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Autore: R e n e g a d e    04/02/2013    5 recensioni
Kaja si innamora della sua migliore amica, Charlotte. Un amore inconfessabile che la tormenta e del quale Charlotte non immagina neanche l'esistenza.
Un giorno un ragazzo entra nelle loro vite, Noah, che sconvolgerà completamente i loro mondi.
Le paure, le indecisioni, i dolori, i sentimenti fragili, fatti di sfumature, di tre ragazzi adolescenti, che si affacciano alla vita..
E ho capito che l'amore a volte non basta,
che può volerci un eternità per trovarsi, per viversi,
ma l'eternità non è più niente a confronto con l'amore.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Epilogo
 
Charlotte Schwarz
Köln. 2015, 22 Maggio.
Down here love wasn’t meant to be, it wasn’t meant to be for me.
Oh, something is missing in me, I felt it deep within me as lovers left me to bleed alone.
(Missing; Flyleaf)

Gettò indietro la testa stringendo con forza lo sportello della macchina mentre i gemiti le scappavano dalle labbra con forza, incontrollabili.

Era tutto silenzioso attorno a loro, c’erano solo i loro respiri concitati ed i loro corpi che si univano selvaggiamente l’uno all’altro, cercando di completarsi.
I vetri della macchina erano completamente appannati garantendogli una certa privacy di cui in realtà non avevano neanche bisogno.
Il sospiro gutturale di lui la riportò alla realtà e si rese conto che era tutto finito, almeno per lui.
Con forza la sollevò di peso e rigirò le loro posizioni per poterla dominare ancora e farle raggiungere l’agognato piacere.
Si perse nei suoi occhi blu ed immaginò che fossero i suoi, trasformò quei capelli neri come la pece in quelli biondi come il grano di lui e con quel pensiero venne velocemente sui sedili dell’auto sgangherata di lui.
Si tirò su a sedere con il fiato corto ed il senso di colpa che le attorcigliava lo stomaco.
Era sempre così: era lui, i suoi occhi, la sua voce; a volte era persino lei, con il suo sorriso e quegli occhi così verdi e tristi.
Erano loro, perché erano l’unica cosa che non poteva più avere.
Si portò le mani davanti agli occhi mentre poggiava la nuca sul sedile dell’auto cercando di recuperare fiato.
Era l’anniversario della sua morte. Cazzo, come aveva fatto a scordarselo?
Si vestì velocemente recuperando la maglietta nera dal sedile davanti, si infilò in fretta le mutande e tirò giù la minigonna che aveva indossato il pomeriggio prima. Agguantò le Converse nere e se le mise velocemente ai piedi per uscire da quella macchina che cominciava a starle stretta.
-Dove cazzo vai?
-Non mi rompere i coglioni- sibilò mentre gli chiudeva lo sportello in faccia pronta a raggiungere il cimitero il più velocemente possibile.
Infilò il viso dentro alla borsa e recuperò lo specchietto che portava sempre dietro.
Come sempre il trucco nero le era colato sotto gli occhi e con velocità si strofinò la pelle fino a cancellare ogni residuo.
Aveva il viso più pallido del solito, le occhiaie gonfie e ben visibili e l’aria sfinita.
Le piaceva la sua immagine allo specchio, era tutto il contrario di quello che era sempre stata.
Non era più la bambola perfetta, precisa, pulita e col viso truccato in modo impeccabile. Era trasandata, con i capelli spettinati, il trucco sfatto ed i vestiti abbinati a caso.
Dovevano essere circa le sette del mattino, erano più di 12 ore che era fuori casa. L’idea di tornare dentro quell’appartamento le metteva la nausea.
Non pensò neanche a controllare il cellulare per vedere se sua madre si era preoccupata della sua esistenza, sapeva che non l’avrebbe mai chiamata, che non si sarebbe neanche resa conto della sua assenza.
Da quando Aaron se n’era finalmente andato anche lei aveva preso il volo ed era diventata più assente di quanto non fosse già stata prima.
Si sentì tirare indietro con forza e si voltò di scatto incrociando gli occhi infuocati di Sascha.
La sua mano stringeva con forza il suo gomito.
-Un attimo prima stiamo scopando nella mia macchina e il secondo dopo te ne vai senza manco dirmi un cazzo?- sibilò avvicinando il volto al suo.
