieme, quando alzò la testa e mi guardò.
Mi girai e mi persi nei suoi occhi.
Joanne.
Mi piaceva da morire quella ragazza.
Sempre sorridente, sembrava una bambina in perenne eccitazione per l’arrivo di Babbo Natale.
Sentii le sue labbra sulle mie.
Il mio primo bacio.
Mosse lentamente le labbra, cercando di aumentare ancora di più il contatto tra noi.
Come la cosa più semplice del mondo, quel bacio fiorì dal nulla e mi attorcigliò lo stomaco.
Non riuscivo a pensare più nulla, se non alle sue labbra sulle mie.
 
Sentii qualcosa di morbido tra le labbra.
Aprii gli occhi, che chissà come, avevo chiuso.
Trovai Coleen che aveva appoggiato delicatamente la sua bocca sulla mia.
“No, non posso.” Mi staccai da lei.
Lei mi guardò confusa.
“Mi dispiace non posso.” Bisbigliai.
Non potevo baciarla mentre in realtà mi ritrovavo a rivivere il mio primo bacio.
Ero crudele e senza cuore, magari cambiavo donna con la stessa frequenza con cui si cambiano calzini, ma alla fine un po’ di sentimento l’avevo, soprattutto perché lei era una ragazzina e non volevo baciarla mentre pensavo ad un’altra.
“Ma perché? Non mi dirà che centra l’età vero?” Disse titubante e leggermente offesa.
“Un po’ anche l’età! Mi dispiace, non posso spiegarti, non ti sto dicendo no, ti sto dicendo non adesso.” Le dissi cercando di tranquillizzarla.
“Ma …”
Non riuscì a finire la frase, il suo cercapersone squillò.
“Accidenti, mi ero scordata di Francesco, mi scusi, devo andare, ma … ci rivediamo presto vero?” Mi disse titubante.
“Vai, ne riparleremo. Tratta bene il mio paziente!” Le dissi sorridendo.
Ero stremata.
Nel momento che uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta, mi presi la testa tra le mani e mi premei forte le tempie come per cercare di comprimere tutto quel grande macello di pensieri.
Avevo bisogno di un altro caffè.
Mi alzai e me lo versai, quando sentii la voce della Bailey alle mie spalle.
“Ho preparato una lista con i migliori gastroenterologi pediatrici del paese, una di noi potrebbe convincerne uno a venire ed eseguire una TIPS su di lui” Disse lei, senza quasi riprendere il fiato, io mi volsi a guardarla, mentre giravo il mio caffè con il cucchiaino.
“Fare una TIPS su un bambino cui serve un fegato nuovo?” Chiesi molto titubante.
“Sì!” Mi sorrise.
“Un cerotto su una ferita d’arma da fuoco!” Dissi sarcastica.
“Ha un’idea migliore?” Chiese lei subito indispettita.
“Certo! Aspettare la UNOS, avere fiducia, perché lei non ci riesce?!”
“Perché sono stanca di aspettare mentre il bambino peggiora.”.
Presi un sorso del mio caffè e la lasciai parlare,mentre il suo tono aumentava sempre più, aspettando che scatenasse il suo melodramma.
“ Jackson è stanco e anche sua madre, l’unica persona che sembra felice di starsene con le mani in mano ad aspettare è lei …”.
Questo era troppo di nuovo, questa specializzanda non aveva il senso della misura, bisognava di nuovo intervenire pesantemente.
“Senta, ho avuto pazienza con lei, sono stata gentile, ma mi sono stancata …”.
“Ehi..” Sentii una voce di uomo tentare di richiamare la nostra attenzione, ma non ci feci caso più di tanto, avevo già mille problemi di mio, non volevo certo farmi maltrattare da una specializzanda qualunque.
“.. di sentirmi dire da lei come devo fare il mio lavoro d’accordo …”  Urlai anchio.
“Ehm..” Ancora di nuovo l’intruso cercò di parlare.
“D’accordo ..” Provò a bloccarmi la Bailey, ma ormai ero inarrestabile.
“..Dottoressa Bailey..” Karev, l’intruso, alzò la voce un po’ di più per cercare di calmarci.
“…. ho altri venti bambini in reparto …” Urlai contro la Bailey.
 “… son preoccupata per questo bambino …” Incalzò lei.
“..state zitte! Con rispetto parlando, zitte con rispetto parlando, perché abbiamo gli organi.” Disse Karev bloccandoci e urlando.
Tutte e due ci girammo a guardarlo con il fiatone per quanto avevamo urlato, rimanendo così senza parole, perché la notizia che avevamo tanto aspettato era finalmente arrivata.
“Ok Karev, per che ora ce li manderanno?” Chiesi io prendendo le redini del gioco in mano.
“Veramente ho parlato con l'UNOS e non possono mandarceli, dobbiamo andare noi a prenderli. C’è un aereo che ci aspetta all’aeroporto qua vicino.”
Aereo?
Ok, ecco che la brutta sensazione che avevo si avverava.
Odio volare.
Non sopporto gli aerei.
Mi sento più vicina alla morte quando volo.
Sospirai.
“Ok mi vado a cambiare ci vediamo nella hall. Karev tu verrai con me.” Dissi con tono autoritario e uscii dalla stanza senza degnare di uno sguardo la Bailey.
Bene, questo era il momento, la mia paura per gli aerei stava per essere messa alla prova.
 
 

 
Alcune note finali: ho cercato ovunque, letteralmente, notizie su interventi per asportare pallottole, persino sul manuale di chirurgia di una mia amica, ma non ho trovato nulla. Quindi se quell’intervento è descritto male, qualcuno me lo dica per favore perché cercherò di porvi rimedio, ma sul serio non sapevo più dove sbattere la testa.
Altra cosa, UNUS, non so se si scrive così o meno, ho cercato in internet qualunque banca degli organi americana, ma di lei nessuna traccia, quindi, tra la pronuncia italiana e quella inglese ho tirato fuori questa sigla qui, come per l’intervento, se fosse sbagliato, sarei molto felice di saperlo.
Grazie di nuovo a tutti coloro che leggeranno . Come sempre, ogni commento è ben accetto.
Grazie mille di nuovo per la pazienza.
  
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