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Autore: Falling_for_you    20/11/2012    2 recensioni
"La prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le sfumature dei colori.
Pensai che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi dissi, i bambini sono colorati e non sono mai soli.
La seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.
Scoprii quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si apprestava ad aprire il forno.
La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Il ragazzo della finestra di fronte


OCCHI CHE NON VEDONO

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Lo sguardo alle volte può farsi carne,

unire due persone più di un abbraccio.



6 Novembre 1997


La prima volta che lo vidi avevo sette anni, un orrendo taglio a caschetto e ridicoli fuseaux rosso vermiglio appiccicati addosso come una seconda pelle e magnificamente abbinati a un maglione verde mela fatto ai ferri da mia nonna Ines. Tenevo stretto, tra le dita della mano destra, il corpicino di una barbie anoressica, accuratamente agghindata con vestiti alla moda e scarpe con tacco dodici mentre con l'altra mi aggrappavo alla lunga gonna nera di mia madre. Piccoli occhiali con le lenti rotonde gravavano in bilico sul mio naso mentre un'insolita fitta neve scendeva lenta ricoprendo le strade di un manto bianco da almeno due giorni; dicevano che non nevicava così incessantemente da trent'anni.


La prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le sfumature dei colori.


La prima volta che lo vidi aveva un buffo cappello grigio con un pon pon in testa, un paio di jeans strappati sulle cosce e una giacca nera, forse un po' troppo striminzita per essere della sua taglia, a coprirlo dal freddo. Teneva strette le mani nelle tasche camminando a testa bassa sul vialetto sciatto della casa di fronte alla mia, la casa dell'uomo nero, dei fantasmi e del lupo cattivo.

Era solo, nessuno a cui aggrapparsi per non scivolare era lì ad aspettarlo.


Pensai che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi dissi, i bambini sono colorati e non sono mai soli. Ancora, però, non potevo sapere che per lui non c'è mai stata l'età dell'innocenza.

22 Marzo 1997


La seconda volta che lo vidi il mandorlo in giardino era in fiore, mio padre era impegnato nell'ardua impresa di montarvi su di un ramo un' altalena il cui sedile era la ruota della nostra vecchia Fiat Cinquecento e mio fratello camminava frenetico e ansioso di fronte al nostro cancelletto di ingresso indossando il completo della domenica. In casa si respirava odore di lasagne, di pollo arrosto e di patate al forno e la tavola era stranamente apparecchiata per cinque.

Il sole era caldo e avevo un vestito a fiori rossi, che mia madre mi aveva obbligato ad indossare nonostante non amassi le gonne, e i capelli erano raccolti in corte trecce alla Pippi Calzelunghe. Saltavo e correvo, sporcandomi le scarpe bianche di fango, attorno a mio padre mentre mia madre, invano, gli gridava dalla finestra della cucina di agguantarmi per spedirmi dritta da lei. Quel giorno continuai a dimenarmi per il cortile finché lui non arrivò, già da allora ero “la preferita” di mio padre.


L'erba del suo giardino era poco più bassa di me, non c'erano fiori né altalene. La sua casa era inodore, incolore, silenziosa, disabitata, avrei detto abbandonata se non fosse stato per le urla che talvolta la notte mi costringevano a tapparmi le orecchie per paura che l'uomo nero potesse venire anche da me. Ancora non potevo sapere che i fantasmi, gli orchi e i lupi cattivi possono essere più vicini di quanto sembrino.


La seconda volta che lo vidi era solo mentre attraversava la strada per raggiungere casa nostra. Aveva una camicia con dei grandi scacchi neri e bianchi, la testa bassa e le mani nascoste nelle tasche, rimase titubante di fronte al cancelletto spostando il peso del proprio corpo da un piede all'altro fin quando mio fratello non lo tirò dentro afferrandolo per un braccio e tenendolo stretto a sé. Quella volta lo capii subito che il loro era già amore.


La seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.

Scoprii quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si apprestava ad aprire il forno.


Quella fu la prima e l'ultima volta che entrò in casa mia, ancora però non sapevo che il mio mondo non lo avrebbe abbandonato con la stessa facilità.


4 Luglio 2005


La terza volta che lo vidi avevo quindici anni, il caldo torrido estivo era soffocante ed era notte fonda. Nonostante ciò, fuori imperversava un acquazzone, i rami del mandorlo battevano convulsi sui vetri della finestra ed io stavo comodamente stesa sul mio letto nella penombra della camera rischiarata dalla fievole luce della lampada con “Orgoglio e Pregiudizio” stretto tra le mani. Mi chiesi se anch'io, come Lizzie, mi sarei lasciata sfuggire da sotto il naso un Mister Darcy per poi costringermi a rincorrerlo per non perderlo definitivamente.