Alzò gli occhi al cielo.
-Non stiamo insieme, quante volte te lo devo dire?- sussurrò liberandosi con forza dalla sua presa.
-Cazzate- disse lui sbattendola contro il muro con violenza.
Infilò con forza la lingua nella sua bocca aggrappandosi con forza ai suoi capelli.
Le lasciò andare le labbra e la fissò dritta negli occhi.
-Tu sei mia- sibilò prima di morderle il labbro inferiore.
Si intrufolò con una mano fra le sue cosce, spostò le mutande e si fece spazio dentro di lei nel bel mezzo della strada e tutto ciò che lei riuscì a fare fu sospirare e contrarre lo stomaco dal piacere.
Si aggrappò alle sue spalle e mugolò di piacere mentre lui si spingeva più dentro deciso a farla venire all’aperto. Non le interessava neanche che qualcuno potesse vederli, che potessero denunciarli, si lasciò andare contro quel muro e venne con forza contro la sua mano.
Lui la lasciò finalmente andare e lei fu costretta a pulirsi con un fazzoletto di carta, per quanto possibile, mentre lui sorrideva soddisfatto.
Barcollò mentre si staccava dal muro e si rese conto del mal di testa post-sbornia che l’attanagliava.
-Devi smetterla- disse alzando gli occhi verso di lui.
-Mai- rispose lui col suo solito sorrisetto.
Fece schioccare la lingua e lo mandò a quel paese alzando il dito medio prima di cominciare a correre all’impazzata, per seminarlo.
Lo sentì ansimare alle sue spalle per qualche metro e poi sentì il rumore dei suoi passi arrestarsi.
-Vaffanculo, puttana!- le urlò contro mentre lei continuava a correre lontano da lui.
Si fermò solo quando era certa che non poteva più raggiungerla e quasi si accasciò in terra, senza fiato.
La sua relazione con Sascha, se così la si poteva chiamare, era iniziata circa un anno prima, per caso.
Aveva iniziato ad uscire sempre più spesso la sera, aveva conosciuto persone, era entrata in giri poco raccomandabili ed alla fine, una sera, aveva incontrato lui.
Avevano ballato, si erano ubriacati insieme, si erano ingollati qualche pasticca ed erano finiti nella macchina di lui, proprio come qualche minuto fa, a possedersi selvaggiamente.
Solo il mattino dopo aveva avuto modo di riconoscere il suo viso ed associarlo ad una vita passata che cercava di dimenticare ogni singolo giorno.
Sarebbe stato impossibile non ricordare il suo viso e Kaja in lacrime e Noah piegato sul suo corpo pronto a fare giustizia.
Aveva provato disgusto per lui e per se stessa ma aveva finito col vederlo ancora e non aveva fatto niente per fermare quel rapporto, mai.
Vedere lui le creava dolore, le faceva contrarre lo stomaco e le faceva venire il magone ma era la cosa più vicina che aveva alla sua vecchia vita.
Voleva dimenticare ma continuava ad aggrapparsi al suo passato con forza, sperando in qualche modo di poter tornare indietro. E lui le ricordava tutto ciò che era stato e che non era più.
Charlotte immaginava che Sascha avesse intuito la vera ragione per cui continuava ad uscire con lui e a concedergli il suo corpo ma immaginava anche che gliene fregasse ben poco.
Sascha non era cambiato affatto in quegli anni. Era un ragazzo violento al quale piaceva prendere tutto quello che voleva, anche con la forza se necessario.
Spesso le ricordava suo padre e la faceva rabbrividire di terrore e disgusto. Ma comunque non riusciva a lasciarlo veramente andare.
Spesso si ritrovava a pensare a cosa avrebbero detto loro se solo avessero saputo.
Non avrebbero approvato, ne era sicura, e forse era questo un altro grande motivo per cui si ostinava a vederlo.
Avrebbe voluto che Kaja potesse dirle quanto schifo le faceva, avrebbe voluto vederla arrabbiata con lei, sconvolta e con le lacrime negli occhi.
L’amara verità, che aveva iniziato ad accettare lentamente, era che l’amore non era fatto per lei, non le era stato concesso il dono d’amare veramente e finiva col bruciare tutto quello che toccava.
Appoggiò la testa al muro del palazzo e chiuse gli occhi rivivendo per l’ennesima volta quel bacio dato di getto e quegli occhi spalancati, pieni di terrore.
Aveva detto “ti amo” solo a due persone nella sua breve vita e tutto ciò che aveva ottenuto era quello: il niente, la solitudine e l’odio per se stessa.
L’avevano lasciata, abbandonata per sempre, e lei non aveva fatto altro che andare sempre più a fondo fino a diventare la pallida ombra di se stessa.
Non c’era più niente di Charlotte in lei, adesso, non c’era più niente d’amare, niente da salvare.
Si asciugò velocemente gli occhi e sospirando ricacciò indietro tutti quei ricordi, tutti quei pensieri e si alzò in piedi.
Inspirò con forza e si strinse le braccia attorno al petto tentando di controllare il tremito che l’attanagliava: era già in astinenza.
Cercò di non pensare neanche a quello e percorse la strada velocemente, senza neanche guardare dove andava. I suoi piedi conoscevano la strada a memoria, non aveva bisogno di rendersi conto di dove si trovava, le sue gambe avrebbero sempre trovato la strada per lei.
Era come se l’anima di lui continuasse a chiamare la sua, guidando i suoi passi, annebbiando la sua mente.
Inspirò a fondo e posò gli occhi sulla lapide sentendo già gli occhi bruciare sotto il peso delle lacrime che volevano scappare, fuori dal suo controllo, e precipitare in terra.
Sospirò e si accoccolò in terra fissando per minuti interminabili la foto di Noah, i suoi occhi brillanti, il suo sorriso così vivido da sembrarle vero.
Si allungò e sfiorò la superficie fredda della cornice lasciandosi sfuggire un singhiozzo.
Anche se andava a trovarlo tutti i giorni faceva sempre male, quel giorno più di altri.
-Mi manchi- sussurrò mordendosi il labbro inferiore che aveva iniziato a tremare mentre tentava di inghiottire tutto il suo dolore.
Passava ore nel cimitero a parlargli, come se lui potesse risponderle. Le dava l’impressione di averlo ancora affianco e Dio se ne aveva bisogno.
Senza più una guida, un amico che potesse considerarsi tale, era andata completamente alla deriva e quell’appuntamento quotidiano era l’unica cosa che riusciva ancora a tenerla a galla.
-Gli ho scritto un’altra lettera ieri- sussurrò guardandosi le unghie smaltate di nero –Però non riesco a spedirgliela … - aggiunse torturandosi lo smalto con le unghie fino a staccarne qualche pezzo.
-Vorrei dirglielo- disse ancora – di Sascha – aggiunse come se lui avesse un’espressione confusa sul viso –Ma non penso che mi risponderebbe- si strinse nelle spalle ed affondò la testa nelle braccia.
Aveva bisogno di un abbraccio, aveva bisogno del suo calore, del suo respiro fra i capelli, del suo profumo, della sua voce.
-Mi manca- sussurrò improvvisamente scoppiando in un pianto incontrollato.
Sentiva il petto bruciarle d’amarezza e le lacrime impedirle il respiro.
Kaja era sparita nel nulla, non era più tornata per lei, né per lui. E l’idea che li avesse lasciati andare entrambi la distruggeva.
Come poteva aver abbandonato Noah? Perché non era più tornata per lui?
In quegli anni Charlotte non aveva fatto altro che restare nel Cimitero tutto il giorno aspettandosi il suo arrivo, ma non era mai successo niente.
Odiava dover essere il passato di una persona che amava ancora, odiava il fatto che fosse stato così semplice per lei lasciarla andare.
Non riusciva neanche più a smettere di chiedersi come sarebbero andate le cose se a morire fosse stata lei. Forse il mondo sarebbe stato un posto migliore. Forse Kaja sarebbe stata più felice.
Ricacciò indietro le lacrime e si asciugò il viso con stizza.
Perché lei non riusciva a fare altrettanto? Perché non riusciva a lasciarla andare?
La amava esattamente come prima ma aveva anche iniziato ad odiarla. Sì, lei la odiava.