Distinsi chiaramente la disinibita e allegra voce di mio fratello rimbombare tra le mura dei palazzi del vicinato nel tentativo di cantare con tutto l'ardore possibile “Il coccodrillo come fa?”, intervallata da sporadici singhiozzi di dolore e di risa. Mi affacciai e un sorriso divertito affiorò sulle mie labbra nel vedere Italo, fradicio, urlare a perdifiato con le braccia rivolte verso il cielo mentre lui lo colpiva con dei pugni sui fianchi per farlo azzittire.


Mio fratello Italo era ubriaco e non appena aprii la porta di casa non si curò per nulla della mia presenza ma si dileguò svelto al piano di sopra con ancora un risolino stampato in volto, non prima però di aver sferrato una pacca sulla spalla a quello che, capii in quel momento, era ormai diventato per lui un fratello. Quella volta mi chiesi perché lui lo avesse scelto, perché si fosse affidato a quello stesso Italo campione dei secchioni che fino a quel momento era riuscito a pararsi il culo solo perché bello e abile con le femmine. Forse perché erano simili o più probabilmente perché erano talmente diversi da abbisognarsi a vicenda, necessariamente. Gli opposti si attraggono sempre: è una legge fisica.


La terza volta che lo vidi avevo quindici anni, ero scalza, indossavo il pigiama con disegnate sopra le stelle e i cavallucci marini e avevo i capelli scarmigliati. Rimasi immobile a fissare la sua figura stagliata di fronte alla mia domandandomi se si ricordasse di me, di quella bambina con le scarpe bianche sporche di fango, il vestito con i fiori rossi e le trecce alla Pippi Calzelunghe.


Lui aveva diciannove anni, era fradicio e indossava una maglia nera e un paio di jeans. Lente impertinenti gocce di pioggia fluivano lungo il profilo del suo naso, delle sue labbra e poi giù, lungo il collo fino ad avvallarsi nelle cavità delle scapole, lì dove non c'era nessun nero inchiostro a contaminare la pelle. Rimasi incantata a osservare lo scollo di quella maglia troppo larga appiccicataglisi addosso, dal quale si intravedeva, segnata a fuoco, un'unica lettera, una “I” in stampatello, semplice, senza ghirigori e fronzoli da femminuccia, un marchio indelebile sul suo corpo. Mi chiesi se quel solitario grafema gliela avesse portata quella speranza che i suoi occhi spenti faticavano a bramare.


La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato. Una spessa cicatrice solcava il suo volto, sfregava la sua pelle in una linea che, sfacciata e insolente, rigava lo zigomo destro fino a scendere alla guancia sinistra deturpando le labbra; era perfettamente rettilinea e simmetrica nel suo andamento sbieco come se volesse beffeggiarsi di quella meravigliosa e armoniosa brutalità di lineamenti decisi e marcati che mi faceva girare la testa. Non lo so perché lo feci, non ricordo l' ardore che azionò il mio braccio e poi la mia mano, so solo che mi mossi per quanto fosse intenso il formicolio dei miei muscoli, l'accarezzai per tutta la sua lunghezza, percorsi quella greve piega imprimendone il tracciato nella mia mente, ne saggiai le forme, la morbidezza, le increspature disegnandone una mappa sui miei polpastrelli, sfiorai con il solo dito indice i luoghi da lei segnati per paura di spezzarla, di cancellarla.


La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello.


Aveva i capelli neri incollati alla faccia e in mano teneva una bottiglia di rum ancora da iniziare. I suoi occhi erano offuscati, smarriti, cinerei come le nuvole autunnali, nessuna sfumatura a colorarli, imbambolati a guardare le espressioni del mio viso, mentre la mia mano scandiva, ipnotizzata, i contorni del suo, ma senza vedere nulla realmente. In un secondo il suo sguardo si fece madido di livore e le sue dita furono leste a circondare con forza il mio polso e a scansare i miei polpastrelli dalla sua pelle, la sua figura si allontanò poco dopo barcollando per la strada. Mi chiesi se il giorno seguente si sarebbe ricordato di me, della ragazzina scalza, con il pigiama bellamente adornato da stelle e cavallucci marini e con i capelli scarmigliati, della ragazzina dalle dita impertinenti; mi domandai se quegli occhi annebbiati un giorno mi avrebbero visto davvero.


Dopo quella, miliardi furono le volte in cui lo vidi fino a quella in cui iniziai a sperare di poter ascoltare ancora la sua voce sussurrare a stento scarne parole, di poter ammirare i suoi occhi adombrarsi e di poter godere nuovamente del calore della sua pelle, celato al di sotto di quell'infima incisione, fino a quella in cui non ebbi la consapevolezza di essermi innamorata.

Tuttora, però, sto ancora aspettando che i suoi occhi mi vedano per la prima volta.


La guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine– uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire-vedere-sentire– perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere –solo– ricevere– negli occhi – il mondo.

  
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