Perché Kaja era il centro dei suoi pensieri e lei non riusciva ad essere lo stesso. Perché era lei quella che era rimasta indietro, quella che non riusciva più a staccarsi dalla sua adolescenza.
Si alzò da terra e si baciò una mano prima di poggiare le dita sulla foto di lui. Non avrebbe aspettato un’altra intera giornata per lei. Non voleva più pensare; era solo stanca.
Le ore si accumularono improvvisamente, si sovrapposero, e lei cominciò a perdere la cognizione del tempo che passava.
Guardò la birra fra le sue mani e ne bevve metà in un solo sorso.
Aveva bisogno di dormire e, probabilmente, di mangiare.
Si allontanò in completa solitudine dal bar e percorse la strada che l’avrebbe portata a casa in compagnia della sua birra.
Sospirò sonoramente quando arrivò all’incrocio di casa sua e per poco non fece cadere in terra la bottiglia quando la vide.
Era lei, col suo viso pallido, gli occhi verdi più grandi di quanto li ricordasse, la bocca contratta in un’espressione indecisa. Aveva i capelli neri sciolti, lunghi ben oltre il seno ed era dannatamente bella.
Un sorriso si dipinse sul suo volto mentre scorreva la sua figura. Era solo un sogno? O era tornata? Per lui? Per lei? Per loro?
I suoi occhi si posarono infine sulla sua mano sinistra e la trovò intrecciata a quella di qualcun altro.
Rialzò gli occhi e lo vide, con l’espressione seria ed i capelli biondi, come quelli di LUI.
Guardò oltre loro e riconobbe Chaz e Dale alle loro spalle. La band di Kaja.
Tornò a fissare il volto di lui, Bent, e lo vide mentre si voltava verso di lei, sussurrandole qualcosa all’orecchio.
Lei annuiva, distratta, senza staccare gli occhi da casa sua.
Stava per avvicinarsi quando le tornò in mente il suo stato: la bottiglia di birra, il viso bianco, il trucco disastrato, i vestiti che le andavano ormai troppo larghi.
Fece un passo indietro e sprecò l’unica occasione che  probabilmente avrebbe mai avuto di rivederla e di parlarle.
Kaja si voltò verso Bent, sorrise e si appoggiò a lui mentre si allontanavano ancora dal passato, dalla strada che aveva segnato le loro vite.
La osservò mentre se ne andava, scomparendo nel nulla, come aveva fatto anni prima.
Si accasciò in terra e pianse tutte le sue lacrime. L’aveva persa ancora una volta, aveva permesso a se stessa di lasciarla andare, non aveva neanche provato a raggiungerla, a cercare il suo affetto ormai perduto.
E fu l’ultima volta che Charlotte Schwarz vide Kaja Berger.

 
Kaja Berger
Köln. 2015, 22 Maggio.
It’s hard to dance with the devil on your back so shake him off, and given half the chance would I take any of it back, it’s a fine romance but its left me so undone, it’s always darkest before the dawn.
(Shake it out; Florence and the machine)

Erano tre anni, tre lunghissimi anni, che non tornavo a Köln. Ero scappata da tutto e da tutti, avevo voluto dare un taglio alla mia vita, a quella vita e mi ero illusa che lasciare la città mi avrebbe permesso di lasciarmi alle spalle il dolore che provavo.
In realtà il dolore mi aveva accompagnata lo stesso in quegli anni, era diminuito certo, ma era sempre presente.
Mi ero trasferita a Berlino con mia madre circa una settimana dopo la confessione di Charlotte.
Non riuscivo più a respirare in quella città, non riuscivo neanche più a distrarre la mia mente da Noah e Charlie. Avevano rappresentato tutta la mia esistenza per troppo tempo ed avevo bisogno di diventare qualcos’altro.
Non potevo più essere la Kaja di Charlie, né la Kaja di Noah. Dovevo poter essere qualsiasi cosa volessi essere, dovevo vivere solo per me stessa se volevo un futuro.
Mi lasciai tutto alle spalle e soffrii in modo indescrivibile. Piansi, urlai, mandai in frantumi metà della mia stanza ma alla fine ne venni fuori.
Avevo provato l’impulso di contattare Charlotte mille volte ma non l’avevo mai fatto. Per paura, per orgoglio, per un milione di ragioni.
Io e Charlotte non ci appartenevamo più e tornare indietro sarebbe stato impossibile.
Avrei dato tutto quello che avevo per rivivere tutto da capo, per correggere i miei errori, per aprirmi prima con lei, ma non potevamo annullare il tempo passato, non potevamo cancellare le nostre decisioni.
Eravamo diventate due persone completamente diverse, non eravamo solo cresciute, noi eravamo cambiate nel profondo.
Sentivo, in quegli anni più che mai, che le nostre diversità erano diventate troppe per mantenere un qualsiasi tipo di rapporto.
Tra il dolore e l’amarezza provai spesso anche un forte senso di colpa: l’avevo lasciata a se stessa, ne ero più che consapevole, e sapevo che senza di me sarebbe andata a fondo, ma sapevo anche che non potevo permetterle di aggrapparsi a me, mi avrebbe solo trascinata con sé.
Aggrapparsi con troppa forza a qualcuno era deleterio, l’avevo imparato duramente e non avrei mai permesso a nessuno di aggrapparsi a me come avevo fatto io con gli altri, né avrei permesso a me stessa di dipendere totalmente da qualcun altro.
Sentii gli occhi bruciare mentre poggiavo la fronte al vetro del treno nel quale mi trovavo. Riuscivo già a scorgere in lontananza Köln e non riuscivo a non sentire un certo rimorso per quel viaggio.
Dopo tre anni avevo finalmente deciso di tornare nella mia città, da lui.
Quel 22 maggio erano tre anni che Noah era scomparso dalla mia vita, non gli avevo mai detto veramente addio, neanche quando avevo lasciato Köln.
Sentivo, più che mai, il bisogno di visitare la sua tomba anche solo per un’ultima volta.
Avevo confessato i miei sentimenti ai ragazzi della band, che nel frattempo mi avevano raggiunto a Berlino diventando una parte fondamentale della mia vita, ed erano stati proprio loro infine a convincermi.
Avrei voluto fare quel viaggio da sola e provare a me stessa che ero forte abbastanza, ma nessuno di loro mi avrebbe mai lasciato andare da sola fino a Köln e mi ero ritrovata in un treno verso la nostra città natale con tutti e tre al mio fianco.
-Ci sono qui io- sussurrò Bent al mio orecchio riportandomi alla realtà.
Mi voltai verso di lui e sorrisi timidamente. Sapeva sempre cosa dire e quando dirlo, sapeva tutto di me e sapeva interpretare ogni singola espressione del mio viso. Come c’era riuscito anche lui.
Non saprei dire neanche io come iniziò il mio rapporto con Bent, venne tutto in modo così naturale e semplice che stentammo ad accorgercene entrambi.
Circa un anno prima lui aveva finito col farsi avanti ed io l’avevo lasciato fare, l’avevo accolto appieno nella mia vita e mi ero data la possibilità di amare ancora quando, fino a qualche mese prima, non avrei neanche pensato di poterlo fare.
Gli posai le labbra sulla mano, che stringeva la mia, ed annuii. Ero grata della sua presenza, ero grata per il suo modo di essere e per come riusciva a comprendermi.
Non avrei mai smesso di provare dolore per la scomparsa di Noah, non avrei mai smesso di amarlo e non avrei mai smesso di pensare a come sarebbe potuta essere la mia vita con lui se fosse stato ancora in vita. Ma Bent questo lo capiva e, stranamente, lo accettava.
Mi ritrovai quasi senza accorgermene all’interno del cimitero e sentii lo stomaco attorcigliarsi.
Decisi di fermarmi prima da mio padre, nel vano tentativo di calmare il mio cuore agitato, e poi raggiunsi anche la tomba di Noah.
C’erano dei fiori freschi ed immaginai che i suoi genitori dovevano avergli già fatto visita.
Mi sentii improvvisamente schiacciata del senso di colpa per l’averlo abbandonato a quel modo.
Mi ero sempre chiesta se i suoi genitori, e Charlotte, avessero mai pensato che mi ero dimenticata di lui così facilmente, lasciandomelo alle spalle senza alcun rimorso.
Bent lasciò andare la mia mano e si allontanò lentamente per concedermi un po’ di spazio.
Non volevo che mi vedesse piangere ma non riuscii a trattenere le lacrime molto a lungo.
Singhiozzai silenziosamente fissando i miei occhi in quelli ridenti della foto e sentii una fitta allo stomaco quando spostai lo sguardo sul suo sorriso. Quel sorriso.
Lui sarebbe stato orgoglioso di me, di come avevo affrontato quel dolore, di come mi ero rialzata e sarebbe stato felice di vedermi serena, con accanto una persona d’amare  e degli amici fantastici.
Lui non mi avrebbe mai voluta triste, sola, abbandonata a me stessa e senza scampo.
Quel pensiero mi tranquillizzò quanto necessario per asciugarmi il viso e sorridere mestamente alla sua foto mentre sospiravo sonoramente.
-Mi dispiace- sussurrai, semplicemente.
Avrebbe capito, come aveva sempre fatto, senza il bisogno di aggiungere nient’altro.
Non avevo mai avuto bisogno di parole con lui quand’era vivo e non ne avevo certo bisogno ora che non c’era più.
Mi strinsi nelle spalle e chiusi gli occhi cercando di sentire la sua voce nella mia testa.
Un brivido mi percorse la schiena quando riuscii veramente a sentirla, come se fosse lì, al mio fianco, con le labbra a un centimetro dal mi orecchio.
“No. Sii felice e basta.” – sorrisi immaginando che se avesse potuto mi avrebbe detto quelle esatte parole. Non dovevo dispiacermi. Dovevo solo essere me stessa ed essere felice.
“Sii felice.” – ripeté la voce mentre una lacrima mi rigava nuovamente il viso.
“Ti amo”.
Sentii l’aria mancarmi improvvisamente ed aprii gli occhi per ricordare a me stessa che non c’era, che stavo solo immaginando.
Avrei dato ancora qualunque cosa perché potesse tornare indietro da me, perché potessi averlo di nuovo nella mia vita, lì accanto a  me.
“Ti amo anche io”, pensai alzando gli occhi al cielo per ricacciare indietro le lacrime.
Mi allontanai dalla sua tomba cercando di ricacciare indietro il senso di colpa. Non lo stavo abbandonando ancora, sarei tornata. Lo giurai proprio in quel momento e avrei fatto di tutto per tornare a trovarlo. Glielo dovevo. E lo doveva anche a me stessa.
Sulla via d’uscita del cimitero mi cadde l’occhio su un nome familiare: “Schwarz”.
Per un attimo pensai al peggio, pensai di aver perso in modo definitivo anche Charlotte.
Il cuore smise di battere mentre il sangue mi defluiva dal viso; avevo paura persino di controllare il nome sulla lapide. Ma alla fine mi decisi e lessi, con sollievo, “Aaron”.
Era morto, anche lui, in chissà quali circostanze, e non riuscivo a provare neanche un briciolo di dispiacere per la sua dipartita.
-Andiamo- sussurrò Bent unendo la sua mano alla mia.
Annuii e ci incamminammo versa la mia vecchia abitazione; non avevo idea di chi vi vivesse ora, non avevo mai voluto sapere nulla dei nuovi proprietari, non avevo mai voluto sapere niente sulle notizie che potessero riguardare la mia città natale.
Rivedere la mia casa mi fece un certo effetto, era sempre la stessa ma anche così profondamente diversa. Mi fece sorridere rivedere gli scalini che conducevano alla porta, il piccolo giardino, la finestra della mia vecchia camera.
I ricordi mi invasero la mente con una dolcezza estrema: la finestra dalla quale vidi Charlotte e Noah baciarsi la prima volta, dalla quale lanciai il computer in preda alla disperazione, la porta che avevo sbattuto un miliardo di volte in faccia a entrambi e contro la quale avevo dato il mio primo bacio a Noah, gli scalini dove lui mi aveva dimostrato quanto geloso fosse.
Abbassai gli occhi in terra e quando li rialzai li puntai sulla casa di Charlotte. Abitava ancora lì, lo sapevo, e mi sembrava tutto uguale a tre anni prima.
Mi avvicinai titubante e osservai attentamente la finestra della sua stanza come avevo fatto ininterrottamente quattro anni prima, cercando di ottenere il suo perdono.
Non ci fu però nessun movimento e seppi che non era in casa. Charlotte aveva sempre avuto la capacità di percepire la mia presenza, era sempre riuscita ad affacciarsi alla finestra quando io ero intenta ad aspettarla, in mezzo alla strada.
Non riuscii a non pensare a cosa ne fosse stato di lei e la tristezza prese il sopravvento nuovamente.
Pensai anche di suonare alla sua porta. Volevo sapere ma allo stesso tempo avevo troppa paura.
Non avevo la forza, né il coraggio, di affrontare le eventuali conseguenze della nostra separazione.
-Vuoi andare via?- mi chiese Bent, sussurrando.
Annuii distrattamente e mi lasciai trascinare lontano da quel luogo che non volevo mai più rivedere.
Portava con sé troppi ricordi, troppa sofferenza e decisamente troppo senso di colpa.
Era finita la giornata, eravamo quasi arrivati alla stazione per ripartire, quando la vidi, da lontano.
Avrei potuto riconoscerla fra mille. L’avrei riconosciuta sempre, ovunque. Persino oggi riuscirei a distinguerla nella folla, anche dopo tutti gli anni che sono passati.
Il suo incarnato sempre bianco, quasi luminescente, e quei capelli lunghi e dannatamente rossi, come il fuoco, come un segnale di pericolo.
Mi fermai improvvisamente incapace di muovere un singolo muscolo, con gli occhi puntati su di lei.
Era dimagrita, riuscivo a vederlo bene, ed era diversa, molto diversa.
Era in mezzo a persone che non avevo mai visto e che non avevano per niente un aspetto rassicurante.
Rideva, sembrava felice e, anche se la sua compagnia non mi ispirava grande fiducia, mi sentii più tranquilla all’idea che avesse trovato anche lei la sua serenità.
La osservai attentamente, chiusa nei suoi vestiti neri, col trucco nero sugli occhi, e cercai di recuperare l’immagine della Charlotte di quattro anni prima, di quella bambola apparentemente perfetta ed irraggiungibile.
Ci misi qualche minuto a capire che era completamente ubriaca, come il resto del suo gruppo, e trasalii quando vidi una ragazza passargli una pasticca con molta nonchalance.
Immaginai che avrebbe rifiutato ma non lo fece, anzi, rise e la buttò giù velocemente, accompagnata da un sorso di birra.
L’orrore che provai fu infinito e sentii salire la nausea. Era questo che era diventata senza di me?
Un’ubriacona drogata? Era arrivata così infondo la sua disperazione?
Sentii le lacrime invadermi gli occhi ma le trattenni e distolsi lo sguardo.
Non avevo alcun diritto di giudicarla, non più. Lei non era la mia Charlotte. Non lo era da tempo.
Stavo per allontanarmi, con quel senso di colpa sullo stomaco, quando lo vidi.
Anche lui l’avrei potuto riconoscerlo fra mille persone. Lui con i suoi occhi azzurri ed i capelli più scuri di quanto li ricordassi, lui che aveva cercato di approfittarsi di me. Sascha.
Lo vidi avvicinarsi a Charlotte e per poco non urlai quando la attirò a sé e la baciò davanti a tutti, senza alcun pudore, infilandogli le mani sotto la maglietta, sfiorandole la schiena.
Il disgusto che avevo provato fino a quel momento salì esponenzialmente lasciandomi senza fiato.
Come poteva essersi abbandonata a lui? Come aveva potuto lasciarlo anche solo avvicinare?
Per un istante fui sul punto di correre da lei e strapparla dalle mani di Sascha, ma mi trattenni. Dovevo ricordare che non avevo più alcun diritto su di lei, non avevo più alcuna voce in capitolo sulla sua vita.
Sentii le braccia di Bent circondarmi e sussultai, avevo quasi dimenticato della sua presenza.
-Andiamo via, piccola- sussurrò trascinandomi lentamente con sé.
Quella fu l’ultima volta che rividi Charlotte in vita mia e il modo in cui l’avevo vista mi tormentò a lungo facendomi perdere anche parecchie ore di sonno.
Era troppo tardi, ormai, per porre rimedio, per tornare indietro, per salvare le nostre anime.
 
Non dimenticherò mai i miei anni a Köln, né Charlotte e Noah. Li porterò sempre nel mio cuore perché sono parte di me, perché mi hanno reso la persona che sono oggi e perché mi hanno insegnato cosa significa amare, cosa significa lasciarsi andare ed essere se stessi. Mi hanno insegnato a non nascondermi dietro qualcosa che non sono, mi hanno insegnato a non aggrapparmi agli altri, mi hanno insegnato a lasciar entrare le persone nella mia vita e a superare la loro scomparsa. Ed io gliene sarò sempre immensamente grata.
Nonostante il dolore, la sofferenza e l’amarezza, gli anni di Köln sono stati i più belli della mia vita perché hanno formato il mio carattere e perché non riesco a non sorridere ripensando a tutto quello che abbiamo vissuto insieme.
La cosa più importante che imparai nella mia adolescenza è che siamo tutti delle bambole, che ci nascondiamo tutti dietro delle maschere per paura che gli altri ci spezzino il cuore, e che i rapporti che installiamo fra noi sono fragili come la porcellana. Basta una spinta, un soffio di vento e cadiamo e ci spezziamo. E quando non ci spezziamo ci incriniamo, per sempre.
Il trucco è rimettere assieme i cocci, il prima possibile, ed andare avanti.
Io non ho più paura di me stessa, di quello che sono. Non ho più paura di mostrare le mie ferite, tutte le mie venature, al mondo. E non dovreste averne neanche voi.

 
 
 
 
 

FINE
 

blablablah: siamo giunti alla fine. Sto piangendo da stasera alle otto, mentre scrivevo, e se penso che è finita veramente ricomincio: rendetevi conto di come sto!
Spero che l'epilogo vi sia piaicuto e che l'abbiate trovato in linea con la storia. Ho voluto anche spiegare il significato del titolo, "porcellana", nelle ultime parole di Kaja e spero che sia più chiaro adesso la scelta che ho fatto.
L'epilogo rappresenta l'opposto del primo capitolo. L'assenza di Noah, che sembrava essere la chiave per la relazione amorosa Charlotte-Kaja, alla fine si dimostra essere deleteria. Noah è diventato il collante fra Charlie e Kaja e senza di lui non sono più niente l'una per l'altra.
Si vorranno per sempre bene ma non potrebbero mai avere un rapporto, non dopo tutto quello che c'è stato.
Per qualsiasi domanda chiedete pure, risponderò a tutti i vostri dubbi.
Ora però è arrivato il momento di dire loro addio, probabilmente per sempre, e di lasciarli andare.
Ed io voglio ringraziare tutti: le persone che mi seguono dall'inzio, chi ha iniziato più in là, chi ha scoperto la storia adesso e chi la scoprirà in futuro.
Voglio ringraziare chi mi è stato vicino e mi ha incoraggiato a non abbattermi mai. Voglio ringraziare chi ha creduto in me e ha sopportato tutte le mie crisi.
In particolare voglio ringraziare Sanda, Laura e Jess che da qualche mese si subiscono tutte le mie paure ed i miei dubbi sulla storia e che sono sempre state pronte a consigliarmi e supportarmi (SOPPORTARMI) nonostante tutto.
Voglio ringraziarle perché non hanno mai smesso di spronarmi ad andare avanti, anche a suon di minacce XD, e non hanno permesso che eventi esterni mi bloccassero. Grazie ragazze, vi voglio bene.
E poi voglio ringraziare te che stai leggendo questa nota e che hai seguito la storia fino alla fine.
Voglio ringraziarti, lettore, per aver recensito, per avermi supportato -disco rotto- e per aver amato questa storia e questi personaggi.
Voglio ringraziare tutti perché non avete idea di quello che avete rappresentato per me. Un sostegno, un motivo per mettercela tutta. Il mondo.
Essere stata in grado di far ridere, piangere ed arrabbiare è motivo di gioia per me. Avete amato i miei personaggi come li amo io e non c'è niente di più bello di questo. Li avete odiati, a volte. E va bene lo stesso perché significa che siete entrati in contatto con loro.
Ed è ora di chiudere il poema davvero, e lo faccio con un ultimo grazie di cuore.
Sappiate che mi avete reso una persona migliore e che mi avete fatto crescere e non potrò mai esservi grata abbastanza.

   
 
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